25 dicembre 2004

Premio "Provincia cronica" (seconda edizione - sezione poesia)
Ines Gastaldi Carretto - Domani è un altro giorno


IL RAGNO E LA SUA TELA
Tra fili d’erba un ragno ha tessuto,
questa notte, la sua argentata tela,
ove suole aspettar paziente e astuto
dondolando al vento al pari d’una vela.

L’insetto nella trappola è caduto,
per lui la vita è un soffio di candela;
una farfalla un fiore ha posseduto,
va divorando un bruco la sua mela.

Si chiude il ciclo breve della vita
ma la natura sempre generosa
alle meraviglie sue ancor ci invita:

a sentire il profumo d’una rosa,
a guardar luoghi di beltà infinita,
ad apprezzare il dono d’ogni cosa.


QUIETE
Quando il sole si fa palla di fuoco
ricama una striscia d’oro sul mare
e semina brulicanti scintille,
come d’incanto riemerge la nave
dei sogni calpestati e distrutti
da una violenta tempesta nel cuore.
Naviga lenta, invitante e leggera
sospinta dalla brezza del tempo.
Lascia nel solco profondo dell’onda
scie di pensieri e di tristi ricordi,
cercando sull’infinita distesa
un bagliore di fiaba all’orizzonte,
approdo a un’isola nuova ed antica
e il fiorir di bianchi gigli di mare.


RITORNANO I RICORDI
Una giornata limpida e serena,
in lontananza un rombo d’aeroplano
ricordi fan tornare sulla scena
d’un tempo vecchio ormai lontano.

Vagano rotolando insieme ai sassi
d’una stradina stretta di campagna
rimossi già dai miei incerti passi,
han la malinconia come compagna.

Poi lenti sottobraccio se ne vanno
fardello dolce amaro della vita,
nelle stanze del cuore resteranno.

A rigiocarsi ancora una partita
un poco più appannati torneranno
perché la vita ancor non è finita.


QUEL GIORNO DI SOLE
Di malavoglia si levò
quel giorno il sole,
desolato e pallido,
sulle macerie e sul dolore,
sulla polvere e la disperazione.
S’alzò sulla malvagità
dell’uomo contro l’uomo
e tristemente s’oscurò,
poi scorse la solidarietà
la bontà e l’abnegazione
dell’uomo verso l’uomo.
Allora intensamente volle
donare un raggio di speranza
ad anime pietrificate
e riscaldare i cuori
che all’improvviso
di ghiaccio erano diventati.


FRAGORE DI MARE
Ascoltare il fragore del mare
ed echi di voci lontane,
vedere gabbiani volare
e il capo a picco tuffare
nella schiuma che sale.
Sentir rotolare gli scogli
e l’onda argentata di ulivi
rincorsa dal vento fischiare.
Aspettar che il tempo riporti
uno squarcio di cielo sereno,
un furtivo raggio di sole,
la gioia, la luce e il calore.
Sperare che possa tornare
a fiorir profumo di viole.


VORREI ESSERE RONDINE
Vorrei... vorrei essere rondine,
poter abitare nel vento,
nel vento conoscere il mondo,
sfiorare le cime dei monti
carezzare l’onda del mare,
librarmi felice nel sole,
spargere su paesi e città
parole a grandi manciate,
soltanto parole di pace.
Se stanno abitando nel vento
incontrare i poeti di un tempo.
Infine, come Ulisse, vorrei
ad Itaca mia ritornare.


L'AMICIZIA
Uscir di casa vorrei una mattina
ed incontrare l’amicizia vera.
L’han riarsa come scopa di saggina;

era cosa finta e anche passeggera
null’altro che cocente delusione
d’un sentimento bello che non c’era.

Bisognerà pur farsi una ragione,
non perdere del tutto la speranza,
qualcuno ci sarà in circolazione

che sappia accantonare l’arroganza
e ancora voglia porgere una mano,
dell’amicizia dar testimonianza.

So già che non dovrò cercare invano:
ci son persone con un cuore grande,
che il mondo sanno rendere più umano.


LE PAGINE DEL MARE
L’onda quieta sfoglia sulla rena
le pagine che nell’inverno
il mare triste ama ricordare:
... pullular di gente sulla spiaggia,
gioiosi tuffi tra gli spruzzi.
…echi di conchiglie tra le mani
curiose e innocenti di bambini.
…un’onda lunga e birichina
spazzar via effimeri castelli.
…ritorni di barche e pescatori
stanchi e guizzar d’argento vivo.
…reti lacerate sulla spiaggia,
mani operose a rammendare.
…vele bianche issate al vento
a competere in prove di regata.
…giornate uggiose di bonaccia
ed altre rugginose di grecale.
…un pugno sferrato dalla terra
all’improvviso in pieno petto;
…un’onda anomala e assassina
s’alzò a sconvolgere altri lidi,
…bocconi amari come il fiele
troppo duri da ingoiare!
…tramonti rossi ed infuocati che l’astro
van sciogliendo dentro il mare.
…pagine bianche ancor da riempire
che il sole spuntare rivedranno
nella brezza leggera del mattino
e …ali trasparenti di gabbiani
riflesse in infiniti specchi.

23 dicembre 2004

Premio "Provincia cronica" (seconda edizione - sezione poesia)
Alberto Callegaro -Le complicanze affettive

LE COMPLICANZE AFFETTIVE
Stante la perdurante mancanza
di 2000 carezze candide,
di 50 effusioni ascetiche,
di una dozzina di unione solide;
cercherò transazioni ganze
con le grinze e le immersioni marine
di un’amabile donna in carriera.
Nel cor di un parquet sdrucciolevole,
Cora ballò il libertango,
dopodiché rinnegò il mio nome
e tutto ciò che saremmo stati.
Le chilometriche gambe
della suadente Anna Gamper,
in fuga dai negozi del centro;
raggiunsero – in un battibaleno,
il prode cavalier francese,
stabilitosi (da poco più
di una fradicia oretta),
dirimpetto al nuovissimo
studio del Sindaco di
Porto Sant’Elpidio.

ANCORA
Mi lascerò convincere
a rinunciare a noi,
non posso certo vivere
di mezze frasi, sai.
Io sarò ancora qui,
disilluso questo sì…
Beffardo prigioniero
dell’ennesima rinuncia.
Eppure ho creduto che
lottando insieme a te,
avrei potuto vincere
la grande solitudine.
Sogno di fuggire via,
ma la strada mia qual è?
Schiavo della nostalgia
e ancorato ad un perché.
Abbatterò gli ostacoli
e al tempo ruberò:
uno sguardo e mille brividi
per amarti più di un po’.
Io sarò ancora qui…
Con la mia semplicità,
rosa rossa nell’inverno
che imperterrito verrà.


GIOVANI FUSCELLI
Io e te,
tu ed io.
Io e te,
tu ed io e Dio.
Io e te,
tu ed io e Dio e i reduci di Sion.
Io e te,
tu ed io e Dio e i reduci di Sion
e infine il cigolio.
Io e te,
tu ed io e Dio e i reduci di Sion
e infine il cigolio del cigolio.
Io e te,
tu ed io e Dio e i reduci di Sion
e infine il cigolio del cigolio
dell’amaca di Amalia.
Io e te,
tu ed io.
Giovani fuscelli
a un passo dall’addio.

PERDUTAMENTE
Rivisitando i luoghi anomali in cui
perdutamente io di te mi beai;
non nego certo di avere in animo
di ripartir pervicacemente
dall’ennesima Marzabotto sentimentale.
Intento a ricucir
un altro strappo al cuor,
ricordo con piacer
la panterona bionda
che si accomiatò -tout court-
dalla redazione bolognese de
"Il Resto del Carlino".

E TUTTI RISERO DI ME
La paperetta Simonetta;
appena fuoriuscita
dalla gora gongolante,
cozzò violentemente
contro il mio corpo esangue.
Durante il lungo dormiveglia susseguente
il singolarissimo incidente,
mi parve di udire in vicinanza,
il vociare inverecondo
di sette figurelle
intente a festeggiar
la mia presunta dipartita.
Rise di me
la ragazza Maltese - la quale:
non amandomi più,
rinnegò prontamente
l’intesa affettiva
fatalmente raggiunta.
Rise di me
il deus ex machina
(fautore di positività relative) che,
in virtù di una bieca doppiezza
prettamente maschile, indossò:
ora i panni del killer per caso,
ora il saio del frate novello.
Risero di me i mallevadori
del teatrino meccanico, allorquando:
prossimo alla fine
della recita annuale,
mi destai di soprassalto
per sputare in faccia al mondo
la mescalina inoculata
tramite aerosol.

L’ESTREMA RATIO
A volte, sul far della sera,
amo coltivar l’antico vezzo
di appoggiare gli occhialini
sulla bianca scrivania.
La luce fioca intorno a me,
blandisce a malapena
l’inadeguatezza latente
che mi dilania l’anima,
inducendomi (forzatamente),
a pronunziare frasi irripetibili
all’indirizzo della malafede altrui.
Imboccare finalmente
la viuzza del riscatto,
è la prima opzione percorribile…
Un colpo di revolver
in piena fronte,
rappresenta ancor per me
l’estrema ratio.

IL MALE OSCURO
Il male oscuro
che mi attanaglia,
è un gatto a nove code
raggomitolato sullo stomaco,
che mi strappa le budella
e le centrifuga a 360°,
onde ricavar grandi quantità
di salamelle da bucato.
Il male oscuro
che mi attanaglia,
è un lunghissimo filare
di pranzi a prezzo fisso
e ferite da cicatrizzare.
Il male oscuro
che mi attanaglia,
è incontrare “una di quelle”
davanti al solito portone;
senza avvertir
la benché minima brama
d’infilar la testa alessandrina
sotto l’ottava meraviglia
delle sue calde sottane.


BOICOTTATO
Gli sguardi dissacranti e voyeuristici,
spogliano finanche l’anima
più candida e innocente;
sconfinando nella pura formalità
di un aprioristico giudizio sommario.
Il provinciale pensare leggero,
mi ha condannato al lungo esilio
negli anfratti del silenzio.
…Di fatto boicottato
perché consideratola quintessenza del nulla.
Boicottato e mai al sicuro,
nemmeno tra le braccia
della donna benamata.
Gli angeli e i demoni
si fronteggian dentro me;
lanciando bombe d’inquietudine
che riducono in pezzetti
il mio cuore malaticcio.

IO
Io: penso molto
e non agisco quasi mai.
Io cado, mi rialzo e guardo il mare,
mentre scende leggerissima
una lacrima di sale.
Io mi rilasso ascoltando Bach, e
di tanto in tanto / esco indossando
un vecchio frac.
Io non sono un santo
e nemmeno un re,
ma all’occorrenza…
Mi trasformerò se vuoi,
nel prode condottier
che firmò infine l’armistizio.

DETTAGLI E FRATTAGLIE
Ti cercai…
Il giorno in cui m’innamorai
della commessa bell’assai;
che alla mia corte preferì
la compagnia di Paul Tatì.
T’incontrai…
Prima di quanto immaginai;
e insieme a te riverniciai
la garconniere del gentleman.
In silenzio allontanai,
senza fretta e forzature,
le recondite paure
di non esser pronto ed atto
a donar chili d’affetto
alla signorina “grandi forme”.

19 dicembre 2004

Premio "Provincia cronica"
(II edizione - sezione storie per bambini)
Valentina Sarmenghi - Una cisterna d'amore


Filippo quel mattino era proprio annoiato. A scuola la maestra stava spiegando l'area del trapezio e non capiva come questo potesse essere utile nella vita. Inoltre fuori continuava a piovere a dirotto, da giorni non si poteva andare al campetto a giocare.
“Che pizza tutta quest'acqua – pensò tra sé Filippo volgendo lo sguardo fuori dalla finestra – Almeno servisse a qualcosa...”.
Il concetto di utilità, come si può dedurre, era ben radicato in lui, gli era stato trasmesso da suo padre Giorgio, imprenditore nel campo dell'edilizia, un uomo tutto d'un pezzo, con la pancia che gli fuoriusciva dai pantaloni per almeno mezzo metro.
«Stai dritto con la schiena, fatti sempre rispettare – gli diceva sempre – e soprattutto non perdere tempo a fare cose che non portano a nulla».
Filippo voleva molto bene a suo papà e pensava che se gli consigliava di fare così era per il suo bene. Perciò ubbidiva. Solo che l'utilità a volte non si può sempre vedere subito: se metti le patate in forno dopo un po' diventano arrosto, ma non è così per tutte le cose, a volte bisogna essere molto più pazienti. Questo però Giorgio a Filippo non l'aveva spiegato. E nemmeno sua madre Isabella, sempre impegnata in qualche centro estetico o a qualche aperitivo con le donne del club di golf. «Filippo sei ancora tra di noi? - lo risvegliò la maestra - La pioggia non smette di certo se la guardi».
«A me piace molto pioggia» intervenne inaspettatamente Ravi, una bambina indiana arrivata in classe da qualche mese e ancora con qualche incertezza nel parlare l'italiano.
Filippo la trovava bellissima, con quei suoi capelli neri lunghissimi, gli occhi grandi nerissimi e quella pelle che profumava di sapori strani, che lui non aveva mai sentito. Si era sempre vergognato di parlarle un po' perché non sapeva cosa dire, un po' perché non capiva bene cosa gli stesse succedendo e infine un po' perché non era sicuro se farsi la fidanzata rientrasse tra le attività meritevoli indicate dal papà.
«E sentiamo, come mai?» le chiese la maestra che si rendeva conto che magari cambiare argomento per qualche minuto non avrebbe fatto male per risvegliare l'interesse della classe, crollato al minimo dopo la quinta formula geometrica.
«Mi ricorda casa mia – spiegò Ravi – C'è un periodo dell'anno che si chiama la stagione dei monsoni, durante il quale piove per tantissimi giorni di seguito, senza smettere mai. Ma noi facciamo tutto lo stesso, come quando c'è il sole e anzi è divertente perché usciamo per strada e ci schizziamo con l'acqua. Nel mio villaggio come anche negli altri, ci sono delle grandi cisterne che raccolgono l'acqua che poi serve per bagnare i campi quando viene la stagione secca. Lo so perché mio papà fa il contadino di lavoro, senza tutta quell'acqua non potrebbe coltivare proprio nulla, me lo ha detto tante volte».
«Ah sì bene che storia commovente. Però ora andiamo avanti con la geometria» tagliò corto la maestra, più interessata a finire in tempo il programma scolastico.
Gli altri bambini, e per primo Filippo, erano molto interessati, perché ascoltavano qualcosa che proveniva da un mondo lontano, che immaginavano così diverso, così irraggiungibile. E invece un pezzo di quel mondo era lì in mezzo a loro e sarebbero corsi immediatamente fuori sotto l'acqua come aveva detto Ravi. Invece dovettero sorbirsi un'altra mezzora di poligoni. Filippo tornò a casa sempre un po' annoiato ma con un filo di speranza in più riguardo alla possibilità di conquistare la sua compagna di classe. Ormai era deciso: il giorno dopo le avrebbe chiesto se voleva venire a fare i compiti a casa sua.

«Non so se mia madre è d'accordo» gli aveva risposto lei l'indomani. Lui sudava freddo e gli tremavano le gambe, ma ce l'aveva fatta, le aveva parlato.
«E poi oggi è la giornata dell'ecologia non torniamo a casa alle 4 come gli altri giorni».
Filippo se n'era completamente dimenticato e non l'aveva nemmeno detto ai suoi genitori. Era proprio in un bel casino.
«Vabé, facciamo un'altra volta» rispose cercando di non dare peso alla cosa.
Ci mancava solo la giornata dell'ecologia, ma non gli avevano già fatto una testa così con la raccolta differenziata?
«Oggi ragazzi parliamo di acqua» disse Marina, l'operatrice della Legambiente che ogni tanto veniva a far fare con loro dei laboratori.
«Come se non bastasse tutta quella che viene giù là fuori» mormorò fra sé Filippo.
Marina sembrò non essersi accorta del commento e continuò: «E' importantissimo non sprecarla, perché è una risorsa limitata, che prima o poi finisce. Pensate che sulla terra solo il 3% dell'acqua è utilizzabile, il resto sono mari e oceani. Il 3% vuol dire che se ad esempio avete 100 goccioline 3 sono utilizzabili e 97 sono salate. Certo si può togliere il sale dall'acqua del mare, ma è un processo abbastanza complicato e costoso. E solo un'altra piccola parte di questa percentuale proviene dalla nostra principale fonte di acqua pura, i ghiacciai. I quali si stanno sciogliendo a causa del surriscaldamento del pianeta provocato dall'inquinamento. Lo vedete, è tutto collegato. Per questo quando vi fate la doccia, usate solo quella necessaria e quando vi lavate i denti chiudete il rubinetto».
Filippo non ce la faceva proprio più e sbottò: «Ma come fa a dire che c'è poca acqua: guardi fuori, non vede quanto sta piovendo?».
«Hai ragione e si potrebbe fare qualcosa per non che quest'acqua vada sprecata e tenerla per questa estate quando farà molto caldo».
In quel momento a Filippo venne un doppio lampo di genio... forse aveva capito come utilizzare tutta quella pioggia, facendo diventare orgoglioso papà e salvando il pianeta e in più avrebbe conquistato Ravi. Si sentiva come nei film americani dove l'eroe salva il mondo da una catastrofe immane e poi alla fine non si sa perché ha sempre accanto una bella ragazza.
«Io ho la soluzione- proclamò quasi urlando – Si potrebbe costruire una cisterna nel giardino della scuola per raccoglierla». Dopo aver parlato si girò verso Ravi per vedere la sua reazione. Gli stava facendo uno dei suoi splendidi sorrisi e i suoi grandi occhi scintillavano come quelli del suo gatto Nerone quando era l'ora della pappa. Anche gli altri bambini si cominciarono ad agitare sulle sedie: l'idea di poter fare veramente qualcosa di grande e di concreto li eccitava molto.
«E' una bellissima idea – disse Marina – Ma ci vogliono molti soldi per realizzare il tuo progetto, non so la scuola li ha, e poi bisogna chiedere i permessi...».
«Non si preoccupi, farà tutto gratis mio papà che ha una ditta di costruzioni».
O almeno così sperava Filippo.

Quando tornò a casa e comunicò la notizia a Giorgio, suo papà, lui sulle prime si arrabbiò un po' perché glielo avrebbe dovuto chiedere prima, però poi prevalse la contentezza per la bella idea che aveva avuto il suo figliolo: «Non vedo l'ora di cominciare, tutto ciò ci farà proprio una bella pubblicità, e una bella pubblicità vuol dire bei guadagni!».

Il giorno dopo Giorgio andò a parlare con la direzione della scuola per poter avere i permessi e studiò dove posizionare la cisterna nel grande giardino che la circondava. I lavori cominciarono quasi subito, ma appena furono finiti, smise di piovere. E sotto un sole cocente, che annunciava l'inizio dell'estate, si svolse la cerimonia di inaugurazione della cisterna. Era stato fatto un accordo con il parco della città che avrebbe usufruito dell'acqua raccolta per bagnare i suoi prati nei giorni più caldi. Filippo era arrabbiatissimo con le nuvole, perché questo adesso non sarebbe più stato possibile. “Ma non potevano starsene qui ancora un po'?” continuava a chiedersi. Ravi si avvicinò a lui e, quasi come se l'avesse sentito, gli sussurrò in un orecchio: «Non ti preoccupare così la prossima volta che pioverà la cisterna sarà già qui pronta per raccogliere l'acqua. Oggi pomeriggio facciamo i compiti insieme?». Filippo non ci poteva credere, era molto meglio che nei film americani. «Certo».
«Allora a più tardi » lo salutò lei dandogli un dolce bacio sulla guancia.

18 dicembre 2004

Premio "Provincia cronica"
(II edizione - sezione storie per bambini)
Mariagrazia Russo - I piccoli uomini e il regno dei pesci blu


Tanto tempo fa la terra era divisa in due da un lungo fiume di acqua trasparente che non aveva né un inizio, né una fine. Lungo il suo corso vivevano popolazioni di piccoli uomini. Con le loro tende si muovevano lungo la sponda pescando e inseguendo le stagioni.
Gli uomini erano così piccoli che vedevano il fiume come un’enorme massa di acqua e pensavano che oltre l’orizzonte non ci fosse nulla.
Mentre agli adulti era permesso pescare lungo il fiume, ai bambini era vietato anche solo avvicinarsi perché si narrava che nell’acqua, dietro piccole cascate, vivesse un popolo di orrendi pesci cannibali dagli occhi a palla che adoravano la carne bianca e morbida dei piccoli uomini.
Nel villaggio degli Iroc viveva un gruppetto di bambini molto vivaci: Abi il capo in ogni gioco, Bici bello e fantasioso, Cidi il più divertente, Die una bella e intraprende bambina, Efe una bimba dall’aspetto dolce ma dall’energia incontrollata e Fegi il piccolo e mascotte della comitiva.
Il gruppetto aveva un segreto che li univa. Un giorno fuggendo al controllo degli adulti si erano avvicinati al fiume e lungo la riva avevano sentito una vocina che li chiamava e chiedeva aiuto.
“Aiuto aiuto, piccoli uomini, vi prego tiratemi fuori da questa carcassa e ributtatemi nel fiume!” Nessuno osava muoversi per paura di trovarsi di fronte al famelico pesce cannibale. Ma la vocina continuava a chiedere aiuto con voce sempre più implorante così Efe si avvicinò scortata da Abi che nel frattempo aveva tirato fuori il coltellino di legno intagliato. Gli altri bambini li seguirono e tutti insieme tentarono di rimuovere la carcassa di ferro. Tira, tira finalmente il prigioniero venne fuori. Si trattava di un enorme pesce blu con due grandi occhioni. “grazie miei piccoli amici”, disse loro appena raggiunse l’acqua “sono pesce Fortuna, abito dietro la cascata, voi mi avete salvato ed io prima o poi ricambierò il favore, a presto!!!” disse nuotando velocemente verso nord.
Da quel giorno il gruppetto si riuniva spesso intorno alla carcassa abbandonata sulla riva guardando l’acqua cristallina finché l’amico Fortuna con un guizzò e una piroetta salutava i piccoli.
Una sera tornando dalla loro passeggiata trovarono il villaggio in fermento. Gli uomini si erano riuniti nella tenda del grande capo mentre le donne parlavano concitate e sottovoce intorno ai fuochi. I bambini guardavano ammutoliti senza osare chiedere cosa stava accadendo. Fu l’intraprendente Die la prima a reagire, furtivamente entrò nella grande tenda e nascosta dietro una coperta di pelle ascoltò le parole del capo “……..purtroppo sta accadendo una cosa sconcertante…..alcuni pescatori sono scesi lungo la valle del fiume e hanno visto un enorme vortice nero che sta risucchiando tutta l’acqua. Si tratta sicuramente di un pesce mostro! Bisogna fare qualcosa perché il nostro popolo non può sopravvivere senza l’acqua! Noi e i nostri animali usiamo l’acqua per dissetarci, per lavarci, per irrigare le nostre coltivazioni e, la pesca, è la nostra principale risorsa per sfamarci! Uomini ora il nostro impegno più grande è trovare una soluzione, ognuno di noi ha tempo tre giorni per escogitare un piano”
In silenzio gli uomini tornarono alle loro tende. La tensione era alta, qualcuno o qualcosa stava rubando il tesoro più prezioso!

Die riunì il gruppetto e raccontò cosa aveva udito. La sera successiva al tramonto i ragazzi chiamarono a gran voce il pesce Fortuna per scoprire cosa stava accadendo. “Fortuna, Fortuna abbiamo bisogno del tuo aiuto” gridò Cidi. “Amico Fortuna, vieni, presto, abbiamo bisogno di te!” echeggiò il piccolo Fegi sporgendosi verso l’acqua. L’enfasi fu tale che scivolò. Abi, Bici, Cidi, Die, Efe urlarono dallo spavento ma Fortuna li aveva sentiti ed era lì sorridente con il piccolo Fegi sul dorso.
Il fantasioso Bici raccontò all’amico pesce cosa stava accadendo nel villaggio. Purtroppo gli uomini avevano ragione……qualcosa stava rubando l’acqua del fiume. Infatti Fortuna rispose “Anche il mio popolo è molto preoccupato da quando pesce Ricognitore ha visto un essere lungo tanti e tanti piedi nascondersi tra la vegetazione sul letto del fiume, Quando apre la bocca entra dentro di lui una grande quantità di acqua, sassi, vegetazione e ogni genere di pesci, poi sparisce mimetizzandosi sul fondo.”
“Dobbiamo urgentemente fare qualcosa” aggiunse Abi, “Non possiamo permettere a questo mostro di rubare la nostra acqua!”
“Ho un’idea” aggiunse pesce Fortuna …..”Aggrappatevi alla mia coda e chiudete forte forte la bocca.”
Abi agguantò la coda, Bici strinse i piedi di Abi e tutti gli altri li imitarono. Una sferzata di acqua li raggiunse ma i piccoli uomini non mollarono la presa. Presto si trovarono nel regno dei pesci blu, dove c’era gran fermento. Tutti erano impegnati a trasportare pietre per formare una diga e salvare una quantità di acqua per sopravvivere ma il lavoro era lungo e pesante ed erano affranti, era una corsa contro il tempo. Il livello di acqua nel loro regno si era abbassato paurosamente.
Cidi interrompendo il silenzio disse agli amici “Perché non usiamo questo sistema per riempire e chiudere la bocca del mostro?” I piccoli uomini e i pesci blu tacquero. Dopo un po’ Pesce guerriero parlò al suo popolo “ Forse è una buona idea. Con l’aiuto dei piccoli uomini possiamo portare una grande quantità di pietre e sigillare la voragine! Dobbiamo provare, è l’unica possibilità di salvarci”
Armati di lunghe reti intrecciate da fili di vegetazione piene di sassi, i pesci con i piccoli uomini aggrappati alle loro code partirono alla volta della valle del fiume.
Giunti nei pressi, furono attratti da un pazzesco vortice che disintegrò le reti. Pesci e bambini furono risucchiati con un gran fragore all’interno del mostro, quando la bocca si chiuse scese buio e .il silenzio. Solo il piccolo Fegi, inconsapevole del pericolo disse con la sua vocina “ Sig. Mostro, sono Fegi, un piccolo uomo della tribù degli Icor e vorrei chiederti un grande favore. Non rubare l’acqua perché è il nostro tesoro più prezioso. Senza non possiamo sopravvivere nè noi né i nostri amici!” dopo una piccola pausa proseguì “ Io non so a cosa ti serve tutta questa acqua ma se, gentilmente torni al tuo paese noi possiamo continuare a bere, sfamarci, lavarci e irrigare i nostri campi.”
Abi, Bici, Cidi, Die, Efe, Fortuna, Guerriero, Ricognitore e tutti gli altri pesci blu trattennero il respiro in attesa di essere ingoiati ma con loro grande sorpresa il mostro rispose. “Scusami piccolo uomo, non sapevo che l’acqua con la quale mi diverto a giocare è per voi un tesoro così prezioso. Non ti preoccupare lascio questo fiume al più presto!” Così dicendo aprì la grande bocca e fece uscire tutto ciò che conteneva poi, con un guizzò sparì.
L’acqua, il loro bene più prezioso era salvo!
Quella sera i bambini raccontarono la loro avventura, furono creduti, festeggiati ma anche puniti per aver disubbidito ai genitori e aver corso un grande pericolo.

17 dicembre 2004

Premio "Provincia cronica"
(II edizione - sezione storie per bambini)
Veronica Parusso - Claudia attraversa l'acqua


La bambina protagonista di questa vicenda si chiama Claudia. “Ciao Claudia!”
Ha dieci anni e mezzo, un piccolo gatto tutto nero e vive in casa con la mamma e la nonna. È una bambina come tante, con molti amici e molte amiche; suona la pianola e due volte a settimana va a danza classica. Purtroppo però ha un brutto vizio: quando si lava i denti, mentre li spazzola per bene con un buon dentifricio alla fragola, lascia d’abitudine il rubinetto dell’acqua aperto. E poi spazzola, spazzola, spazzola e intanto l’acqua scende, se ne và, inutilizzata e sprecata.
La sua strabiliante storia comincia proprio da qui. Una sera Claudia era rimasta sveglia a guardare un cartone animato. Mamma, nonna e gatto erano già tutti nel mondo dei sogni. Proprio quella sera, infilato il pigiama e lavati i denti, Claudia aveva lasciato il rubinetto chiuso male. Aveva poi spento le luci e se n’era andata a letto. Plic, plic, plic. Tutta la notte l’acqua era scesa, lentamente ma incessante. Plic, plic, plic. Le goccioline non smettevano un secondo di sbattere contro le pareti del lavandino. Plic, plic, plic. A tarda notte Claudia si ritrovava a galleggiare col suo materasso al centro della stanza inondata, come su una barchetta in mezzo ad un piccolo lago. La povera bambina, ignara di tutto, continuava a dormire tranquilla finché l’acqua, ormai alta quasi quanto il soffitto, non la fece sbattere contro il lampadario. Fu allora che si accorse del pasticcio che aveva creato: ogni stanza era allagata e lei, il suo gatto, i suoi libri e i suoi giocattoli galleggiavano precari tra quelle mura. Claudia strabuzzò gli occhi, ancora appiccicati per il sonno. Poi notò proprio accanto al materasso una specie di pallina rosa. La osservò per breve tempo decidendo infine di raccoglierla.
“Ehi, mi fai male!” gridò la pallina. Claudia la ricacciò velocemente in acqua, spaventata e stupita. “Cosa sei?” domandò poi, con voce flebile.
“Come non lo vedi? Sono una spugna marina!”. Claudia era sempre più esterrefatta. Poi la spugnetta riprese a parlare: “sai, tutti i miei amici acquatici ed io è da molto che ti osserviamo. Abbiamo notato che spesso dimentichi il rubinetto dell’acqua aperto, sprecandone così dei litri”. Claudia si tirò un pizzicotto, sicuramente stava sognando. Ma la spugna continuava a parlare: “così ho deciso di farti fare un piccolo viaggio, di una notte soltanto. E poi tutto tornerà come prima. Coraggio vieni!”. Claudia, ancora scossa, mise un piede in acqua e poi, lentamente, s’immerse completamente. La spugnetta allora sparì sotto il pelo dell’acqua con la bambina dietro; percorsero insieme il corridoio, fino al bagno.
“Ok, ora entra nel rubinetto” la incitò la spugna.
“Entrarci?! È troppo piccolo!” replicò lei. La spugna la guardò sbuffando.
“Vai!” e le diede una piccola spinta. Claudia, sempre poco convinta, si avvicinò al lavandino e infilò un dito nel rubinetto. SVUSH! La bambina si rimpicciolì in un batter di ciglia e scivolò veloce all’interno delle tubature; la seguì la spugnetta e insieme, dopo vari passaggi, curve, frenate brusche, salite, discese e sconquassamenti vari giunsero al mare.
Claudia venne accolta da un assordante clap clap e, riavute le sue dimensioni naturali, si rese conto d’essere circondata da pesciolini di varie forme e colori, cozze, ostriche, tutti che la guardavano applaudendo.
“Sei arrivata!”
“Com’è andato il viaggio?”
“Benvenuta!”
“Ciao!”
Ogni animaletto poneva una domanda e Claudia si ritrovò sommersa di questioni.
“Su su, lasciatela tranquilla. È stato un viaggio movimentato e abbiamo ancora molta strada da fare” li liquidò la spugna.
“Dove stiamo andando?” chiese Claudia.
“In Africa, che domande!”
“In Africa?!”
“Devi imparare il rispetto” rispose la spugnetta, sempre continuando a nuotare.
“E ci andiamo a nuoto?”
“Ma no! Useremo la pioggia! Ora ti sto portando dalla Grande Cozza, nessun umano l’ha mai vista…lei ti trasformerà in pioggia, andremo sulle nuvole e quando passeremo sopra l’Africa ci lanceremo giù”.
Dopo ancora qualche bracciata e un po’ d’aiuto da parte della corrente giunsero finalmente in una enorme grotta oscura: la dimora della Grande Cozza.
“Buonasera Claudia, fatto buon viaggio?” tuonò una voce dall’angolo più buio.
“Sì” rispose monosillabica e spaventata la bambina.
Poi fu una scintilla veloce e centinaia di anemoni fluorescenti illuminarono a giorno l’enorme grotta sottomarina. Davanti a Claudia e alla piccola spugna apparve la Grande Cozza, nera e violacea, la regina dei sette i mari, con sul capo una corona dorata decorata di pietre preziose a forma di stella marina. La bambina era estasiata da tanta bellezza di colori.
“Il popolo del mare mi ha parlato tanto di te, Claudia. Si dice che tu sprechi molta acqua, soprattutto mentre ti lavi i denti; l’acqua è preziosa e purtroppo non tutti l’hanno a disposizione. Per esempio, in Africa, dove tu stai andando, tante persone e tanti bambini come te muoiono di sete”.
Claudia restò interdetta.
“Devi sapere che loro non hanno tutta l’acqua che hai tu e la poca che hanno è molto sporca; per questo tu non devi sprecarla, per rispetto nei loro confronti che muoiono nel bere quel poco che possiedono”.
La bambina abbassò gli occhi, ora iniziava a capire.
“Tieni. Prendi questa collana di perle” incalzò la Grande Cozza, porgendole il gioiello. “Ti trasformerà in pioggia”.
“Maestà, ora dobbiamo riprendere il viaggio” concluse la spugnetta.
Uscirono dalla grotta dopo aver salutato e Claudia si mise la collana. Dopo qualche secondo si sentì restringere, diventare minuscola, finché, in un batter d’occhio, fu quasi invisibile ad occhio umano. Spugnetta, anche lui rimpicciolito, le stava sempre accanto.
“Claudia, ora tieniti forte a me! Si parteeeee!”
La bambina si sentì portare misteriosamente verso l’alto e strinse a sé la piccola spugna. Ed eccoli evaporare dal mare verso il cielo, a formare una nuvoletta grigio scuro, insieme a tante altre piccole goccioline d’acqua. Dall’alto della nuvola Claudia poté vedere spazi sconfinati, mare e cielo, luna e stelle e poi, man mano che le nuvole proseguivano nel loro cammino, anche la terra, scura, sola. Viaggiarono tutta la notte e alle prime ore del mattino giunsero sopra l’Africa.
“Claudia tieniti pronta, tra un poco si salta!”
“Ma mi farò male” protestò la bambina.
“Non ti preoccupare, sei acqua ora, non ti accadrà nulla! Uh, ci siamo, al mio tre!”
UNO
DUE
TRE
E i due si lanciarono a capofitto, mentre il sole cominciava a sorgere, piombando nell’arida terra africana.
“Togli la collana adesso”. La bambina la sfilò, riacquistando il suo normale aspetto, poi si guardò intorno, spaesata. C’erano capanne di legno e fango, un minuscolo villaggio nel mezzo della sabbia. Alcuni bambini giocavano mentre gli adulti cominciavano i piccoli lavoretti quotidiani; faceva caldo, anche se il sole era spuntato da poco. I due viaggiatori si avvicinarono al pozzo del villaggio.
“Ecco guarda, loro bevono quest’acqua”. Claudia si sporse e riuscì ad intravedere il fondo: l’acqua era marrone, sporca, melmosa.
“Non è possibile”
“Invece sì. Per questo non puoi sprecarla tu che ne hai tanta. Guarda la loro acqua quant’è sporca, piena di batteri a volte mortali”.
Claudia era allibita, ora davvero capiva i suoi sbagli.
“Spugnetta grazie. Avevi ragione, non è giusto sprecare l’acqua per rispetto verso coloro che ne hanno così poca” disse la bambina con le lacrime agli occhi; poi continuò: “mi dispiace di non averci pensato prima”
“L’importante è che tu ora lo sappia, tutti possono sbagliare!” la consolò la piccola spugna “adesso è meglio se torniamo a casa, si sta facendo tardi. Rimettiti la collana che ripartiamo! E ricorda, mai più sprechi d’acqua!”
Quando Claudia riaprì gli occhi stava nel suo letto. La cameretta era tornata normale e il suo micio nero dormiva al fondo del suo letto; ogni cosa era a suo posto. Claudia pensò d’aver sognato. Poi sentì un leggero peso al collo, guardò meglio: addosso aveva ancora la collana di perle della Grande Cozza.

16 dicembre 2004

Premio "Provincia cronica" (II edizione - sezione racconti)
Marco Amalfitano - Venuti da lontano...

Un vino di pessima qualità può essere quanto di più deleterio in circolazione per l’organismo umano. Il giornale di oggi identificava nelle polveri sottili il nemico pubblico numero uno, ma questa sera, almeno per il mio stomaco strizzato dai bruciori, è giunto il momento di eleggere un nuovo vincitore. Se Dio vuole tra poco andrà anche peggio. Alzerò la mia testa di cazzo dalla superficie gibbosa di questo appiccicoso e traballante tavolino da bar e correrò in bagno a vomitare succhi gastrici misti ad una robaccia acida e indegna della quale non vi svelerò neanche la cantina di produzione , giusto perché una denuncia è l’ultima cosa che mi farebbe comodo adesso. Voi degustatori di mosti pregiati penserete che sono un essere sgradevole e abbietto, senza darmi neppure il tempo di spiegare che nella cella frigorifera soverchiata da granelli di polvere e gremita di bibite gasate e dolciastre non c’era davvero niente di meglio e tra l’altro in paese questo è l’unico bar aperto dopo mezzanotte. Ad ogni modo non importa. Io lì per lì volevo andarmene a casa a ingoiare un paio di sonniferi nella speranza di venire colto a tradimento da un sonno plumbeo, con la faccia ancora conficcata sui cuscini color porpora di un molliccio divano; poi però il mio spirito di uomo di mondo mi ha condotto verso la solita fetida bettola, ricordandomi che un dramma umano diventa tanto più intenso e appassionante quanti più occhi avidi hanno ricevuto la facoltà di condividerne l’evoluzione. Senza dubbio ci sono altre variegate realtà che questa serata da incubo, raggomitolata nella luce fioca della periferia milanese, mi costringe ad affrontare come una pena e non esagero se dico che hanno un sapore ancor più amaro di quel vino in cartone da due soldi bucati. Innanzitutto il pubblico pagante; per il mio tormento messo alla gogna mi aspettavo qualcosa di più e invece il locale è praticamente deserto, eccezion fatta per due ragazzini con ogni probabilità minorenni, praticamente identici e che da circa mezz’ora ondeggiano svogliatamente, muovendo il capo al ritmo di una estenuante musica da discoteca con espressione ebete e occhio rigorosamente vacuo, simile a quello di chi ha appena patito una lobotomia totale. Il barista ha appena finito di aggirarsi tra i tavoli deserti a dare la passata di rito con un panno umido anche se non si è vista neppure una misera traccia di avventori. Ora sta imprecando contro la macchinetta del videopoker perché è già da un’ora che carica monetine senza vincere una mano. Dalla parete posta di fronte al bancone un Frank Zappa in bianco e nero, ritratto mentre se ne sta seduto sul cesso con le braghe calate, mi fissa con aria vagamente interrogativa. In effetti, egregio signor Zappa, non me l’aspettavo neppure io di passare così il mio cinquantacinquesimo compleanno.
Ogni anno invecchio peggio. A trent’anni avevo già un sacco di capelli bianchi e almeno tre doppi menti. Ora sono calvo, di candido mi sono rimaste giusto le basette e la notte russo da far schifo. Sono grottescamente adiposo, il mio corpo è gonfiato da quel tipo di grasso che ingolfa i frequentatori seriali di catene di fast food americani sparpagliate in tutto il mondo, nonostante in tutta la mia vita abbia mangiato a malapena quattro hamburger.
Diana invece non invecchia per niente. Ha occhi cerulei ed evocativi che non conoscono la banalità. Ieri mattina ci ho messo decine di minuti prima di capire che mi ero completamente perso a fissarla con aria ottenebrata, ipnotizzato dalla curva voluttuosa del suo bacino e dalle rotondità appena accennate e quasi pulsanti sotto il pullover viola che le ho preso ai saldi invernali.
Io invecchio, ma lei diventa sempre più bella.
Gli anni della meglio gioventù, quelli di “veniamo da lontano e andiamo lontano”, hanno lasciato immagini lontane, di tipo impressionistico, come rugiada che all’alba si alza dai campi in blocchi di foschia opaca e rarefatta. Vorrei urlare il nome di Diana contro le pareti semiscrostate di questo bar simile a una latrina, ma evito perché so che biascicherei qualcosa di patetico e incomprensibile. Mi restano i pensieri, le fantasie. So che in fondo lei non è troppo lontano da qui. A Cornaredo stasera c’è la festa estiva di Rifondazione Comunista. Concerti, danze e salamelle non stop fino alle tre di notte. Se mi concentro mi sembra di vederla sul sedile posteriore di una Opel Corsa del ’99 che sfreccia tra le vie deserte dei paesini, impregnate di afa e zanzare. Alla guida c’è un trentenne coi dreadlocks attorcigliati sulla testa e una maglietta della Jamaica, che passa una canna alla sua amica, una donna sulla quarantina che ha il mento pigiato contro la zip di una felpa rossa di garza, munita di tre strisce bianche verticali che scendono dalle spalle fino al polsino. La macchina avanza incerta lungo le viette tutte uguali di un piccolo borgo inghiottendo gli aloni color arancia rancida dei lampioni che, come sentinelle, presidiano le strade deserte; oltrepassa la vetrina di una videoteca illuminata e Diana con la coda dell’occhio nota che dietro le porte di plastica e plexiglas c’è una giovane coppia a ridosso dello schermo del videonoleggio. Avranno al massimo sedici anni e si stanno baciando timidamente, sicuri che nessuno li stia osservando e che il film da scegliere può attendere ancora una manciata di secondi. Per tutto il resto del tragitto Diana non fa altro che pensare a loro, a come sarebbe potuto evolvere il sabato sera di mezza estate di quei due ragazzi. Un film di prima visione, un soffice divano. L’intimità di una casa che il primo grande esodo estivo ha reso vuota e complice. I genitori al mare per almeno due settimane e l’occasione più unica che rara di nascondersi all’insaputa di tutto e di tutti tra le mura amiche, quando in paese non restano che ronde di lampioni e insetti ronzanti rinvigoriti dall’aria umida e pesante. La vedo sospirare, mentre immagina il fondersi dei loro respiri in un salotto accogliente e morbido di tappeti e cuscini e colori caldi e amaranto a far da veglia sui loro segreti di adolescenti.
Ieri mattina Diana se n’è andata senza dire nulla. Quando sono tornato a casa ho trovato una lettera di ben quattro pagine che non vi leggo per intero, non voglio sprecare il vostro tempo prezioso. Si poteva riassumere in un concetto molto semplice: Me ne vado perché il dipanarsi del tempo ci rende ogni secondo più squallidi.
So che non tornerà e non la biasimo. Da quella volta in cui mi urlò in faccia che ero diventato un borghese che non crede più a niente ho contato le giornate che mi separavano da questo momento. E probabilmente ha ragione. Non credo più a niente. Forse non ho mai creduto in niente.
Il gigantesco tendone flaccido e verdastro sotto il quale si svolge la Festa sta in realtà ospitando una sorta di sfuocata fiera dall’anacronistico camuffata da cocktail party. Tra le luci biancastre e soffuse delle lampadine pendenti da fili nudi annodati a tubi di plastica orizzontali che percorrono in vari punti la circonferenza del capannone è possibile distinguere una moltitudine di gente, età media quarant’anni, calata in abiti che si potrebbe definire di tipo ostentatamente alternativo; non mancano cani di grossa taglia, capelli lunghi, in molti casi a dispetto di alopecie non curate, birre sgasate in bicchieri di plastica croccante e bandiere cubane o della vecchia Unione Sovietica. Il cantante del gruppo che si sta esibendo sul palco ha appena finito di gridare con tono gutturale siamo tutti clandestini e Diana non può fare a meno di pensare che sicuramente nella tasca dei pantaloni di pelle lo sfacciato front-man avrà un documento d’identità valido o quanto meno un permesso di soggiorno. Poi si guarda in giro e vede adagiato contro la travi in compensato degli stand due striscioni: uno recita “Circolo Ho Chi Min”, l’altro “Accolita dei giovani di Gramsci”. Con occhi sopraffatti da un senso di compatimento guarda il tizio con la maglietta jamaicana e la sua amica e afferma sardonica: «Ci sono stronzi che vincono le elezioni organizzando ronde e costruendo rotonde stradali anche nel cesso di casa. E noi? Dopo tutti questi anni ci masturbiamo ancora al Circolo Ho Chi Min». La squadrano basiti come si guarda un disabile che sta rifiutando l’insegnante di sostegno. Diana silenziosamente li manda a cagare. Vuole solo tornare a casa, ma prima cercherà di mettere a tacere il buco che ha nello stomaco con un panino alla salamella. Al bancone del bar un signore con dei baffi che si mangiano mezza faccia le dice che le salamelle sono finite da un pezzo. E’ il colmo. Non hanno neppure l’istituzionale salamella d’ordinanza.
Anch’io sto per andarmene dal bar. Il titolare dice che deve chiudere ed ha appena vinto al videopoker. Dalla macchinetta stanno ancora tintinnando fiumi di monetine che sembrano non finire mai. Questa è la vera valenza formativa che si ottiene “facendo chiusura” presso i pubblici esercizi muniti di tali demoniaci apparecchi: impari che prima di tirare giù le saracinesche il capo della baracca gioca al videopoker fino a sbancare perché quei cavoli di cosi che emanano lucine iridescenti sono tarati per farti vincere una tantum e, una volta svuotati, il giorno dopo potranno fare nuovamente il pieno di gettoni senza lasciare neppure una vincita al malcapitato di turno. Diana nel frattempo si è fatta riaccompagnare dal tizio jamaicano in uno sgombro monolocale nel quale passerà questa notte. E’ livida in volto, trafitta da un senso di insoddisfazione che le fa venire voglia di urlare. Vorrebbe indietro tutti i suoi anni, ma sa che non torneranno più. Mentre si slaccia meccanicamente il reggiseno con aria distratta, il tizio jamaicano è nudo sul letto ed ha acceso la televisione. Nello schermo dodici pollici, poggiato su un polveroso tavolino dell’Ikea, fa la sua apparizione un signore col lifting bardato di cerone che garantisce al popolo italiano che l’amore vincerà ancora una volta sull’ invidia e sull’odio. Diana sfila anche le mutandine e si sofferma per un attimo su quel volto. Poi dentro di sé maledice il Sessantotto con tutte le sue forze. E sono sicuro che prima di entrare in quel letto maledice anche me.
Premio "Provincia cronica" (II edizione - sezione racconti)
Marco Amalfitano - Venuti da lontano...

Un vino di pessima qualità può essere quanto di più deleterio in circolazione per l’organismo umano. Il giornale di oggi identificava nelle polveri sottili il nemico pubblico numero uno, ma questa sera, almeno per il mio stomaco strizzato dai bruciori, è giunto il momento di eleggere un nuovo vincitore. Se Dio vuole tra poco andrà anche peggio. Alzerò la mia testa di cazzo dalla superficie gibbosa di questo appiccicoso e traballante tavolino da bar e correrò in bagno a vomitare succhi gastrici misti ad una robaccia acida e indegna della quale non vi svelerò neanche la cantina di produzione , giusto perché una denuncia è l’ultima cosa che mi farebbe comodo adesso. Voi degustatori di mosti pregiati penserete che sono un essere sgradevole e abbietto, senza darmi neppure il tempo di spiegare che nella cella frigorifera soverchiata da granelli di polvere e gremita di bibite gasate e dolciastre non c’era davvero niente di meglio e tra l’altro in paese questo è l’unico bar aperto dopo mezzanotte. Ad ogni modo non importa. Io lì per lì volevo andarmene a casa a ingoiare un paio di sonniferi nella speranza di venire colto a tradimento da un sonno plumbeo, con la faccia ancora conficcata sui cuscini color porpora di un molliccio divano; poi però il mio spirito di uomo di mondo mi ha condotto verso la solita fetida bettola, ricordandomi che un dramma umano diventa tanto più intenso e appassionante quanti più occhi avidi hanno ricevuto la facoltà di condividerne l’evoluzione. Senza dubbio ci sono altre variegate realtà che questa serata da incubo, raggomitolata nella luce fioca della periferia milanese, mi costringe ad affrontare come una pena e non esagero se dico che hanno un sapore ancor più amaro di quel vino in cartone da due soldi bucati. Innanzitutto il pubblico pagante; per il mio tormento messo alla gogna mi aspettavo qualcosa di più e invece il locale è praticamente deserto, eccezion fatta per due ragazzini con ogni probabilità minorenni, praticamente identici e che da circa mezz’ora ondeggiano svogliatamente, muovendo il capo al ritmo di una estenuante musica da discoteca con espressione ebete e occhio rigorosamente vacuo, simile a quello di chi ha appena patito una lobotomia totale. Il barista ha appena finito di aggirarsi tra i tavoli deserti a dare la passata di rito con un panno umido anche se non si è vista neppure una misera traccia di avventori. Ora sta imprecando contro la macchinetta del videopoker perché è già da un’ora che carica monetine senza vincere una mano. Dalla parete posta di fronte al bancone un Frank Zappa in bianco e nero, ritratto mentre se ne sta seduto sul cesso con le braghe calate, mi fissa con aria vagamente interrogativa. In effetti, egregio signor Zappa, non me l’aspettavo neppure io di passare così il mio cinquantacinquesimo compleanno.
Ogni anno invecchio peggio. A trent’anni avevo già un sacco di capelli bianchi e almeno tre doppi menti. Ora sono calvo, di candido mi sono rimaste giusto le basette e la notte russo da far schifo. Sono grottescamente adiposo, il mio corpo è gonfiato da quel tipo di grasso che ingolfa i frequentatori seriali di catene di fast food americani sparpagliate in tutto il mondo, nonostante in tutta la mia vita abbia mangiato a malapena quattro hamburger.
Diana invece non invecchia per niente. Ha occhi cerulei ed evocativi che non conoscono la banalità. Ieri mattina ci ho messo decine di minuti prima di capire che mi ero completamente perso a fissarla con aria ottenebrata, ipnotizzato dalla curva voluttuosa del suo bacino e dalle rotondità appena accennate e quasi pulsanti sotto il pullover viola che le ho preso ai saldi invernali.
Io invecchio, ma lei diventa sempre più bella.
Gli anni della meglio gioventù, quelli di “veniamo da lontano e andiamo lontano”, hanno lasciato immagini lontane, di tipo impressionistico, come rugiada che all’alba si alza dai campi in blocchi di foschia opaca e rarefatta. Vorrei urlare il nome di Diana contro le pareti semiscrostate di questo bar simile a una latrina, ma evito perché so che biascicherei qualcosa di patetico e incomprensibile. Mi restano i pensieri, le fantasie. So che in fondo lei non è troppo lontano da qui. A Cornaredo stasera c’è la festa estiva di Rifondazione Comunista. Concerti, danze e salamelle non stop fino alle tre di notte. Se mi concentro mi sembra di vederla sul sedile posteriore di una Opel Corsa del ’99 che sfreccia tra le vie deserte dei paesini, impregnate di afa e zanzare. Alla guida c’è un trentenne coi dreadlocks attorcigliati sulla testa e una maglietta della Jamaica, che passa una canna alla sua amica, una donna sulla quarantina che ha il mento pigiato contro la zip di una felpa rossa di garza, munita di tre strisce bianche verticali che scendono dalle spalle fino al polsino. La macchina avanza incerta lungo le viette tutte uguali di un piccolo borgo inghiottendo gli aloni color arancia rancida dei lampioni che, come sentinelle, presidiano le strade deserte; oltrepassa la vetrina di una videoteca illuminata e Diana con la coda dell’occhio nota che dietro le porte di plastica e plexiglas c’è una giovane coppia a ridosso dello schermo del videonoleggio. Avranno al massimo sedici anni e si stanno baciando timidamente, sicuri che nessuno li stia osservando e che il film da scegliere può attendere ancora una manciata di secondi. Per tutto il resto del tragitto Diana non fa altro che pensare a loro, a come sarebbe potuto evolvere il sabato sera di mezza estate di quei due ragazzi. Un film di prima visione, un soffice divano. L’intimità di una casa che il primo grande esodo estivo ha reso vuota e complice. I genitori al mare per almeno due settimane e l’occasione più unica che rara di nascondersi all’insaputa di tutto e di tutti tra le mura amiche, quando in paese non restano che ronde di lampioni e insetti ronzanti rinvigoriti dall’aria umida e pesante. La vedo sospirare, mentre immagina il fondersi dei loro respiri in un salotto accogliente e morbido di tappeti e cuscini e colori caldi e amaranto a far da veglia sui loro segreti di adolescenti.
Ieri mattina Diana se n’è andata senza dire nulla. Quando sono tornato a casa ho trovato una lettera di ben quattro pagine che non vi leggo per intero, non voglio sprecare il vostro tempo prezioso. Si poteva riassumere in un concetto molto semplice: Me ne vado perché il dipanarsi del tempo ci rende ogni secondo più squallidi.
So che non tornerà e non la biasimo. Da quella volta in cui mi urlò in faccia che ero diventato un borghese che non crede più a niente ho contato le giornate che mi separavano da questo momento. E probabilmente ha ragione. Non credo più a niente. Forse non ho mai creduto in niente.
Il gigantesco tendone flaccido e verdastro sotto il quale si svolge la Festa sta in realtà ospitando una sorta di sfuocata fiera dall’anacronistico camuffata da cocktail party. Tra le luci biancastre e soffuse delle lampadine pendenti da fili nudi annodati a tubi di plastica orizzontali che percorrono in vari punti la circonferenza del capannone è possibile distinguere una moltitudine di gente, età media quarant’anni, calata in abiti che si potrebbe definire di tipo ostentatamente alternativo; non mancano cani di grossa taglia, capelli lunghi, in molti casi a dispetto di alopecie non curate, birre sgasate in bicchieri di plastica croccante e bandiere cubane o della vecchia Unione Sovietica. Il cantante del gruppo che si sta esibendo sul palco ha appena finito di gridare con tono gutturale siamo tutti clandestini e Diana non può fare a meno di pensare che sicuramente nella tasca dei pantaloni di pelle lo sfacciato front-man avrà un documento d’identità valido o quanto meno un permesso di soggiorno. Poi si guarda in giro e vede adagiato contro la travi in compensato degli stand due striscioni: uno recita “Circolo Ho Chi Min”, l’altro “Accolita dei giovani di Gramsci”. Con occhi sopraffatti da un senso di compatimento guarda il tizio con la maglietta jamaicana e la sua amica e afferma sardonica: «Ci sono stronzi che vincono le elezioni organizzando ronde e costruendo rotonde stradali anche nel cesso di casa. E noi? Dopo tutti questi anni ci masturbiamo ancora al Circolo Ho Chi Min». La squadrano basiti come si guarda un disabile che sta rifiutando l’insegnante di sostegno. Diana silenziosamente li manda a cagare. Vuole solo tornare a casa, ma prima cercherà di mettere a tacere il buco che ha nello stomaco con un panino alla salamella. Al bancone del bar un signore con dei baffi che si mangiano mezza faccia le dice che le salamelle sono finite da un pezzo. E’ il colmo. Non hanno neppure l’istituzionale salamella d’ordinanza. Anch’io sto per andarmene dal bar. Il titolare dice che deve chiudere ed ha appena vinto al videopoker. Dalla macchinetta stanno ancora tintinnando fiumi di monetine che sembrano non finire mai. Questa è la vera valenza formativa che si ottiene “facendo chiusura” presso i pubblici esercizi muniti di tali demoniaci apparecchi: impari che prima di tirare giù le saracinesche il capo della baracca gioca al videopoker fino a sbancare perché quei cavoli di cosi che emanano lucine iridescenti sono tarati per farti vincere una tantum e, una volta svuotati, il giorno dopo potranno fare nuovamente il pieno di gettoni senza lasciare neppure una vincita al malcapitato di turno. Diana nel frattempo si è fatta riaccompagnare dal tizio jamaicano in uno sgombro monolocale nel quale passerà questa notte. E’ livida in volto, trafitta da un senso di insoddisfazione che le fa venire voglia di urlare. Vorrebbe indietro tutti i suoi anni, ma sa che non torneranno più. Mentre si slaccia meccanicamente il reggiseno con aria distratta, il tizio jamaicano è nudo sul letto ed ha acceso la televisione. Nello schermo dodici pollici, poggiato su un polveroso tavolino dell’Ikea, fa la sua apparizione un signore col lifting bardato di cerone che garantisce al popolo italiano che l’amore vincerà ancora una volta sull’ invidia e sull’odio. Diana sfila anche le mutandine e si sofferma per un attimo su quel volto. Poi dentro di sé maledice il Sessantotto con tutte le sue forze. E sono sicuro che prima di entrare in quel letto maledice anche me.
Premio "Provincia cronica" (II edizione - sezione racconti)
Marco Amalfitano - Venuti da lontano...

Un vino di pessima qualità può essere quanto di più deleterio in circolazione per l’organismo umano. Il giornale di oggi identificava nelle polveri sottili il nemico pubblico numero uno, ma questa sera, almeno per il mio stomaco strizzato dai bruciori, è giunto il momento di eleggere un nuovo vincitore. Se Dio vuole tra poco andrà anche peggio. Alzerò la mia testa di cazzo dalla superficie gibbosa di questo appiccicoso e traballante tavolino da bar e correrò in bagno a vomitare succhi gastrici misti ad una robaccia acida e indegna della quale non vi svelerò neanche la cantina di produzione , giusto perché una denuncia è l’ultima cosa che mi farebbe comodo adesso. Voi degustatori di mosti pregiati penserete che sono un essere sgradevole e abbietto, senza darmi neppure il tempo di spiegare che nella cella frigorifera soverchiata da granelli di polvere e gremita di bibite gasate e dolciastre non c’era davvero niente di meglio e tra l’altro in paese questo è l’unico bar aperto dopo mezzanotte. Ad ogni modo non importa. Io lì per lì volevo andarmene a casa a ingoiare un paio di sonniferi nella speranza di venire colto a tradimento da un sonno plumbeo, con la faccia ancora conficcata sui cuscini color porpora di un molliccio divano; poi però il mio spirito di uomo di mondo mi ha condotto verso la solita fetida bettola, ricordandomi che un dramma umano diventa tanto più intenso e appassionante quanti più occhi avidi hanno ricevuto la facoltà di condividerne l’evoluzione. Senza dubbio ci sono altre variegate realtà che questa serata da incubo, raggomitolata nella luce fioca della periferia milanese, mi costringe ad affrontare come una pena e non esagero se dico che hanno un sapore ancor più amaro di quel vino in cartone da due soldi bucati. Innanzitutto il pubblico pagante; per il mio tormento messo alla gogna mi aspettavo qualcosa di più e invece il locale è praticamente deserto, eccezion fatta per due ragazzini con ogni probabilità minorenni, praticamente identici e che da circa mezz’ora ondeggiano svogliatamente, muovendo il capo al ritmo di una estenuante musica da discoteca con espressione ebete e occhio rigorosamente vacuo, simile a quello di chi ha appena patito una lobotomia totale. Il barista ha appena finito di aggirarsi tra i tavoli deserti a dare la passata di rito con un panno umido anche se non si è vista neppure una misera traccia di avventori. Ora sta imprecando contro la macchinetta del videopoker perché è già da un’ora che carica monetine senza vincere una mano. Dalla parete posta di fronte al bancone un Frank Zappa in bianco e nero, ritratto mentre se ne sta seduto sul cesso con le braghe calate, mi fissa con aria vagamente interrogativa. In effetti, egregio signor Zappa, non me l’aspettavo neppure io di passare così il mio cinquantacinquesimo compleanno.
Ogni anno invecchio peggio. A trent’anni avevo già un sacco di capelli bianchi e almeno tre doppi menti. Ora sono calvo, di candido mi sono rimaste giusto le basette e la notte russo da far schifo. Sono grottescamente adiposo, il mio corpo è gonfiato da quel tipo di grasso che ingolfa i frequentatori seriali di catene di fast food americani sparpagliate in tutto il mondo, nonostante in tutta la mia vita abbia mangiato a malapena quattro hamburger.
Diana invece non invecchia per niente. Ha occhi cerulei ed evocativi che non conoscono la banalità. Ieri mattina ci ho messo decine di minuti prima di capire che mi ero completamente perso a fissarla con aria ottenebrata, ipnotizzato dalla curva voluttuosa del suo bacino e dalle rotondità appena accennate e quasi pulsanti sotto il pullover viola che le ho preso ai saldi invernali.
Io invecchio, ma lei diventa sempre più bella.
Gli anni della meglio gioventù, quelli di “veniamo da lontano e andiamo lontano”, hanno lasciato immagini lontane, di tipo impressionistico, come rugiada che all’alba si alza dai campi in blocchi di foschia opaca e rarefatta. Vorrei urlare il nome di Diana contro le pareti semiscrostate di questo bar simile a una latrina, ma evito perché so che biascicherei qualcosa di patetico e incomprensibile. Mi restano i pensieri, le fantasie. So che in fondo lei non è troppo lontano da qui. A Cornaredo stasera c’è la festa estiva di Rifondazione Comunista. Concerti, danze e salamelle non stop fino alle tre di notte. Se mi concentro mi sembra di vederla sul sedile posteriore di una Opel Corsa del ’99 che sfreccia tra le vie deserte dei paesini, impregnate di afa e zanzare. Alla guida c’è un trentenne coi dreadlocks attorcigliati sulla testa e una maglietta della Jamaica, che passa una canna alla sua amica, una donna sulla quarantina che ha il mento pigiato contro la zip di una felpa rossa di garza, munita di tre strisce bianche verticali che scendono dalle spalle fino al polsino. La macchina avanza incerta lungo le viette tutte uguali di un piccolo borgo inghiottendo gli aloni color arancia rancida dei lampioni che, come sentinelle, presidiano le strade deserte; oltrepassa la vetrina di una videoteca illuminata e Diana con la coda dell’occhio nota che dietro le porte di plastica e plexiglas c’è una giovane coppia a ridosso dello schermo del videonoleggio. Avranno al massimo sedici anni e si stanno baciando timidamente, sicuri che nessuno li stia osservando e che il film da scegliere può attendere ancora una manciata di secondi. Per tutto il resto del tragitto Diana non fa altro che pensare a loro, a come sarebbe potuto evolvere il sabato sera di mezza estate di quei due ragazzi. Un film di prima visione, un soffice divano. L’intimità di una casa che il primo grande esodo estivo ha reso vuota e complice. I genitori al mare per almeno due settimane e l’occasione più unica che rara di nascondersi all’insaputa di tutto e di tutti tra le mura amiche, quando in paese non restano che ronde di lampioni e insetti ronzanti rinvigoriti dall’aria umida e pesante. La vedo sospirare, mentre immagina il fondersi dei loro respiri in un salotto accogliente e morbido di tappeti e cuscini e colori caldi e amaranto a far da veglia sui loro segreti di adolescenti.
Ieri mattina Diana se n’è andata senza dire nulla. Quando sono tornato a casa ho trovato una lettera di ben quattro pagine che non vi leggo per intero, non voglio sprecare il vostro tempo prezioso. Si poteva riassumere in un concetto molto semplice: Me ne vado perché il dipanarsi del tempo ci rende ogni secondo più squallidi.
So che non tornerà e non la biasimo. Da quella volta in cui mi urlò in faccia che ero diventato un borghese che non crede più a niente ho contato le giornate che mi separavano da questo momento. E probabilmente ha ragione. Non credo più a niente. Forse non ho mai creduto in niente.
Il gigantesco tendone flaccido e verdastro sotto il quale si svolge la Festa sta in realtà ospitando una sorta di sfuocata fiera dall’anacronistico camuffata da cocktail party. Tra le luci biancastre e soffuse delle lampadine pendenti da fili nudi annodati a tubi di plastica orizzontali che percorrono in vari punti la circonferenza del capannone è possibile distinguere una moltitudine di gente, età media quarant’anni, calata in abiti che si potrebbe definire di tipo ostentatamente alternativo; non mancano cani di grossa taglia, capelli lunghi, in molti casi a dispetto di alopecie non curate, birre sgasate in bicchieri di plastica croccante e bandiere cubane o della vecchia Unione Sovietica. Il cantante del gruppo che si sta esibendo sul palco ha appena finito di gridare con tono gutturale siamo tutti clandestini e Diana non può fare a meno di pensare che sicuramente nella tasca dei pantaloni di pelle lo sfacciato front-man avrà un documento d’identità valido o quanto meno un permesso di soggiorno. Poi si guarda in giro e vede adagiato contro la travi in compensato degli stand due striscioni: uno recita “Circolo Ho Chi Min”, l’altro “Accolita dei giovani di Gramsci”. Con occhi sopraffatti da un senso di compatimento guarda il tizio con la maglietta jamaicana e la sua amica e afferma sardonica: «Ci sono stronzi che vincono le elezioni organizzando ronde e costruendo rotonde stradali anche nel cesso di casa. E noi? Dopo tutti questi anni ci masturbiamo ancora al Circolo Ho Chi Min». La squadrano basiti come si guarda un disabile che sta rifiutando l’insegnante di sostegno. Diana silenziosamente li manda a cagare. Vuole solo tornare a casa, ma prima cercherà di mettere a tacere il buco che ha nello stomaco con un panino alla salamella. Al bancone del bar un signore con dei baffi che si mangiano mezza faccia le dice che le salamelle sono finite da un pezzo. E’ il colmo. Non hanno neppure l’istituzionale salamella d’ordinanza. Anch’io sto per andarmene dal bar. Il titolare dice che deve chiudere ed ha appena vinto al videopoker. Dalla macchinetta stanno ancora tintinnando fiumi di monetine che sembrano non finire mai. Questa è la vera valenza formativa che si ottiene “facendo chiusura” presso i pubblici esercizi muniti di tali demoniaci apparecchi: impari che prima di tirare giù le saracinesche il capo della baracca gioca al videopoker fino a sbancare perché quei cavoli di cosi che emanano lucine iridescenti sono tarati per farti vincere una tantum e, una volta svuotati, il giorno dopo potranno fare nuovamente il pieno di gettoni senza lasciare neppure una vincita al malcapitato di turno. Diana nel frattempo si è fatta riaccompagnare dal tizio jamaicano in uno sgombro monolocale nel quale passerà questa notte. E’ livida in volto, trafitta da un senso di insoddisfazione che le fa venire voglia di urlare. Vorrebbe indietro tutti i suoi anni, ma sa che non torneranno più. Mentre si slaccia meccanicamente il reggiseno con aria distratta, il tizio jamaicano è nudo sul letto ed ha acceso la televisione. Nello schermo dodici pollici, poggiato su un polveroso tavolino dell’Ikea, fa la sua apparizione un signore col lifting bardato di cerone che garantisce al popolo italiano che l’amore vincerà ancora una volta sull’ invidia e sull’odio. Diana sfila anche le mutandine e si sofferma per un attimo su quel volto. Poi dentro di sé maledice il Sessantotto con tutte le sue forze. E sono sicuro che prima di entrare in quel letto maledice anche me.
Premio "Provincia cronica"
(II edizione - sezione storie per bambini)

Endi Hasho - Waterland

Francis appoggiò i piedi sulla scrivania e tirò fuori il suo vecchio diario.
Ogni tanto lo rileggeva per farsi qualche risata.

"Francis, non correre!", mi ha urlato stamani mia mamma come ogni mattina.
Caro diario non hai idea di quanto sia apprensiva; non mi sono neanche voltato a rispondere e ho continuato a pedalare sulla mia piccola bici rossa.
Pericolosa? Si, per un bambino cieco, forse.
Pedalo con forza sino al negozio di dolci, scendo dalla bici con un salto e ci entro in fretta.
"Ah, Franceso, qual buon vento?", il grasso pasticciere mi saluta sempre così e io puntualmente rispondo: "Mi chiamo Francis".
Il sangue italiano nelle vene di Arnoldo, è questo il nome del pasticciere, lo porta a rifiutare i nomi stranieri.
"Mamma mi ha detto che posso prendere una vaschetta e pagarla più tardi".
Arnoldo mi ha guardato con occhi torvi, come faceva ogni volta che gli ponevo quella richiesta.
Le prime volte arrossivo e fuggivo via, ma adesso so che per reggere il bluff devo solo sopportare il suo sguardo per qualche secondo, poi lui finge di telefonare a mia madre e alla fine mi dà le paste.
Dio come sono buone! Ne ha alla crema, ai canditi e persino alla ricotta dolce. E ci sono certe palline alla glassa che sono tanto delicate che sarebbe meglio lasciarle stare; ma io non le lascio stare affatto, anzi quelle le mangio per prime.
In realtà Arnoldo è gentile con me perché ho due sorelle più grandi e molto carine.
Lui, poverino, non sa che le ragazze gli ridono dietro e si chiedono quanti dei pasticcini che fa finiscano nel suo stesso stomaco.
Quando sono arrivato al campo erano rimasti solo cinque dolcetti ed erano tutti stati sbattacchiati perché appesi al manubrio della mia bici.
Boka, Daniele, Phil, Gerardo, Francesco, i miei cinque compagni di gioco, mi guardano con gli occhioni tristi ogni volta che questo accade, ma poi giochiamo come ogni altro giorno.
Non oggi.
Il nostro campo giochi è il campo dietro una segheria abbandonata.
È stupendo perché ci sono alberi altissimi e verdi, e grandi cataste di legno cave all'interno.
Noi possiamo arrampicarci e giocare alla guerra o a palla tra gli alberi.
Quel campo è il nostro regno.
Per meglio dire, lo era.
Da qualche giorno i ragazzi più grandi della scuola si aggiravano intorno al nostro campo e oggi se ne sono impossessati con la forza. E noi stiamo seduti sul muretto e li guardiamo divertirsi al posto nostro.
"Forse è meglio se torniamo a casa", ha detto ad un certo punto il piccolo Boka, ridestando tutti.
Ha solo undici anni, ma a volte è il più saggio.
Tutti abbiamo annuito silenziosi e ci siamo rifugiati nelle nostre tane.
A casa ho dovuto sostenere la solita lotta con mia madre per non fare la doccia; quella donna non capisce che io odio l'acqua! Sono peggio di un gatto, lo so, ma non mi importa.
Se mi lavo solo una volta alla settimana non fa nulla. Vero, caro diario?
Io odio l'acqua, punto e basta. Tanto più in giornate come questa in cui mi sento così triste.
Ora ti chiudo e vado a dormire perché sono stanco e triste.
Buonanotte diario mio.

13 luglio
Questo è stato il giorno più bello della mia vita! Io amo l'acqua.
Questa mattina mi sono svegliato e ho fatto finta di lavarmi la faccia in bagno, così mamma è contenta.
Poi ho messo la maglia del mio calciatore preferito e sono andato con gli altri bimbi a vedere se per caso il nostro campo era stato liberato dai parassiti.
Macchè! Non solo quei bulli non l'avevano liberato, ma si erano moltiplicati come funghi.
Già stavamo preparando una nuova scusa da usare con Arnoldo, quando Daniele disse: "Guardate!"
Diario mio, era lo spettacolo più bello che abbia mai visto.
Decine di nuvole scure come la notte si erano raccolte nel cielo e, d'improvviso, enormi goccie hanno cominciato a cadere su tutta la città.
A noi sembrava stesse piovendo solo sul campo. Avresti dovuto vederle: non parlo di goccie normali, ma di enormi gocciolioni grandi quanto il mio pollice! Ed erano miliardi!
Ok, forse erano un pò meno, però erano abbastanza da far correre via tutti i bulli dal nostro campo.
Eccome se correvano; si coprivano con qualunque cosa avessero sottomano e correvano come pulcini spaventati.
Noi sei, invece, siamo rimasti impassibili a goderci lo spettacolo a bocca aperta.
Quando Gino, un ragazzo del terzo anno, è scivolato nel fango siamo esplosi in una risata più fragorosa dei tuoni stessi.
Abbiamo giocato a palla, a nascondino, alla lotta e a guardia e ladri: tutto sotto l'acqua ed è stato bellissimo.
Dovevi vedere Phil come si divertiva a saltellare tra le pozzanghere.
Tutti noi ci siamo divertiti da morire: più di quanto non avessimo mai fatto in quel campo.
Io amo l'acqua.
È questa anche la frase che ho usato con mia madre per non farmi sculacciare quando sono tornato a casa zuppo come una spugna.
'"Che vuol dire che ami l'acqua? Ti sembra sufficiente per bagnarti in questo modo? Ti ammalerai e farai ammalare anche me", ha strillato lei per tutta risposta.
"Voglio dire che stasera voglio farmi la doccia".
Mamma non è riuscita a nascondere il suo stupore e ha detto: "Questa è bella davvero. Uno zozzone come te che vuole farsi la doccia di sua spontanea volontà...".

L'ho fatta ed è stata la doccia più bella della mia vita.
Si, ammetto che è anche stata la prima doccia volontaria, ma è comunque stata la più bella di tutte.
Quelle migliaia di goccioline che mi ballavano sulla pelle, come fossi fatto di acqua frizzante, erano meravigliose.
E tutti gli schizzi che potevo fare con le mani, i piedi o i capelli? O anche la bocca? Ora capisco perché quando in quella pubblicità si vede il neonato che nuota nell'acqua, sembra così felice.
Ora vado a dormire, diario mio, che sono felice, ma stanchissimo.

14 luglio
Sento di aver scoperto il più bel giocattolo del mondo: l'acqua.
Oggi siamo tornati al campo ed ovviamente i bulli erano tornati con il sole.
Dopo aver finito i magnifici pasticcini di Arnoldo, io e gli altri bimbi abbiamo caricato i nostri zaini sulle spalle e ci siamo arrampicati sileziosamente sulle cataste di legno, senza farci vedere.
Abbiamo svuotato il contenuto degli zaini, siamo scesi e abbiamo ripetuto la stessa operazione almeno tre volte a testa. Quando abbiamo finito, sulla cima delle cataste c'erano almeno sessanta palloncini pieni di acqua.
Il primo a fare 'fuoco' sono stato io e ho colpito in pieno un ragazzo che non avevo mai visto prima, ma che aveva l'aria di essere molto bullo.
Se non piove, ci pensiamo noi a mandare l'acqua dai cieli.
I bulli hanno provato a reagire alla pioggia artificiale tirandoci sabbia e provando ad arrampicarsi, ma sembravano spalmati di sapone e scivolavano sempre.
Raymond aveva una mira eccezionale e li colpiva sempre sulla testa.
Che scena quando poi sono fuggiti tutti dal cancello principale.
Grazie all'acqua del giorno precedente, nel campo erano ora anche sbocciati nuovi fiorellini gialli.
Caro diario, c'è forse qualcosa di più bello dell'acqua? Un giocattolo più bello?

Francis chiuse il suo diario giovanile quando la segretaria entrò nello studio.
"Che appuntamenti abbiamo oggi?" Le chiese lui.
"Oggi deve conferire innanzi al congresso circa quell'acquedotto costruito in Botswana, signore".
Francis annuì lievemente mentre la segretaria continuava a parlare: "Quell'acquedotto ha salvato migliaia di vite. Lei ha davvero dentro di sè una passione indomabile e un amore unici nei confronti dell'acqua, signore".
"Mi piace giocare", sorrise Francis, riponendo il diario nel cassetto.

8 dicembre 2004

Premio "Provincia cronica" (II edizione - sezione racconti)
Laura Poletti - Le nuove vicine

Elisa aveva aperto la porta di casa ed era stata assalita dal pressante desiderio di richiuderla immediatamente e scappare il più lontano possibile. Certo, essere accolta, dopo otto ore di lavoro a stretto contatto con un capo la cui idiozia peggiorava di giorno in giorno, dagli urli dei gemelli che litigavano come due cani davanti all'ultimo osso, non era il massimo della vita. Aggiungendo a questo lo stato della casa, in cui sembrava esplosa una bomba, e il fatto che Luigi non fosse ancora tornato, probabilmente bloccato da qualche emergenza in ospedale, la serata che l'attendeva era da prevedersi pessima. Era il momento di un piano d'attacco, e, dopo vent'anni di matrimonio e due figli adolescenti Elisa era diventata una maestra nel preparare piani ben riusciti nello spazio di pochi secondi.

Anche quella volta il piano era riuscito ed Elisa non era riuscita a trattenere un sorriso soddisfatto, osservando Milena che raccontava la sua giornata scolastica davanti a una coppa di gelato: per l'equilibrio famigliare era necessario avere un freezer sempre ben fornito. Massimo non era dello stesso umore della sorella, ma, perlomeno, aveva smesso di polemizzare con lei. Poi, per cosa litigassero, o meglio per quale motivo Matilde rimproverasse suo fratello, questo Elisa non era riuscita a capirlo, ma probabilmente si trattava di qualche problema legato allo studio, campo in cui Matilde si divertiva a interpretare il ruolo del “grillo parlante”, visti i suoi risultati brillanti, a differenza di quelli di Massimo, che a scuola invece non eccelleva. Luigi stava correndo il rischio di addormentarsi sul piatto vuoto: i doppi turni lo massacravano.
Matilde l'aveva sorpresa quella, spedendo i due uomini sul divano a vedere la partita e offrendosi di darle una mano: nessuno si offriva mai di aiutarla ed Elisa aveva interpretato come se qualcosa di molto strano stesse per accadere.
Invece Matilde aveva lavorato in silenzio, finché la cucina non aveva assunto un aspetto decente: solo all'ultimo momento, un attimo prima di chiudersi in camera davanti al suo computer, si era lasciata scappare una domanda che a Elisa era sembrata molto strana.
- Hai visto le nuove vicine?
Era una domanda lecita, peccato che Elisa non si fosse nemmeno accorta che ci fossero delle nuove vicine: aveva fatto mente locale e l'unico appartamento che ricordava di avere visto vuoto era quello del piano terra, vicino all'ascensore. Il proprietario era morto da un pezzo, e gli eredi non sembravano interessati all'immobile.
- Dici quello a pianterreno?
Sua figlia aveva annuito, senza dare altre spiegazioni, perciò Elisa aveva scelto un commento più neutro possibile.
- Non mi sembra che ci sia niente di particolare.
Non le era riuscito di decifrare l'espressione di sua figlia.

- Hai visto le nuove vicine?
- Perché, abbiamo delle vicine nuove?
Elisa aveva girato la domanda a Luigi, appena dopo aver spento la luce, pur essendo sicura che non avrebbe ottenuto una risposta utile: non si sarebbe accorto di avere un elefante nella camera da letto, figurarsi delle facce nuove nel condominio.

Elisa aveva cercato di porre un minimo di attenzione alla questione, inserendo, fra le altre mille cose a cui doveva badare, anche il tentativo di individuare le nuove vicine. E ci era riuscita, senza incontrare nemmeno troppe difficoltà: infatti, doveva essere stata veramente molto distratta per non accorgersi delle due bellissime sudamericane che entravano e uscivano dal portone.
In un primo momento aveva provato un moto di invidia: davanti a fisici come quelli, confrontati con il suo che risentiva dell'età e dello stress, non aveva armi per competere. Per fortuna non aveva bisogno di essere gelosa di Luigi: lui continuava a lavorare come un asino e le ragazze avrebbero potuto girare anche nude per le scale, ma lui non se ne sarebbe accorto. In effetti, non è che utilizzassero molta stoffa per i loro abiti, ma, in fondo, potevano permetterselo.
Elisa aveva scambiato con loro qualche parola e le erano risultate simpatiche: non considerando qualche problema a capirsi, a livello di lingua, rappresentavano un'allegra novità rispetto al resto dei vicini, sempre di pessimo umore e impegnati a lamentarsi del tempo, dell'amministratore di condominio o del governo.

La signora Flora, terzo piano, vedova inconsolabile da più di vent'anni, l'aveva bloccata una sera sulle scale, mentre Elisa saliva con due borse della spesa strapiene: probabilmente si trattava dell'ennesima lamentela per il riscaldamento che funzionava a singhiozzo, oppure per l'impresa di pulizie, che sembrava più abile nello sporcare che nel pulire, perciò Elisa si era preparata, disconnettendo il cervello e mettendo in moto il sistema automatico di risposta.
- Non è possibile andare avanti così! Ho già chiamato l'amministratore e ha detto che vedrà cosa si può fare, ma quello è buono solo per prendere i soldi, bisogna che ci muoviamo noi, non è d'accordo? Soprattutto lei, che ha un marito e un figlio maschio!
Elisa aveva continuato ad annuire, riuscendo a sgusciare dalle grinfie dell'anziana signora: non aveva capito nulla di quello che la donna le aveva voluto dire, soprattutto per quel che riguardava la parte di marito e figlio, ma sicuramente non era nulla di importante.

Più strano le era sembrato un altro fatto, accaduto un venerdì pomeriggio in cui era riuscita a scappare dall'ufficio con paio d'ore d'anticipo: considerando che Luigi era a lavorare e i ragazzi in giro con gli amici, avrebbe potuto godersi un po' di riposo in solitudine.
Però non aveva preventivato di trovare Massimo in casa, o, meglio, seduto al tavolo della cucina con Jessica. O almeno le sembrava che il nome della ragazza fosse Jessica, le chiacchiere che avevano scambiato nell'atrio e la poca memoria non la aiutavano. I due avevano finito di bere una tazza di tè, e Jessica si era congedata con un sorriso pochi minuti dopo.
Elisa non aveva potuto evitare la domanda.
- Ma che ci faceva qui?
- Aveva bisogno dello zucchero.
Le sembrava di aver già sentito una risposta del genere, ma non aveva dato molto peso all'accaduto.

Come non aveva dato peso al crocicchio di condomini piazzati sul ballatoio del terzo piano, davanti alla porta della signora Flora, in una specie di riunione di condominio improvvisata. Dal tono delle voci, la discussione doveva essere molto accesa.
- E' mai possibile? Ma avete visto che via vai? E voi non sapete chi ho incontrato ieri!
Il geometra in pensione Folli, uno dei più noiosi attaccabrighe del vicinato.
- Anche il figlio di mia nipote! Ma lo immaginate voi che imbarazzo quando l'ho visto qui?
La signora Flora, con il solito tono scandalizzato. Elisa era riuscita a evitarli, limitandosi a un cenno di saluto e correndo lungo le scale fino alla sua porta: cominciava a non sopportare più i suoi vicini.

Il giorno dopo il capo non era in ufficio, e questa era di per sé una buona notizia: il ritmo di lavoro continuava uguale alle altre giornate, ma senza gli inutili commenti e le continue interferenze in cui il loro dirigente era un maestro.
- Vuoi farti due risate?
Era Chiara, l'esperta informatica, o meglio l'unica nell'ufficio che sembrava riuscire a cavarsela con i computer quando questi decidevano di non funzionare: quel giorno si era dedicata a quello del capo, che aveva l'abitudine di rompersi un giorno sì e l'altro anche.
- Vieni a vedere su che siti gira il capo, poi per forza si incasina tutto.
Elisa in un primo momento si era limitata a un'occhiata distratta: non è che la sfilata di bellezze in abiti succinti, con annesso numero di telefono, la interessasse più di tanto. Poi, nella sua perenne distrazione, qualcosa aveva richiamato la sua attenzione: la ragazza in alto a sinistra sullo schermo era Juliana, l'amica di Jessica. Jessica si trovava un paio di foto più avanti, con il seno in bella mostra.
- Hai capito perché gli si pianta sempre il computer?
Elisa aveva capito benissimo, ma al momento non gliene fregava nulla.

Era entrata in casa come una furia, evitando per l'ennesima volta di essere bloccata dalla signora Flora, che era in piedi nell'atrio, in compagnia di altre persone, che a Elisa sembrava di non avere mai visto. In casa c'era solo Matilde, impegnata con una versione di latino.
- Tuo fratello... tuo fratello...
- Mio fratello cosa? Che c'è mamma?
- Tuo fratello, Jessica...
Niente da fare, non riusciva a costruire una frase in modo sensato: per fortuna sua figlia sembrava dotata di un ottimo decodificatore per gli strani segnali che Elisa le stava inviando.
- Io non te l'ho detto, ma la tipa lo ha rispedito a casa perché è troppo giovane per lei. Comunque adesso il problema è risolto.
Elisa aveva preso una sedia e si era seduta di fronte a sua figlia: doveva scoprire cosa intendeva come “problema risolto”.
- Non li hai visti di sotto i poliziotti? E' vero, tu non vedi mai niente. Comunque le tipe avevano già portato via le tende, per cui c'è stato tanto casino per nulla.
Elisa aveva preso un bel respiro: ne avrebbe dovuto parlare a Luigi dell'uso che Massimo faceva della sua paghetta. E forse era il momento di andare più piano, e decidersi a guardarsi intorno con più attenzione.

7 dicembre 2004

Premio "Provincia cronica" (II edizione - sezione racconti)
Emanuela Bosisio - Un filo di sangue

Non molto lontano da qui ci sei tu, ma per molti anni non mi sono accorta di te e oggi sono venuta per chiederti scusa.
Io sono arrivata in questo paese vent'anni fa, tu molto prima; in realtà non ero ancora nata quando sei passato da queste parti, dove ti sei fermato per sempre, tuo malgrado.
Qui si è svolta gran parte della mia vita di moglie e di madre e prima ancora di giovane donna, quando i miei pensieri erano tutti per lui, gli amici, le feste in questa casa che sembrava fatta apposta per incontrarci, divertirci, costruendo giorno per giorno il nostro futuro; si dice così, no?
Anche se dai giorni della tua breve gioventù è passato tanto tempo e la tua indole maturava nutrendo ben altri ideali, immagino ricorderai quei tempi in cui si individuano i propri sogni e null'altro ha importanza che non realizzarli.
Quelli erano i miei tempi e la tua presenza non mi toccava affatto; il silenzio ti proteggeva, nulla mi suggeriva la tua vicinanza. Inconsapevole, ridevo scherzavo andavo e venivo, il pensiero del tuo essere totalmente estraneo.
Tu, sempre assorto nella tua quiete, nel susseguirsi delle stagioni avrai ascoltato le risate dei miei bambini nel giardino, i miei richiami perché rientrassero alla sera, l'abbaiare insistente dei nostri cani bassotto; e lo scricchiolìo delle ruote dei passeggini nelle uscite primaverili ed estive, poi delle biciclette, che si avvicinavano nella tua direzione per allontanarsene rapidamente fra ingenui schiamazzi e scherzosi rimproveri; io sempre ignara di te, che non sapevi trovare il modo di stabilire un contatto con me.
Mentre i miei anni scorrevano e cominciavano a segnare il mio viso tu non invecchiavi mai, dolentissimo Dorian Gray, ma certo non si può invidiare questa tua condizione. Chissà se con speranza, rassegnazione, disperazione o quale altro sentimento, sotto i pioppi che ti riparavano dall'afa dell'estate e dal freddo desolato degli inverni nebbiosi, desideravi che mi accorgessi di te. Perché tu eri sicuro, ne sono certa, che saperti vicino avrebbe fatto nascere in me un sincero sentimento di affetto.

E' stato quando i tuoi alberi sono stati abbattuti, quando la loro ombra argentea non ha più potuto nasconderti alla mia vista, che sono stata attratta da quella pietra grigia; pur nel tuo perseverante mutismo hai attirato la mia attenzione. E con quale stupore ho scoperto la tua vicenda e la nostra insospettata affinità.
Una storia già sentita molte volte, purtroppo, la tua: ti sei trovato su quel campo coltivato, in aperta campagna, un giorno qualunque dei tuoi 21 anni e quel giorno la tua vita si è arrestata irrimediabilmente.
In un fatidico mattino di guerra è risuonato il colpo di un fucile e tu sei caduto; colpito, spento... per sempre.
Qualcuno ha assistito all'accaduto e, sopraffatto dal dolore e dalla pietà, quando le armi hanno taciuto, ha raccolto il tuo corpo per consegnarlo allo strazio dei tuoi genitori; ma il tuo cuore si è fermato qui e allora il tuo nome, Erminio, è stato inciso su un tronco di pietra reciso, posato nel punto esatto della tua morte, a eterno ricordo dell'ennesima vita spezzata.
Tu però sei speciale per me, perché dopo qualche anno, le nostre famiglie si sono imprevedibilmente unite grazie a una coppia di giovani sposi; e così siamo diventati inconsapevolmente e indissolubilmente “cugini” pur senza poterci mai abbracciare.

Vorrei conoscere meglio chi eri prima di arruolarti; la tua fotografia racconta di un bel giovane dal sorriso aperto: chissà quanti amici avevi, quanti giochi e quante risate al bar o
nella piazza del tuo paese avrai condiviso con loro, quante ragazze ti avranno regalato il loro sorriso; dovevano avere all'incirca la mia età di quando sono arrivata qui: magari la mia voce ti ricordava qualcuna di loro.
Chissà quante lacrime sono scese dagli occhi di tua madre quando hai lasciato la casa dov'eri sempre vissuto per andare a difendere quell'idea che stava ammaliando tanti ragazzi come te; quante sofferenze nei duri mesi di combattimento affrontando, nel pieno della vita, un conflitto che ...giudicavi davvero giusto? ...volevi sinceramente condividere? ...sentivi tuo fino in fondo? ...credevi ti appartenesse? Chissà cosa hai pensato “dopo”, di quella lotta che per te ha rappresentato solo la fine di tutto, mentre a chi è sopravvissuto ha regalato la libertà.

Ed io, che ora passo a trovarti e ti rivolgo un saluto sperando che un giorno tu possa perdonarmi per tutti quelli che non ti ho dato, non trovo niente di meglio che rimproverarmi per averti lasciato solo tanto a lungo e mandarti un bacio affettuoso, perché è grazie a te e agli altri giovani soldati come te se sono nata in un paese libero.
Osservo il tuo sguardo e penso sconfortata che niente ti renderà gli anni che non hai vissuto e quasi mi vergogno del tempo che so di sprecare dietro ai pensieri più stupidi, ai crucci più futili.
E poi, mi fa raggelare la sensazione della tua esistenza che fuggiva da te, dell'angoscia con cui avrai cercato di rimanerle avvinghiato, provando vanamente a gridare che non era giusto andarsene così. Avevi ragione a voler rimanere, avevi diritto a giocare la tua partita con la vita; invece qualcun altro ha deciso diversamente per te, che sei rimasto con un grumo di terra in mano a vedere il mondo oltre i tuoi occhi spegnersi piano, mentre il dolore cresceva e le forze ti lasciavano.Quel giorno un filo del tuo sangue è penetrato nella terra ed è sceso fino alle falde da cui oggi attingo l'acqua che mi disseta, e mi lega ancor di più a te... per sempre.

5 dicembre 2004

Premio "Provincia cronica" (II edizione - sezione racconti)
Emanuela Bosisio - Un sentimento balordo

Il gomitolo della mia vita si è dipanato tutto in pochi chilometri quadrati di globo terrestre con qualche breve fuga per le ferie, rigorosamente quindicinali, regolarmente a cavallo di Ferragosto, non molto lontano da qui.
Perciò questa storia non poteva accadere che in questi paraggi; chi l'ha detto che per vivere un momento indimenticabile bisogna uscire dalla propria routine, affrontare un'esperienza esotica? A volte i fari che potrebbero illuminare la nostra vita sono semplicemente alle nostre spalle, ma noi non ci voltiamo per seguirli.
(Vi avverto, voi divoratrici di romanzi rosa: vi conosco come me stessa e tra poco mi direte che certe storie non si dovrebbero raccontare anzi, non si dovrebbero proprio vivere, figurarsi renderle di dominio pubblico! Se pensate questo vuol dire che non vi è mai capitato di avvertire, da qualche parte dietro di voi, due occhi che vi osservano...)

Non ci state affatto pensando, avete raggiunto una condizione in cui la pace dei sensi è l'unica certezza della vostra vita; in mente avete solo la lista della spesa, il pranzo da preparare, gli amici che verranno ad occuparvi la casa nel week-end; il tutto mentre state aspettando il vostro pargolo – alto ormai un metro e 80 – all'uscita da scuola e a un certo punto... Ma dov'è quello sguardo che vi fissa? A quale viso appartiene? Cominciate guardinghe a spiare intorno a voi, ma prodigiosamente quel contatto si spegne, quasi fosse scattato un allarme.
“Avrò sognato”, pensate stupite; eppure non vi convincete e cercate disperatamente uno specchio, uno spicchio di vetro, un paio di occhiali da sole in cui riuscire a sbirciare la vostra immagine. Volete scoprire se il trucco si è squagliato, se i vestiti sono macchiati, spiegazzati, strappati...
Poi riflettete: “E' tutto ok, saranno gli ormoni della menopausa che si sono messi in moto; non preoccuparti, prima o poi deve accadere, è solo questione di giorni...”.
Immersa in queste considerazioni filoginecologiche, accompagnata dalle ciance spensierate e un po' decerebrate del vostro giovane virgulto, tornate a casa e le occupazioni di sempre vi assorbono, prendono il sopravvento e i sensi, appunto, si placano.

Ma all'occasione successiva... ancora quegli occhi alle vostre spalle: questa volta siete sicure che sono dietro di voi, forse di fianco, ma fuori dal vostro campo visivo.
È come se una subdola zanzara stesse pregustando un lauto pasto col vostro sangue... “Un lauto pasto? Ma come ti permetti??? Al più potrei concederti un dolce assaggio... se solo uscissi allo scoperto, caro il mio dittero curioso!”. Ma al primo voltar di testa, la luce nuovamente si spegne.
“Allora non sei solo una fuga di ormoni: da qualche parte ci sei e mi scruti, in silenzio...”.
(Continuate a pensare che questa storia non promette nulla di buono? Allora siete veramente messe male quanto a impulsi emotivi! Comunque proseguo e le bigotte che non vogliono leggere oltre vadano pure a girare il risotto.)

Allora: diciamo che questa storia va avanti tra percezioni più o meno intense per tutto l'inverno, ma è a primavera che sbocciano i fiori, i brufoli sul visino del vostro svogliato studentucolo e gli amori balenghi.
Quelle due pupille sono sempre puntate alla vostra nuca e voi, col trascorrere dei trimestri e con l'affinarsi delle vostre doti di investigatrice dei sentimenti balordi, ne avete forse individuato il malizioso proprietario.
E se fosse davvero lui non sarebbe neppure tanto male!
(Sveglia, lo so che vi state appassionando e cominciate a pensare che forse anche voi, al saggio di danza della vostra bambolina in tutù, avete avuto l'impressione di essere seguite... ma vi assicuro che si trattava solo del bigliettaio da cui siete sgattaiolate senza pagare il ticket d'entrata.
E continuate pure a bollire i piselli, che sennò il risotto scuoce.)

A primavera si passa qualche minuto in più fuori dall'auto, gli uccelli cinguettano sugli alberi stentati del parco della scuola e si trova qualche argomento di discussione con gli altri gioiosi genitori di cotanti futuri genietti in via di formazione (“Ah, guardi, il mio Angelo non ha preso un'insufficienza in tutto l'anno”. E ti credo: due giorni su tre li passa al bar della stazione! Non ne ha proprio, di voti, il tuo Angioletto!).
Se c'è il sole, aiutano pure le lenti scure a non farvi notare mentre guardate in giro in cerca di lui durante un'amena dissertazione; senza, invece, parete colpita dallo strabismo di Venere, oltreché da una preoccupante forma di cervicale deformante, a giudicare dalle strane posizioni che assumete per entrare nella sua visuale e farvi guardare...
Sì, ormai lo sguardo intrigante ha un possessore ben definito e voi avete seguito un corso full-immersion di fotoromanzi per prepararvi all'assalto; perché, ebbene, è così: avete deciso di afferrare la maniglia dell'ultimo treno in transito e di provare l'ebbrezza della corsa coi piedi sul predellino, costi quel che costi.

Il bell'Antonio deve avere capito che avete capito: ogni tanto interviene nei battibecchi, a volte fa pure lo splendido e butta nel pollaio una battuta studiata, scatenando tra le galline un'ilarità che non lo interessa minimamente, perché la pollastrella che lo attrae l'ha, modestamente, davanti e non sta partecipando alla gara della risata più sciocca, ma sorride sorniona, proprio come ha visto sull'ultimo numero di “Donna romantica”.
Che si fa in questi casi? Si indaga su eventuali interessi comuni, che se non lo sono lo diventano pur di trovare il modo di prolungare una chiacchierata o porre le basi per quella successiva.
Al tempo dei colloqui generali avete fatto passi da gigante: siete già allo scambio dei numeri di telefono (“Dovessi aver bisogno di un passaggio per tuo figlio non ti fare scrupoli, fammi uno squillo e ci penso io”; “Ma no, non disturbarti, porto io a casa il tuo... sono di strada... sono appena 10 km più in là, ma già che scendo fin lì passo a fare la spesa”).
Intanto vi guardate allo specchio, non più per paura di essere in disordine: vi sentite più belle, più snelle, più farfalle... come quelle che vi frullano nel cervello quando arrivate e lui vi sta già aspettando fingendo un'indifferenza che non vi imbroglia neanche un po', bello di uno splendore vespertino e luciferino, prima stella della sera e diavoletto tentatore tutto vostro...
E anche lui appare più in forma, sorride più rilassato, vi sentite pure un po' a credito con sua moglie: le state cucinando un bel bocconcino, chissà se ricambierà lasciandolo gustare un po' anche a voi?
(A proposito: a che punto sta il vostro menu? Non è ancora pronto e vostro marito sta ululando dalla fame? Siamo quasi alla fine, ditegli che il pasto sarà servito tra pochi minuti.)

Lo scambio di contatti telefonici dà i suoi frutti: invariabilmente, lui dimentica di dirvi una cosa importantissima e deve assolutamente comunicarvela prima di domani; voi invece avete appreso una notizia inaudita e non potete fare a meno di raccontargliela subito.
Un giorno, l'argomento è così straordinario che dovete necessariamente parlarne a quattr'occhi... quel che ne nasce è un'argomentazione appassionata, profonda, appagante fino in fondo. Proprio un bel dibattito: erano anni che non vi esprimevate con una tale proprietà di linguaggio...
(Non fate quella faccia da santerelline: lo sapevate fin dall'inizio come sarebbe andata a finire!)

Poi scoppia l'estate, inizia il count-down degli ultimi giorni di scuola e voi capite che è ora di pagare il conto e tornare a casa. Il bell'Antonio ha appena chiuso la portiera sull'ultima campanella e vi sentite già meno belle, meno farfalle e persino meno snelle; sarà perchè in quei giorni vi siete mangiate le unghie con tutte le cuticole per il nervoso.
Sì, è vero, settembre è dietro l'angolo, ma voi sapete benissimo che certi treni non passano due volte; e poi vi aspetta una nuova, entusiasmante estate di barbecue con gli amici, figli che tornano a casa solo per dormire, mariti che stanno sempre a casa a dormire, e una bellissima vacanza rigorosamente quindicinale, regolarmente a cavallo di Ferragosto... non molto lontano da qui!

(Come? Avete bruciato il risotto con i piselli? Suvvia, non prendetevela: vi invito a cena, mi confiderete i vostri segreti, per il prossimo racconto! ...Oppure potrei sfamare i vostri mariti rimasti senza cena...)

4 dicembre 2004

Premio "Provincia cronica" (II edizione - sezione racconti)
Michele Fiorenza - Un tocco di classe


La fine di Luglio a mezzogiorno è afosa persino in alta collina. Un ragazzo, come me, stanco degli ultimi esami universitari superati, un sabato mattina che cosa può fare?
Me ne stavo seduto su un alto sgabello davanti al bancone del bar a consumare una buona birra fresca, alternandola con i biscotti di un pacchetto.
- Ti piacciono davvero i biscotti con la birra? – mi chiese Giuseppe, il gestore.
Risposi con un’alzata di spalle.
Il “Rifugio del viaggiatore” non è soltanto un bar: è in effetti una specie di buona osteria, che offre pochi, semplici, ottimi piatti e qualche linda camera al piano superiore; in bella esposizione diverse marche di birra e parecchi tipi di vini.
Stavo pensando che, a cominciare dal lunedì, avrei potuto più proficuamente andare ad aiutare mio padre in campagna, magari sino a mezzogiorno, quando vidi arrivare qualcuno che mi sembrò provenire da un altro mondo: alta, snella, giovanile, sobriamente vestita e silenziosa, entrò, si guardò intorno e andò a sedersi a un tavolo libero, davanti a una piccola e semplice tovaglia a scacchi.
Giuseppe fu subito da lei con il menù. Dopo una rapida occhiata, ordinò un piatto di ravioli al tartufo e un’insalata mista, con un italiano incerto e l’accento francese. Poi chiese la carta dei vini.
La guardavo rapito: camicetta bianca immacolata, gonna blu, un trucco leggero e orecchini piccoli. Età indefinita: poteva indifferentemente avere trent’anni portati bene o venti con atteggiamento da “grande”.
Dalla carta dei vini scelse una bottiglia piccola di Barolo, che probabilmente avrebbe raddoppiato il costo del pranzo.
Io fingevo di guardare le bollicine ancora presenti nella mia birra, mentre invece continuavo ad ammirarla. Doveva essere una rappresentante, in giro per lavoro. Consumò il pranzo svelta, con buon appetito, ma senza perdere quella classe, quell’aspetto di moderazione e di pulizia che accompagnava ogni suo gesto.
Stavo quasi per andar via con un sospiro, quando lei chiese a Giuseppe alcune indicazioni stradali. Il nostro oste non conosceva nemmeno l’intero villaggio, quindi mi feci avanti, rispolverando il mio francese del liceo. Aveva una cartina recente della regione e lì le indicai il percorso migliore per raggiungere la sua meta. Mentre annuiva alle mie spiegazioni, io mentalmente ringraziavo la mia severa docente di francese e respiravo quel profumo sottile e delicato che emanava dal suo collo.
Con molto garbo l’accompagnai sino alla sua auto, una bella decappottabile verde scuro e le indicai la strada per uscire dal villaggio nella direzione giusta. Feci un apprezzamento sulla macchina e lei rispose:
1
- Sì, ci sono affezionata, ma il motore soffre il caldo e dovrei farlo revisionare; però per adesso non ho tempo.
- Qui abbiamo un ottimo meccanico, che potrebbe fare almeno una buona messa a punto.
- Può darmi il numero, nel caso avessi problemi a breve?
- Non lo ricordo a memoria, ma le do il mio, anche perché l’officina è fuori dal villaggio e avrebbe bisogno di esservi accompagnata.
- Va bene, grazie.
Prese il suo cellulare e memorizzò il mio numero. Alla fine mi ringraziò con un sorriso e stringendomi per un attimo il braccio con la sua sinistra. La guardai sparire all’orizzonte come una specie di fata. Io tornai alla locanda.
- Non potevi offrirle un caffè? – mi chiese Giuseppe.
Scrollai le spalle, per dargli a intendere che non m’importava più di tanto:
- Sai se la Giannina fa chiusura d’estate?
- Credo che faccia orario unico, per passare il tempo.
Fu così che acquistai una camicetta bianca di seta per Paolina, che a giorni compiva gli anni. Gliela portai subito a casa, chiedendole di indossarla per quella stessa sera, quando sarei passato a prenderla per la solita pizza del sabato.
- Non rischio di rovinarla?
- Devi imparare a mangiare senza sporcarti: non sei più una bambina.
Le toccai i lunghi capelli: - Fa caldo: fatteli accorciare.
- Va bene: ho già appuntamento col parrucchiere.
Andai a trovare il mio amico Enrico, il meccanico:
- Hai bisogno dello spiderino, stasera?
- Sei fortunato, stasera no, posso prestartelo; però mi devi aiutare a lavarlo e devi metterci la benzina.
Fu così che alle otto in punto mi fermai davanti alla casa di Paolina. Uscì quasi subito:
- Giacca e cravatta? Che è successo?
- Credo che rinfrescherà.
Salutai con la mano e con un accenno d’inchino la mia aspirante suocera, che ci guardava contenta dalla soglia di casa.
Paolina aveva scelto una gonna dal colore pacato, in sintonia con la camicetta, e un paio di eleganti scarpe aperte.
- Sono nuove. – fu la risposta ai miei sguardi, che andavano dai capelli arricciati alle sopracciglia sfoltite, sino ai minuscoli piedi.
- Sei bellissima. – le dissi.
La pizzeria si trova in cima alla collina, e a quell’ora era quasi vuota. Scegliemmo il tavolo d’angolo. Guardai gli scaffali dei vini, notando che erano molto ricchi.
2
- Stai per compiere diciannove anni: vorresti un po’ di vino, al posto della solita aranciata?
- Purché non mi fai ubriacare…
Ordinai una bottiglia piccola di Barolo.
* * *
Domenica dissi a mio padre che il giorno dopo sarei andato con lui in campagna ad aiutarlo.
- Ne sei convinto? Lavorando si suda, con questa temperatura.
- Non vai all’alba? A mezzogiorno smetterò e mi farò una doccia.
Se lui con quel caldo lavorava, anch’io potevo guadagnarmi la mia pagnotta.
Alle dodici e trenta avevo appena terminato la doccia, quando squillò il cellulare. Riconobbi subito l’accento.
- Credo che la mia auto abbia bisogno di quella messa a punto.
- Ha bisogno di essere trainata?
- No, ormai sono a un paio di chilometri: possiamo incontrarci alla piazzetta dell’altra volta.
L’attesi con trepidazione e la vidi arrivare con piacere. Era senza trucco e appariva più giovane. Mi invitò a salire e, tra scoppiettii e impuntamenti del motore, arrivammo da Enrico, che avevo già avvertito, indicandogli il modello dell’auto.
Enrico fu laconicamente cordiale, e sorrideva sotto i baffi (che non aveva), mentre controllava il motore.
- Occorre una messa a punto e la sostituzione di un condensatore, che per fortuna ho in officina. Tra circa un’ora sarà pronta.
Che cosa si poteva fare in un’ora? Subivo il fascino di quella giovane donna, come mai mi era accaduto. E’ vero, ero quasi fidanzato con Paolina, che conoscevo dall’infanzia; ma una volta avevo inteso dire che il cuore ha ragioni che la ragione non può capire.
Mi venne in aiuto Enrico:
- Nel frattempo, puoi far vedere alla signorina il luogo della battaglia: è duecento metri più su.
Era vero: di quella battaglia eravamo tutti orgogliosi. Gliene parlai mentre lentamente salivamo lungo la stradina sterrata, tra l’erba alta e i fiori di campo che ancora resistevano alla calura.
Si mostrò interessata a quel racconto di un esiguo reparto del nostro esercito che per parecchi giorni aveva resistito a forze nemiche quattro volte più numerose, per poi essere costretto a ritirarsi per mancanza di munizioni e per il ritardo dei rinforzi.
Ammirò in silenzio il piccolo monumento posto a ricordo dei Caduti, lesse i loro nomi sulla lastra di marmo e mormorò qualcosa, forse una preghiera.
3
- Questo qui porta il mio stesso nome e cognome: dovrebbe essere un mio antenato. – le feci notare.
Sedemmo sui gradini del monumento, dalla parte all’ombra. Mi chiese dei miei progetti per il futuro e se avevo una fidanzatina.
- Più che altro è una specie di sorellina, perché la conosco da sempre. Esco con lei perché ha un bel carattere, mite e serio. E tu… sei fidanzata?
- Mi sposerò a Settembre.
Sebbene avessi già capito che doveva avere tre o quattro anni più di me, e probabilmente era già impegnata, ebbi un tuffo al cuore, e le guardai le dita: una sottile veretta di oro bianco le adornava l’anulare sinistro. Come avevo fatto a non accorgermene?
- Lui è italiano, come te, e forse ci sistemeremo a Torino. Quindi è possibile che ci rivedremo…
Mi bastava, doveva per forza bastarmi, quella vaga speranza di rivederla. Notando il mio turbamento, cominciò a parlarmi del suo lavoro, dei suoi viaggi, della gente che aveva conosciuto, e il tempo volò. Poi guardò il piccolo orologio d’oro che portava al polso e disse che era tardi e doveva rientrare.
Scendemmo rapidamente, mentre una vaga malinconia mi ghermiva.
- Adesso è tutto a posto, anche se il motore è un po’ usurato. Ho fatto un lungo collaudo. – disse Enrico, gettandomi un’occhiata birbona.
Il mio amico si prese veramente poco, per quel lavoro. Poi lei mi diede un bacio sulla guancia, che io ricambiai con gli auguri per le sue nozze.
Salì sulla macchina, mise in moto e andò via, sparendo tra la polvere sollevata dalle ruote.
Enrico mi guardava sardonicamente. Biascicai un ringraziamento, gli dissi che stavo andando da Paolina e continuai a scendere a piedi, seguendo le tracce lasciate sul terreno dalla decappottabile francese.