Quel pomeriggio mi interessava solamente soddisfare
le mie necessità vitali.
La città era ancora incagliata in una secca di fine
agosto. Il caldo opprimente. Le zanzare alimentate dall’afa padana sembravano
killer agguerriti e pronti a tutto. Il divano, evidentemente, non rappresentava
un rifugio abbastanza sicuro per sfuggire ai loro piccoli flagelli.
Lentamente, a carponi, raggiungo il rubinetto
gocciolante, ma il liquido che ne esce è imbevibile, ricorda vagamente l’acqua
di un lago salato dell’Asia centrale, quelli che sulle carte geografiche sono
colorati di viola, inospitali solo a guardarsi.
Arrivano le 16, il soggiorno si riempie con le prime
ombre. Le ombre sono alleate delle zanzare e la guerra si fa rapidamente
impari.
Esco di casa. Scendo le scale di marmo che mi
porteranno all’aria aperta, alla strada. L’impatto con il cemento e con la luce
bianca è come un fiume che sfocia ad estuario nel mare. Intontisce, confonde.
«Buon giorno, ha passato bene le ferie?»
Un fastidio furtivo si impossessa subito della
mente.
Ci mancava solo il signor Borditti!
Vittorio Borditti era un uomo sui 70. Magrissimo. Da
quando anni fa lo avevano lasciato a casa dal suo incarico di custode notturno
in una casa editrice aveva completamente perso la testa. Beveva. Ma lo faceva
in garage, per non farsi vedere dalla moglie, una donna bisbetica che al
contrario di lui non usciva mai di casa. Per questo era una consuetudine
incontrarlo.
Fumava pesante. Lo faceva tanto intensamente che le
vene, in particolare quelle del collo e delle mani, avevano assunto una
vitalità propria. Poi andava in giro seminudo, con dei pantaloncini color cachi
corti e aderenti; una canottiera bianca di cotone, con le spalline strette.
Oggi
aveva anche un cappello di paglia che gli donava un aspetto più simile a quello
di uno spaventapasseri, rispetto al maniaco che rappresentava il suo standard
di riferimento più usuale.
«Sì grazie, tutto bene. Sono tornato ieri», mi
svincolo, proseguendo a passo svelto nella speranza che non faccia altre
domande, tipo sulla mia fidanzata, o cose del genere.
Pericolo scampato, interrogatorio post ferie del
signor Borditti evitato, almeno per il momento.
Respiro profondamente e proseguo spedito.
I viali che conducono da casa mia al centro sono
percorsi da un vuoto assordante: non un’auto, non una persona. Da dietro le
imposte delle finestre si sentono solamente linguaggi non comprensibili che
rimandano ai domestici impieghi di famiglie straniere.
Mi addentro nel parco, distendendomi in fretta
nell’unico punto dove l’erba sottile non è stata liofilizzata dal sole. È verde
e profumata. La schiena aderisce completamente al terreno cercando un’osmosi
ristoratrice. Poi sono gli uccelli a donarmi un minimo di armonia nel
pomeriggio ancora afoso e inspiegabilmente sempre più dolente.
Eccomi. Inerme persino di fronte ai bambini che
inavvertitamente mi tirano una pallonata. Cerco di ridarmi un tono e proseguo
nel mio gironzolare verso il centro.
Chissà se durante la mia assenza estiva è cambiato
qualcosa?
Guardo con aria interrogativa i monumenti e le
vetrine dei negozi che ancora espongono i manifesti dei saldi.
«Lele», mi sento chiamare.
«Ehi, siamo qui! Come stai?»
Francesca è una mia ex compagna di scuola. Alta più
di me, una chioma bionda leonina e innaturale. Un enorme viso rotondo, come una
luna piena. Nonostante questi difetti, una cura impeccabile e maniacale della
persona la rendeva oltremodo piacevole. Con lei Alessia, la sua amicaridens,
altrettanto bella, ma macchiata da un continuo ghigno che la faceva sembrare
schizofrenica.
«Ma sai che Virginia si sposa?»
Virginia, un’altra nostra compagna, non era
propriamente un fiore. Il suo matrimonio, a quanto pare, era un evento che
suscitava un certo fermento nella popolazione femminile che aveva frequentato
il nostro liceo.
«Sì, lo avevo sentito…», le altre parole mi muoiono
in gola.
«Ma è un sacco che non ci vediamo, cosa mi racconti
di te? Hai la ragazza?»
Forse era meglio se restavo tra le grinfie del mio
vicino di casa.
La mia espressione credo nasconda fastidio!
«Io tutto bene, più o meno. Sai, sto lavorando, le
solite cose… insomma»
«Anche io sto lavorando. Dalla prossima settimana mi
trasferirò a Milano in un appartamento in centro. Mi hanno da poco assunta in
una società di revisione dei conti dove guadagnerò 2.800 euro al mese più i
benefit».
Con un certo sforzo trattengo una smorfia che
mescola invidia e disapprovazione per il fatto che io con tre lavori tiro su a
malapena 750 euro al mese. Ma poco importa.
«Non mi hai detto se hai la ragazza? Ormai tutti
sembra che vogliano sposarsi e mi consolerebbe davvero molto sapere che non
sono l’unica ad essere rimasta libera»
Accetto questa intromissione nel mio privato con una
certa rassegnazione e incasso il colpo.
«Sai, preferisco volare di fiore in fiore. Comunque,
se ti consola, ti dico che non ho la ragazza».
Non mi sembrava, questa, una frase così divertente, ma evidentemente lo
era.
Alessia, l’amicaridens, si stava infatti quasi strozzando con un
salatino, tanto da essere costretta a sputarlo richiamando gli sguardi
indiscreti degli altri avventori del bar con dehor nel quale stavano
sorseggiando il lussuoso aperitivo.
Mentre aspetto che Alessia finisca di grufolare, mi accorgo che con
loro c’è pure una terza ragazza. Mi colpisce subito per la posizione dei suoi
occhi: sono laterali, come uno di quei pesci rossi dai bulbi sporgenti. Poi ha
la faccia oltremodo pelosa. Inscopabile.
Che stupido, le ragazze che vogliono sembrare belle si circondano
sempre di amiche meno appariscenti. È una regola vecchia come il mondo!
Superata la raffica di domande su tutti i conoscenti comuni – inutile
dire che tutti gli elementi trapelati sarebbero stati usati sia contro di me
sia contro i malcapitati protagonisti del nostro parlare – riesco a
divincolarmi, salutando loro e i calici ricolmi di piñacolada e ombrellini
multicolore.
Torno a casa sconsolato. La mia situazione emotiva
non sta affatto migliorando. L’incontro con Francesca e Alessia mi ha fatto
sentire oltremodo sfigato.
Mi accoccolo di nuovo sul divano. Presto diventa
tutto appiccicaticcio a causa del sudore. Accendo la tvu. Come sottofondo
scelgo Mtv. Mi fa cacare Mtv, ma sono stanco e voglio solo sentire una voce che
mi tenga compagnia.
C’è un clip con ambientazione metropolitana: un
ragazzo biondo e butterato, con una camicetta a scacchi, giace in una strada
della periferia milanese.
Sembra dolente. Poi i passanti lo calpestano nell’indifferenza più totale, e
lui - sempre sdraiato - incomincia a levitare.
Canta “Non mi parli da giorni e comprendo/ quello
che provi dentro poiché/ Ti ho colpito in centro all’orgoglio/ credevo di
vincere…”.
Che porcata. La respiro e la trattengo.
Inconsciamente.
Come se in questa favola nascente ci fossi anche io.