Lui suonava nei The War on Drugs, faceva del buon indie rock senza troppe sbavature e viaggiava tantissimo nelle praterie americane tra concerti, birre e legna profumata. Ora pubblica un album da solista, il secondo su Matador ed il terzo della sua carriera come tale. Si chiama Kurt Vile e viene da Philadelphia. L’ultimo lavoro è un EP, si intitola It’s a big world out ( and I’m scared) ed è suonato assieme ai Violators, la sua band personale, se così possiamo chiamarla. Dopo un’alba all’insegna della forza punk rock e rock’n’roll, con il suo ultimo lavoro Vile ci propone sette perle di country rock che arrivano dritte al cuore: ritmate, dolci, avvolte da un’aura di magia che raramente si trova in album solisti che riguardino il genere.
Una musica che grazie a lui raggiunge le coste di Hoboken (sì, sono fissato con Hoboken) trovando le proprie radici nell’outback americano più sconosciuto e rurale con i suoi ritmi ovattati, la sua armonia negli arpeggi ed il suo forte contenuto emotivo e politically correct. The ghost of Freddie Roach ne è l’esempio più lampante: trascinante e fatata come lo svegliarsi una domenica dopo una sbronza e trovare la città sotto la neve. Che dire poi di Wedding Budz, apocalittica e corroborante ballata strumentale?Chi ama la musica non può che adorare Kurt Vile, un artista che, da sempre rimasto al di fuori di qualsiasi speculazione musicale ed attitudinale, ha trovato un modo tutto nuovo di trasmettere sonorità ed emozioni. Unendo la campagna alla città, il mare ai monti, il country al rock ed alla new wave senza usufruire di una ben precisa eredità e senza mai risultare scontato. Dimenticavo la copertina che pare un disco dei Tarkus. O forse dei Creedence. Genio. Andrea Vecchio
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