Premio letterario 'Provincia cronica' prima edizione
Lorenza Negri - Le tante vite di una bibliotecaria
Fuori si sta scatenando un furioso temporale. Io al sicuro, protetta dai vetri della finestra, osservo la sua forza dirompente nella staticità della natura che non si lascia sopraffare.
Anche dentro di me c’è un temporale, e i tuoni sono i pensieri che nel mio cervello provocano lampi di consapevolezza che illumina la scena madre. Chi sono? Cosa sto facendo? Perché? Boh. Non lo so: So solo che vivo. Ogni giorno e ogni notte, è un’altra vita.
Oggi come sempre ho scritto a casa. Ho raccontato come vivo la mia vita quotidiana in biblioteca.-Dolce tenera Marina- è così che mi vedono le mie colleghe; non riescono a essere aggressive o invidiose con me: le intimidisce la mia gentilezza e arrendevolezza.
Del resto, in questo luogo mi è naturale, essere cosi: sia nel comportamento sia nel rigoroso modo di vestire. Anche gli abiti che indosso riflettono questo sentire. Mi vesto con colori e tessuti morbidi, leggeri, dai colori tenui,o tailleur dal taglio rigoroso che poco lasciano alla fantasia.
Qui preferisco passare inosservata, cerco di nascondermi anche dietro la pesante montatura degli occhiali, da riposo. I capelli li porto raccolti stretti sulla nuca in uno chignon stretto per non far sfuggire neppure una ciocca.
Mi muovo lentamente, armoniosamente, quasi sfiorando il pavimento, come fanno le ballerine nelle antiche danze russe. Rispondo alle domande delle persone sorridendo e con cortesia. Sono contenta di poterle aiutare a trovare il libro o l’autore che cercano.
Mi sento gioiosamente frenetica e creativa, solo quando compongo la vetrina dei libri della settimana con un argomento particolare. Cerco e trovo tutto ciò che riguarda il tema scelto, sotto tutti i punti di vista, e ho cura di disporre i libri con criteri di importanza ma anche di formato e colori. Perché anche la vista vuole la sua parte.
Questo è il mio modo di liberare la fantasia e la creatività. So che è poco, ma è molto piacevole e poi mi permette di sognare. Mi piace questo ambiente e ci sto molto bene. Qui c’è tanto silenzio, tutto è soffuso, le luci, i suoni, i dialoghi, i pensieri.
L’unico frastuono permesso è il desiderio di conoscere. Si avverte nell’aria, nei mille e più libri raccolti sugli scaffali e negli occhi delle persone che vengono a cercarlo. Anch’io l’aspiro con voluttà e m’inebrio, mi regala un leggero ma piacevole stordimento che mi pacifica con il mondo, con il suo ritmo esasperato, che non mi appartiene.
E’ qui che trovo le risposte a domande ancora da fare, a pensieri che illuminano strade, ancora da percorrere, stimoli e curiosità infinite.
Questa è la vita che mi piace vivere, ogni giorno che il cielo illumina l’alba, nella biblioteca della piccola cittadina di provincia.
Ma appena scende l’oscurità, una energia sconosciuta mi sale dal profondo e mi trasforma e divento un’altra che si chiama Francesca. E’ bello essere e sembrare tante donne diverse. Nessuna personalità è un monolite. A volte può essere un abito che sottolinea, chiarisce perfino, le diverse sfaccettature dell’io. E’ il bellissimo gioco dei ruoli e dell’identità. Giocare con gli abiti può essere divertente, persino liberatorio.
Allora, quando sono Francesca, sciolgo i capelli che come un onda dorata e vaporosa si posano sulle spalle che si rialzano mettendo in mostra i seni impudenti, il corpo snello che si distende sensuale e sinuoso. Mi tolgo gli occhiali che non mi servono più e, gli occhi scintillano al pensiero di ciò che mi aspetta. Anche il viso si rilassa, lasciando una dolce espressione civettuola. Lo specchio mi riflette l’immagine di una bellissima ragazza, prorompente di vita. Finalmente è giunta l’ora per le passioni, rimaste in fremente attesa.
La mente è concentrata su immagini astratte, mentre la mano scopre il quadro in attesa di essere finito. L’osservo con occhio critico e la mano è già con il pennello sui colori. L’ansia creativa mi pervade senza limiti. Il tempo scorre veloce. Ma, lo squillo del telefono mi scuote e mi riporta alla realtà. -E’già, mi aspettano. La notte mi vuole. Anch’io la voglio.-
Eccomi sono pronta. Mi guardo allo specchio, sono soddisfatta dell’immagine che vedo. Però, è stato difficile scegliere cosa indossare, non sapevo chi volevo diventare stasera.
Non sapevo se indossare la giacca di volpe con la camicia in tulle di seta cangiante e shorts, oppure lo spencer in velluto di seta con maniche a sbuffo, e il dolcevita con i fuseaux, abbinandoli alla cintura a morsetto in metallo, e stivali, tutto in nero. Ma poi ho deciso che stasera sarei stata la donna fatale, con indosso un miniabito rosso fuoco a taglio impero in chiffon di seta plissè con fascia di raso a contrasto e scarpe con tacco a spillo. Uno splendore!
Essere una perfetta fashion è entusiasmante, ma molto difficile. Ci vuole molto impegno per crearsi il proprio stile per essere unica. A volte, compro anche tre paia di scarpe dello stesso modello, perché voglio essere l’unica nei dintorni con lo stesso numero che le porta. Appena le vedo su di una rivista le ho già ordinate in qualche sito internet, oppure chiamo tutti i rivenditori di quella marca per verificare la disponibilità del colore e numero. So che devo agire con tempestività e molto anticipo per essere la prima che indossa quel capo in quella stagione, magari anche con più varianti di colore. Tutto ciò senza che si possa giustificare il reale utilizzo. L’importante è essere l’unica, la speciale. Essere la più guardata, additata, ammirata, imitata. Anche stanotte sarò la più bella, la meglio vestita, la star.
Non mi vesto per cambiare la mia vita o me stessa, ma per esprimere un mutamento che c’è già stato. Per dire qualcosa di me di diverso. A volte ho dei momenti di insicurezza: allora non c’è nessun vestito, colore, modello, che mi esprima davvero. Allora dico:- non ho nulla da mettermi-, ma significa solo che qualcosa non va. Che in quel momento non mi piaccio più, che sono confusa. Gli abiti che ho amato ieri non mi rappresentano più. Significa che sto cambiando. Scegliendo un vestito, scelgo nuovamente un pezzetto d’identità.
Quando rientro sono felicemente esausta, è stata un’altra notte fantastica, ho conosciuto persone specialissime, interessanti. Chissà dove andremo insieme, dove mi porteranno questi incontri, cos’altro mi faranno vivere di stupendo. Sono accesa, eccitata, ho voglia di raccontare le cose splendide che mi sono accadute. Ma il sonno mi trascina dolcemente con sé.
Domani è un altro giorno.
La luce si diffonde lentamente e colora la camera con il chiarore dell’alba, sento un cinguettio primaverile, un profumo di caffè mi stuzzica le narici. L’allegro gorgoglio di un ruscello di montagna, mi ricorda che è tutto finto: è solo la sveglia speciale che mi ha regalato la mamma, per darmi un buon risveglio e consolarmi della lontananza. Noi siamo molto amiche, ma ci teniamo a distanza, siamo troppo diverse, ma c’è molta gentilezza, oltre che infinito affetto. Io posso raccontarle solo una delle mie vite, perché non so se capirebbe.
Guardo fuori, il temporale è cessato, l’aria è tersa e profuma di primavera. Mi sento leggera e ho voglia di sognare, come al solito.
Mi cattura sempre più spesso un sogno o è un’ energia che mi pervade?
Sono Gloria, viaggio continuamente per il mondo, in tante città, luoghi bellissimi che da sempre ho desiderato visitare. Ci sono molte persone che sono pazientemente in fila per entrare nella libreria, per avere la mia firma su mio libro appena uscito. Partecipo spesso alla presentazione di film che hanno tratto dai miei libri. Incontro personaggi importanti. Ricevo premi prestigiosi di letteratura. Sono piacevolmente incredula e felice. Vivo tutto con estrema emozione e stupita per gli inattesi e meravigliosi doni che la cornucopia della fortuna mi sta rovesciando addosso.
Ma una profonda tristezza mi ruba il sorriso dal volto, mi sento ingrata, tutto questo e queste meravigliose vite non hanno senso; perché desidero e più di ogni altra cosa l’atto più creativo che esiste.
Desidero dare alla luce una creatura. Voglio piccole mani che si affidano alle mie, ansiose di conoscere il mondo. Voglio vedere occhi stupiti di tutto ciò che è vita. Voglio lanciare la mia vita come freccia verso l’universo infinito.
E’ questo il sogno più bello, fatto con la consapevolezza della vera vita che desidero.
Con Marina, dolce deriva sul mare della serenità.
Con Francesca pura energia vitale.
Con Gloria che crea emozioni.
O chissà quale altra me, che ancora non conosco.
30 gennaio 2005
29 gennaio 2005
Maria Maddalena Monti - Tanto ormai
Premio letterario 'Provincia cronica' prima edizione
Maria Maddalena Monti - Tanto ormai
Il racconto è stato rimosso su esplicita richiesta dell'autrice
Maria Maddalena Monti - Tanto ormai
Il racconto è stato rimosso su esplicita richiesta dell'autrice
28 gennaio 2005
Gianroberto Viganò - Dalle risaie ai vigneti
Premio letterario 'Provincia cronica' prima edizione
Gianroberto Viganò - Dalle risaie ai vigneti
Un secco toc-toc alla porta della stanza mi fece svegliare di soprassalto. Era ora di alzarsi. Mi infilai le ciabatte per avvicinarmi all’uscio. Rassicurai l’albergatore che avevo sentito il segnale di sveglia e che con Marchetti, mio compagno di squadra nonché di camera per l’occasione, sarei sceso a far colazione di lì a poco.
L’iniziativa di prenotare un albergo per evitare una levataccia era partita dal nostro direttore sportivo, il buon Carpineti, che aveva pianificato questa trasferta per darci modo di partecipare ad una gloriosa classica per dilettanti del ciclismo piemontese.
Da parte nostra, non eravamo per nulla contenti di trascorrere il Sabato sera lontani da casa in uno sperduto hotel a due stelle del Novarese, ma Carpineti, un po’ facendo la voce grossa, un po’ decantando il prestigio della gara, ci convinse.
Prima di vestirmi, detti uno scrollone a Marchetti, che dormiva ancora beatamente.
“Luca, svegliati. Sono le 7.”
“Le 7? E’ ancora l’alba”. Sbuffò, rigirandosi nelle lenzuola.
“Forza, in piedi! Il Capo è già pronto e ci aspetta nella hall per la colazione.”
La parola Capo, che per Marchetti identificava Carpineti, lo smosse dal letto.
La nostra squadra, l’Unione Ciclistica Ceredo, aveva mezzi modesti ed era composta da quattro ragazzotti di belle speranze: Silvestro Vanotti, Fabio Zanzottera, Luca Marchetti e da me, Paolo Sedaboni.
Vanotti era un lungagnone bergamasco, una sorta di armadio a due ante, alto quasi due metri. Faceva l’operaio in un’azienda metalmeccanica delle sue parti e, grazie ai turni, riusciva ad allenarsi.
Era buono come il pane, anche se un po’ ingenuo.Vedeva il ciclismo come un’opportunità per affrancarsi dal lavoro in fabbrica, sperando un giorno in un buon ingaggio. La sua idea fissa era di finire sulle cronache sportive dell’Eco di Bergamo e portava con sé un album, dove in modo maniacale ritagliava tutti gli articoli, che riportavano un suo timido allungo, un suo oscuro piazzamento nei primi venti o la sua compartecipazione ad una fuga di scarso interesse.
Zanzottera aveva un paio di anni in più ed era un velocista tutto pepe. Era soprannominato il “Rogna”, perché ogni sprint di paese, ogni banalissimo traguardo volante per un prosciutto o una bottiglia di vino era un’ottima occasione per venire alle mani con qualcuno. Non era un amante della bicicletta, ma correre era un pretesto per evitare di lavorare nel panificio del padre, il quale invece viveva di pane, per professione, e ciclismo, per passione.
Marchetti era il ragazzo con cui avevo stretto maggior amicizia e, fra noi quattro, era sulla carta il più talentuoso. Nelle categorie giovanili aveva vinto parecchio, ma non aveva la testa del corridore. Amava buttare tutto in burla e lo consideravamo il mattacchione del gruppo.
Carpineti, che era stato un mediocre professionista degli anni ’70, prendeva estremamente sul serio il suo ruolo di direttore sportivo, mentre Marchetti con i suoi comportamenti gli ricordava che eravamo solo quattro ragazzi con tanta voglia di vivere.
Fra i due si era instaurato un rapporto di odio-amore: Marchetti chiamava Carpineti “Capo” e quest’ultimo gli aveva affibbiato il nomignolo “Tiraculo”.
Infine c’ero io. Non è mai semplice descrivere se stessi. Diciamo che avevo trascorsi come lupetto, come componente della compagnia teatrale della parrocchia e come terzino destro della Milanesiana, insomma, al di là di qualche buon risultato in gare con arrivo in salita, un ragazzo con tante esperienze lasciate a metà per poter pensare di diventare seriamente un buon ciclista.
A dirigere questi valenti alfieri dell’Unione Ciclistica Ceredo vi era il più volte citato Bonifacio Carpineti, rappresentante di articoli casalinghi, il quale accettava ogni Domenica il martirio di sopportare i nostri alterni risultati per l’infinito amore verso le due ruote.
Il nostro direttore sportivo era un personaggio, un’autentica sagoma. Era un omino grassoccio con le calvizie celate da un ardito riporto, sempre ben curato, e con i pantaloni sostenuti da un paio di bretelle di colore diverso in funzione dell’umore.
Nel ritiro invernale in Liguria, prima della stagione agonistica, passava serate e serate a tormentarci con i suoi racconti e le sue sfide, in parte vere e per la gran parte inventate con i vari Baronchelli, con i fratelli Algeri, con i Turrini ed i Vattelapesca.
Mentre Carpineti s’infervorava nelle sue narrazioni, Vanotti restava estasiato, Zanzottera leggeva Alan Ford ed io dormivo ad occhi aperti. Marchetti invece, sornione come un coccodrillo a caccia della preda, faceva finta di nulla, immagazzinando date ed episodi per l’occasione più opportuna.
Una sera, perso fra i suoi vagheggiamenti e forse agevolato da qualche bicchiere di Vermentino, Carpineti esagerò propinandoci autentiche banalità per alte strategie ciclistiche.
Il tema del suo delirio era la richiesta d’assistenza: “Se devo parlare con uno di voi in corsa, darò due colpi di clacson, così scivolerete in coda al gruppo per alzare la mano. A quel punto, il giudice di gara mi darà il permesso di affiancarvi.”
Vanotti era a bocca aperta, Zanzottera sbadigliava annoiato, mentre a Marchetti s’illuminavano gli occhi.
“Scusi, Capo”, intervenne. “Non aveva forse detto che Lei perse la Coppa Imperia del 1978 perché si defilò in coda al gruppo scambiando il colpo di clacson di una vettura qualsiasi per quello della sua ammiraglia?”
“Beh…Sì…Con questo?” Balbettò Carpineti.
“Propongo di dotare la nostra vettura di una tromba con qualche motivetto originale per distinguerla dalle altre.” Disse con fare convinto l’infido Marchetti.
Preso alla sprovvista, Carpineti trovò la proposta geniale ed acconsentì.
Il giorno seguente la nostra macchina non aveva più un normale clacson, bensì il motivetto della Cucaracha e così diventammo in breve tempo lo zimbello di tutte le società ciclistiche lombarde.
Non pago di questo piccolo successo, Marchetti meditava di consumare l’intera vendetta e, dopo le prime pedalate dell’allenamento pomeridiano, alzò improvvisamente il braccio destro.
Carpineti si avvicinò incuriosito con l’ammiraglia, sporgendosi dal finestrino; “Che c’è? Hai forato?”
“No, stavo semplicemente facendo una prova di chiamata d’assistenza.”
Finita la colazione, lasciammo l’albergo per dirigerci al ritrovo della gara. Il paese era un piccolo borgo agricolo e la Domenica mattina pareva più assonnato di Marchetti.
Ritirammo i numeri e firmammo il foglio di partenza, per poi effettuare la consueta riunione tecnica per studiare il percorso ed assegnare i compiti.
Carpineti con la sua tipica parlata lodigiana spianava tutte le z in s: “L’inisio da Parussaro ad Asti è piatto come un biliardo, poi si entra nelle Langhe e cominciano le salite. Si tratta di strappi brevi, ma secchi, di quelli che fan male. L’arrivo è in cima a La Morra, però è inutile che vi spieghi dov’è, perché per voi La Morra e San Giacomo Caduto in Mare sono la medesima cosa. Il circuito finale è da ripetere due volte, quindi, se sarete ancora in gara, studierete l’arrivo nel corso del primo passaggio.”
Le sue spiegazioni, benché tradissero poca fiducia nei nostri confronti, erano sempre colorite, ma efficaci; “Vanotti si occuperà di annullare gli attacchi nel tratto di pianura, Sansottera farà le volate per i traguardi volanti, Marchetti cercherà di entrare nelle fughe inisiali, mentre Sedaboni, che è il meno scarso in salita, curerà il finale.”
Sul programma stampato dall’organizzazione vi era riprodotto il percorso della gara con particolare evidenza al circuito conclusivo, che suonava come una cantilena “La Morra, Novello, Dogliani, Serralunga, Pollenzo, La Morra”.
L’altimetria del finale sembrava il cardiogramma di un cuore impazzito.
Dalle mie parti le salite oramai le conoscevo metro per metro. L’erta verso il Santuario della Madonna del Ghisallo era per me un libro aperto: il primo tratto di salita finisce a Longone, nei pressi della casa di Carlo Emilio Gadda. In quel punto uno sbiadito cartello turistico giallonero indica che mancano dieci chilometri alla vetta. Al lago del Segrino la strada spiana ed è il momento di rifocillarsi, poi si supera il pavè di Canzo, la stazione di Asso, la galleria di Valbrona e, quando la strada costeggia la chiesa romanica di Sant’Alessandro con il suo bel campanile, cominciano le danze. Alla croce di Barni la strada s’impenna sotto i pedali, si entra in Magreglio e, dopo una leggera curva a destra nella strettoia in paese, bisogna dar tutto in apnea fino alla chiesetta.
Ebbi una felice intuizione. Presi dalla cassetta dagli attrezzi un paio di forbici ed il nastro adesivo trasparente. Ritagliai dal volantino l’altimetria del finale, ricavandone una strisciolina di carta da applicare sulla pipa del manubrio.
Vanotti mi chiese le forbici e imitò la mia operazione, mentre Zanzottera con ghigno sardonico lo canzonava: “Silvestro, questa corsa si chiama “Dalle risaie ai vigneti”, ma il menu riservato a noi due prevede il primo senza alcolici.”
Vanotti scrollò le spalle e sistemò la cartina, che sulla pipa del suo manubrio pareva piccina, piccina.
Il ciclista che si prepara alla gara è come un cavaliere prima di un torneo medievale. Vi è una liturgia tramandata da generazioni e generazioni di corridori; la vestizione, il foglio di carta sotto la maglia per proteggersi dall’aria, i panini al latte con la marmellata avvolti nella stagnola, la preparazione della borraccia, i massaggi con l’olio canforato, il controllo della pressione dei tubolari ed infine il riscaldamento per verificare che tutto sia a posto.
Questi momenti di attesa in vista della partenza mi sono sempre piaciuti. Senti che l’adrenalina ti pervade e non vedi l’ora che il mossiere abbassi la bandierina per scaricare la tensione con un paio di pedalate.
A dire il vero, era oramai metà Settembre e le gare di fine stagione ricordano gli ultimi giorni di scuola; la voglia è poca e si pensa a fare progetti per il futuro.
Una volta preso il via, Marchetti ed io stavamo placidamente in coda al gruppo a commentare la settimana di vacanza al mare concessaci da Carpineti. Discutevamo dei nostri progetti dopo la maturità e Marchetti mi parlava della patente appena acquisita. Si lagnava del fatto che il padre non lo lasciava guidare da solo e che neppure Carpineti si fidava a concedergli la vettura-ammiraglia nei trasferimenti, preferendogli Zanzottera.
Si pedalava ad andatura tranquilla ed il gruppo occupava l’intera sede stradale. Dovevamo percorrere un lungo rettilineo che si perdeva nell’orizzonte, mentre a destra e a sinistra eravamo circondati dalle risaie, che erano tinte di biondo in attesa della raccolta.
Non era un paesaggio monotono, perché vi era un continuo svolazzare di uccelli sopra le nostre teste. Anzi, per chilometri e chilometri non si vedeva anima viva, e i volatili nelle risaie erano gli unici spettatori. Erano incuriositi dal passaggio di questo serpentone multicolore, che si snodava o appallottolava in funzione degli scatti e dei rallentamenti.
Marchetti, che seguiva il padre nelle battute di caccia dalle parti di Barengo, fungeva da Cicerone: “Guarda là un airone cenerino! Guarda lì una nitticora!”
La nostra divagazione ornitologica fu interrotta dal suono della Cucaracha. Carpineti, nonostante i rimbrotti della giuria, si era portato in coda al gruppo per sbraitare al nostro indirizzo: “Voi due!!! Tè? Caffè? Pasticcini? Tiraculo, vai avanti a combinare qualcosa di buono!”
Marchetti borbottò qualcosa d’incomprensibile e si mise a risalire il gruppo sulla destra per portarsi nelle prime posizioni, mentre io restavo in coda secondo le consegne.
Riflettevo sull’esito della maturità, sulla voglia di iscrivermi all’Università e soprattutto se continuare a gareggiare o meno.
In sella ad una bicicletta mi era sempre risultato più facile pensare. Era un modo di rilassarmi, dandomi l’opportunità di estraniarmi dal contesto. Per questo motivo accettavo a vent’anni di osservare una vita quasi monacale a differenza di tanti miei coetanei.
Un cartello indicava l’entrata in provincia di Vercelli.
In Piemonte i temporali hanno un gran rispetto per le competenze territoriali, difatti, lasciato alle spalle il bel tempo, dopo qualche timida goccia seguì un forte scroscio.
Alzai la testa, oltre la sagoma del gruppo davanti a me, e vidi in lontananza un piccolo centro. Secondo la cartina, poco più avanti vi era un traguardo di paese ed era compito di Zanzottera impegnarsi per la volata.
In vista dello sprint, la velocità aumentava progressivamente, sinchè superammo il punto dov’era posto il premio e scorsi sulla sinistra, in un fossato, Zanzottera con l’acqua fino alle caviglie che imprecava contro tutto e tutti.
Mi portai avanti e chiesi a Marchetti cos’era successo. “Niente, il solito Rogna. Sgomita-tu che sgomito-io ed alla fine l’hanno buttato in un canale.”
Altro cartello, altra provincia ovvero Asti, ed il sole ritornava a far capolino, asciugando noi poveri ciclisti che sembravamo tanti anatroccoli bagnati.
Nel torpore generale dieci atleti, fra i quali nessuno dell’Unione Ciclistica Ceredo, presero il largo. Li vedevamo davanti a noi guadagnare terreno, prima venti secondi, poi trenta, quaranta ed infine erano diventati un puntino lontano ed indistinguibile.
“Qui si mette male. Ho la brutta sensazione che quelli in fuga li rivediamo solo all’arrivo”, commentò preoccupato Marchetti. “Mi immagino già il Capo… Oggi fra l’altro ha le bretelle rosse e non è buon segno.”
“Che si fa?” Gli chiesi.
“Ho un’idea.”
Marchetti affiancò Vanotti e cominciarono a parlottare in modo fitto, dopodichè il gigante orobico, come un toro impazzito, cominciò a smanettare col cambio alla ricerca del massimo rapporto, guadagnando la prima posizione in testa al gruppo.
Con le sue potenti leve ci mise tutti in fila indiana ed ad ogni chilometro il plotone si assottigliava perdendo qualche elemento, mentre i battistrada vedevano ridursi inesorabilmente il loro vantaggio.
Alle porte di Asti, Vanotti poneva termine al tentativo dei dieci.
“Ma cosa gli hai detto per scatenare questa reazione?” Domandai incuriosito.
“Nulla…”, sghignazzò Marchetti. “Ho riferito al nostro Silvestro che alla partenza avevo sentito che vi era l’inviato del Corriere Novarese e che la cronaca della gara sarebbe stata riportata nella pagina nazionale dello sport dell’Eco di Bergamo.”
“Sei certo? Mi pare una panzana.”
“Difatti.”
La piatta linea dell’orizzonte era sostituita da placide colline ed una rapida occhiata al percorso mi indicava che, superato il ponte sul Tanaro, avremmo incontrato le prime vere asperità.
All’inizio del primo passaggio, nel tratto in salita verso La Morra, Marchetti ed altri due allungavano.
Vanotti all’imbocco della salita ciondolava in mezzo alla strada come l’ultimo dei mammuth, che sentiva sulle sue spalle tutto il peso della sua specie in estinzione. In breve tempo si staccò dal gruppo.
Per quanto mi riguardava, mi sentivo bene, ma dovevo gestirmi.
Nei momenti di massimo sforzo, ciascun corridore si concentra a modo suo ed i metodi sono i più bizzarri. C’è chi, per restare concentrato, guarda i dorsali degli avversari e scompone le cifre in numeri primi. C’è chi conta mentalmente le pulsazioni o le pedalate al minuto.
Io non faccio tutto questo, io dialogo con la fatica. E’ una compagna fedele ed inseparabile di noi ciclisti. Puoi avere cinque minuti di vantaggio o di ritardo, ma l’unica certezza è la sua presenza. Questa mia amica oggi mi aveva dato appuntamento sulle prime rampe verso La Morra e mi aspettava per darmi consiglio con la sua flebile vocina: “Calma, Paolo. Tranquillo. Non rispondere a tutti gli scatti. Hai davanti Marchetti in fuga. Lascia lavorare gli altri. Controlla il respiro. Cambia rapporto. Pedala agile.”
Durante lo scollinamento, superavo una maglia gialla, una maglia azzurra, una maglia verde, poi un’altra maglia azzurra.
In cima al paese la gente ci incitava, ci spronava a riprendere i tre, segnalando che erano vicini. Per gli adulti avevamo pochi secondi di ritardo, mentre per i bambini, che tendono ad ingigantire tutto, il passivo era incolmabile.
Al contagiri vi era un omino che percuoteva un campanaccio più grande di lui per segnalare l’inizio dell’ultima tornata.
Alla caccia dei primi eravamo rimasti una quindicina e si cominciava la picchiata in discesa verso la Statale in mezzo ai vigneti. La strada verso il fondovalle presentava qualche tornante a gomito, ma era sostanzialmente pedalabile.
Il gruppo degli inseguitori, di cui facevo parte, dava una caccia spietata ai tre di testa.
Il vantaggio scemava poco a poco e nel frattempo si ricominciava a salire verso l’arrivo. Gli ampi tornanti in mezzo ai vigneti consentivano ai tre di vedere noi inseguitori e viceversa. Si consumava così un lento, logorante braccio di ferro.
Dai, Marchetti. Tieni duro. Non mollare. Smettila di voltarti. Guarda avanti.
I fuggitivi erano a vista e me ne stavo coperto in quarta-quinta posizione, sfruttando la scia in attesa degli eventi. All’ultimo chilometro i tre erano oramai ripresi ed una maglia rossa scattò come una saetta sulla destra, superando Marchetti e gli altri due. La fatica ritornava a parlarmi: “Vai, Paolo. Alzati dalla sella. Scatta. Accodati. Bravo, stagli a ruota. Sfrutta la scia. Aspetta gli ultimi duecento metri per superarlo. Ecco. E’ il momento. Adesso, a tutta!!!”
L’arrivo non lo ricordo più. So solo che fui abbracciato da un sacco di persone, fra questi il Rogna e Vanotti, e Carpineti che saltava dall’euforia, mentre il suo riportino ballonzolava in modo incontrollabile.
La gioia era tanta e dopo la premiazione si decise di festeggiare, cenando in una trattoria a Monforte d’Alba a spese di Carpineti. Fra brindisi e risate, decisi che avrei corso anche l’anno seguente, perché non mi potevo perdere questa banda di matti.
Marchetti nel contempo aveva architettato l’ennesima bravata e, dopo aver fatto ubriacare sia Carpineti che Zanzottera, prese le chiavi dell’auto guidando fino a casa accompagnati dall’ inconfondibile suono della Cucaracha.
Gianroberto Viganò - Dalle risaie ai vigneti
Un secco toc-toc alla porta della stanza mi fece svegliare di soprassalto. Era ora di alzarsi. Mi infilai le ciabatte per avvicinarmi all’uscio. Rassicurai l’albergatore che avevo sentito il segnale di sveglia e che con Marchetti, mio compagno di squadra nonché di camera per l’occasione, sarei sceso a far colazione di lì a poco.
L’iniziativa di prenotare un albergo per evitare una levataccia era partita dal nostro direttore sportivo, il buon Carpineti, che aveva pianificato questa trasferta per darci modo di partecipare ad una gloriosa classica per dilettanti del ciclismo piemontese.
Da parte nostra, non eravamo per nulla contenti di trascorrere il Sabato sera lontani da casa in uno sperduto hotel a due stelle del Novarese, ma Carpineti, un po’ facendo la voce grossa, un po’ decantando il prestigio della gara, ci convinse.
Prima di vestirmi, detti uno scrollone a Marchetti, che dormiva ancora beatamente.
“Luca, svegliati. Sono le 7.”
“Le 7? E’ ancora l’alba”. Sbuffò, rigirandosi nelle lenzuola.
“Forza, in piedi! Il Capo è già pronto e ci aspetta nella hall per la colazione.”
La parola Capo, che per Marchetti identificava Carpineti, lo smosse dal letto.
La nostra squadra, l’Unione Ciclistica Ceredo, aveva mezzi modesti ed era composta da quattro ragazzotti di belle speranze: Silvestro Vanotti, Fabio Zanzottera, Luca Marchetti e da me, Paolo Sedaboni.
Vanotti era un lungagnone bergamasco, una sorta di armadio a due ante, alto quasi due metri. Faceva l’operaio in un’azienda metalmeccanica delle sue parti e, grazie ai turni, riusciva ad allenarsi.
Era buono come il pane, anche se un po’ ingenuo.Vedeva il ciclismo come un’opportunità per affrancarsi dal lavoro in fabbrica, sperando un giorno in un buon ingaggio. La sua idea fissa era di finire sulle cronache sportive dell’Eco di Bergamo e portava con sé un album, dove in modo maniacale ritagliava tutti gli articoli, che riportavano un suo timido allungo, un suo oscuro piazzamento nei primi venti o la sua compartecipazione ad una fuga di scarso interesse.
Zanzottera aveva un paio di anni in più ed era un velocista tutto pepe. Era soprannominato il “Rogna”, perché ogni sprint di paese, ogni banalissimo traguardo volante per un prosciutto o una bottiglia di vino era un’ottima occasione per venire alle mani con qualcuno. Non era un amante della bicicletta, ma correre era un pretesto per evitare di lavorare nel panificio del padre, il quale invece viveva di pane, per professione, e ciclismo, per passione.
Marchetti era il ragazzo con cui avevo stretto maggior amicizia e, fra noi quattro, era sulla carta il più talentuoso. Nelle categorie giovanili aveva vinto parecchio, ma non aveva la testa del corridore. Amava buttare tutto in burla e lo consideravamo il mattacchione del gruppo.
Carpineti, che era stato un mediocre professionista degli anni ’70, prendeva estremamente sul serio il suo ruolo di direttore sportivo, mentre Marchetti con i suoi comportamenti gli ricordava che eravamo solo quattro ragazzi con tanta voglia di vivere.
Fra i due si era instaurato un rapporto di odio-amore: Marchetti chiamava Carpineti “Capo” e quest’ultimo gli aveva affibbiato il nomignolo “Tiraculo”.
Infine c’ero io. Non è mai semplice descrivere se stessi. Diciamo che avevo trascorsi come lupetto, come componente della compagnia teatrale della parrocchia e come terzino destro della Milanesiana, insomma, al di là di qualche buon risultato in gare con arrivo in salita, un ragazzo con tante esperienze lasciate a metà per poter pensare di diventare seriamente un buon ciclista.
A dirigere questi valenti alfieri dell’Unione Ciclistica Ceredo vi era il più volte citato Bonifacio Carpineti, rappresentante di articoli casalinghi, il quale accettava ogni Domenica il martirio di sopportare i nostri alterni risultati per l’infinito amore verso le due ruote.
Il nostro direttore sportivo era un personaggio, un’autentica sagoma. Era un omino grassoccio con le calvizie celate da un ardito riporto, sempre ben curato, e con i pantaloni sostenuti da un paio di bretelle di colore diverso in funzione dell’umore.
Nel ritiro invernale in Liguria, prima della stagione agonistica, passava serate e serate a tormentarci con i suoi racconti e le sue sfide, in parte vere e per la gran parte inventate con i vari Baronchelli, con i fratelli Algeri, con i Turrini ed i Vattelapesca.
Mentre Carpineti s’infervorava nelle sue narrazioni, Vanotti restava estasiato, Zanzottera leggeva Alan Ford ed io dormivo ad occhi aperti. Marchetti invece, sornione come un coccodrillo a caccia della preda, faceva finta di nulla, immagazzinando date ed episodi per l’occasione più opportuna.
Una sera, perso fra i suoi vagheggiamenti e forse agevolato da qualche bicchiere di Vermentino, Carpineti esagerò propinandoci autentiche banalità per alte strategie ciclistiche.
Il tema del suo delirio era la richiesta d’assistenza: “Se devo parlare con uno di voi in corsa, darò due colpi di clacson, così scivolerete in coda al gruppo per alzare la mano. A quel punto, il giudice di gara mi darà il permesso di affiancarvi.”
Vanotti era a bocca aperta, Zanzottera sbadigliava annoiato, mentre a Marchetti s’illuminavano gli occhi.
“Scusi, Capo”, intervenne. “Non aveva forse detto che Lei perse la Coppa Imperia del 1978 perché si defilò in coda al gruppo scambiando il colpo di clacson di una vettura qualsiasi per quello della sua ammiraglia?”
“Beh…Sì…Con questo?” Balbettò Carpineti.
“Propongo di dotare la nostra vettura di una tromba con qualche motivetto originale per distinguerla dalle altre.” Disse con fare convinto l’infido Marchetti.
Preso alla sprovvista, Carpineti trovò la proposta geniale ed acconsentì.
Il giorno seguente la nostra macchina non aveva più un normale clacson, bensì il motivetto della Cucaracha e così diventammo in breve tempo lo zimbello di tutte le società ciclistiche lombarde.
Non pago di questo piccolo successo, Marchetti meditava di consumare l’intera vendetta e, dopo le prime pedalate dell’allenamento pomeridiano, alzò improvvisamente il braccio destro.
Carpineti si avvicinò incuriosito con l’ammiraglia, sporgendosi dal finestrino; “Che c’è? Hai forato?”
“No, stavo semplicemente facendo una prova di chiamata d’assistenza.”
Finita la colazione, lasciammo l’albergo per dirigerci al ritrovo della gara. Il paese era un piccolo borgo agricolo e la Domenica mattina pareva più assonnato di Marchetti.
Ritirammo i numeri e firmammo il foglio di partenza, per poi effettuare la consueta riunione tecnica per studiare il percorso ed assegnare i compiti.
Carpineti con la sua tipica parlata lodigiana spianava tutte le z in s: “L’inisio da Parussaro ad Asti è piatto come un biliardo, poi si entra nelle Langhe e cominciano le salite. Si tratta di strappi brevi, ma secchi, di quelli che fan male. L’arrivo è in cima a La Morra, però è inutile che vi spieghi dov’è, perché per voi La Morra e San Giacomo Caduto in Mare sono la medesima cosa. Il circuito finale è da ripetere due volte, quindi, se sarete ancora in gara, studierete l’arrivo nel corso del primo passaggio.”
Le sue spiegazioni, benché tradissero poca fiducia nei nostri confronti, erano sempre colorite, ma efficaci; “Vanotti si occuperà di annullare gli attacchi nel tratto di pianura, Sansottera farà le volate per i traguardi volanti, Marchetti cercherà di entrare nelle fughe inisiali, mentre Sedaboni, che è il meno scarso in salita, curerà il finale.”
Sul programma stampato dall’organizzazione vi era riprodotto il percorso della gara con particolare evidenza al circuito conclusivo, che suonava come una cantilena “La Morra, Novello, Dogliani, Serralunga, Pollenzo, La Morra”.
L’altimetria del finale sembrava il cardiogramma di un cuore impazzito.
Dalle mie parti le salite oramai le conoscevo metro per metro. L’erta verso il Santuario della Madonna del Ghisallo era per me un libro aperto: il primo tratto di salita finisce a Longone, nei pressi della casa di Carlo Emilio Gadda. In quel punto uno sbiadito cartello turistico giallonero indica che mancano dieci chilometri alla vetta. Al lago del Segrino la strada spiana ed è il momento di rifocillarsi, poi si supera il pavè di Canzo, la stazione di Asso, la galleria di Valbrona e, quando la strada costeggia la chiesa romanica di Sant’Alessandro con il suo bel campanile, cominciano le danze. Alla croce di Barni la strada s’impenna sotto i pedali, si entra in Magreglio e, dopo una leggera curva a destra nella strettoia in paese, bisogna dar tutto in apnea fino alla chiesetta.
Ebbi una felice intuizione. Presi dalla cassetta dagli attrezzi un paio di forbici ed il nastro adesivo trasparente. Ritagliai dal volantino l’altimetria del finale, ricavandone una strisciolina di carta da applicare sulla pipa del manubrio.
Vanotti mi chiese le forbici e imitò la mia operazione, mentre Zanzottera con ghigno sardonico lo canzonava: “Silvestro, questa corsa si chiama “Dalle risaie ai vigneti”, ma il menu riservato a noi due prevede il primo senza alcolici.”
Vanotti scrollò le spalle e sistemò la cartina, che sulla pipa del suo manubrio pareva piccina, piccina.
Il ciclista che si prepara alla gara è come un cavaliere prima di un torneo medievale. Vi è una liturgia tramandata da generazioni e generazioni di corridori; la vestizione, il foglio di carta sotto la maglia per proteggersi dall’aria, i panini al latte con la marmellata avvolti nella stagnola, la preparazione della borraccia, i massaggi con l’olio canforato, il controllo della pressione dei tubolari ed infine il riscaldamento per verificare che tutto sia a posto.
Questi momenti di attesa in vista della partenza mi sono sempre piaciuti. Senti che l’adrenalina ti pervade e non vedi l’ora che il mossiere abbassi la bandierina per scaricare la tensione con un paio di pedalate.
A dire il vero, era oramai metà Settembre e le gare di fine stagione ricordano gli ultimi giorni di scuola; la voglia è poca e si pensa a fare progetti per il futuro.
Una volta preso il via, Marchetti ed io stavamo placidamente in coda al gruppo a commentare la settimana di vacanza al mare concessaci da Carpineti. Discutevamo dei nostri progetti dopo la maturità e Marchetti mi parlava della patente appena acquisita. Si lagnava del fatto che il padre non lo lasciava guidare da solo e che neppure Carpineti si fidava a concedergli la vettura-ammiraglia nei trasferimenti, preferendogli Zanzottera.
Si pedalava ad andatura tranquilla ed il gruppo occupava l’intera sede stradale. Dovevamo percorrere un lungo rettilineo che si perdeva nell’orizzonte, mentre a destra e a sinistra eravamo circondati dalle risaie, che erano tinte di biondo in attesa della raccolta.
Non era un paesaggio monotono, perché vi era un continuo svolazzare di uccelli sopra le nostre teste. Anzi, per chilometri e chilometri non si vedeva anima viva, e i volatili nelle risaie erano gli unici spettatori. Erano incuriositi dal passaggio di questo serpentone multicolore, che si snodava o appallottolava in funzione degli scatti e dei rallentamenti.
Marchetti, che seguiva il padre nelle battute di caccia dalle parti di Barengo, fungeva da Cicerone: “Guarda là un airone cenerino! Guarda lì una nitticora!”
La nostra divagazione ornitologica fu interrotta dal suono della Cucaracha. Carpineti, nonostante i rimbrotti della giuria, si era portato in coda al gruppo per sbraitare al nostro indirizzo: “Voi due!!! Tè? Caffè? Pasticcini? Tiraculo, vai avanti a combinare qualcosa di buono!”
Marchetti borbottò qualcosa d’incomprensibile e si mise a risalire il gruppo sulla destra per portarsi nelle prime posizioni, mentre io restavo in coda secondo le consegne.
Riflettevo sull’esito della maturità, sulla voglia di iscrivermi all’Università e soprattutto se continuare a gareggiare o meno.
In sella ad una bicicletta mi era sempre risultato più facile pensare. Era un modo di rilassarmi, dandomi l’opportunità di estraniarmi dal contesto. Per questo motivo accettavo a vent’anni di osservare una vita quasi monacale a differenza di tanti miei coetanei.
Un cartello indicava l’entrata in provincia di Vercelli.
In Piemonte i temporali hanno un gran rispetto per le competenze territoriali, difatti, lasciato alle spalle il bel tempo, dopo qualche timida goccia seguì un forte scroscio.
Alzai la testa, oltre la sagoma del gruppo davanti a me, e vidi in lontananza un piccolo centro. Secondo la cartina, poco più avanti vi era un traguardo di paese ed era compito di Zanzottera impegnarsi per la volata.
In vista dello sprint, la velocità aumentava progressivamente, sinchè superammo il punto dov’era posto il premio e scorsi sulla sinistra, in un fossato, Zanzottera con l’acqua fino alle caviglie che imprecava contro tutto e tutti.
Mi portai avanti e chiesi a Marchetti cos’era successo. “Niente, il solito Rogna. Sgomita-tu che sgomito-io ed alla fine l’hanno buttato in un canale.”
Altro cartello, altra provincia ovvero Asti, ed il sole ritornava a far capolino, asciugando noi poveri ciclisti che sembravamo tanti anatroccoli bagnati.
Nel torpore generale dieci atleti, fra i quali nessuno dell’Unione Ciclistica Ceredo, presero il largo. Li vedevamo davanti a noi guadagnare terreno, prima venti secondi, poi trenta, quaranta ed infine erano diventati un puntino lontano ed indistinguibile.
“Qui si mette male. Ho la brutta sensazione che quelli in fuga li rivediamo solo all’arrivo”, commentò preoccupato Marchetti. “Mi immagino già il Capo… Oggi fra l’altro ha le bretelle rosse e non è buon segno.”
“Che si fa?” Gli chiesi.
“Ho un’idea.”
Marchetti affiancò Vanotti e cominciarono a parlottare in modo fitto, dopodichè il gigante orobico, come un toro impazzito, cominciò a smanettare col cambio alla ricerca del massimo rapporto, guadagnando la prima posizione in testa al gruppo.
Con le sue potenti leve ci mise tutti in fila indiana ed ad ogni chilometro il plotone si assottigliava perdendo qualche elemento, mentre i battistrada vedevano ridursi inesorabilmente il loro vantaggio.
Alle porte di Asti, Vanotti poneva termine al tentativo dei dieci.
“Ma cosa gli hai detto per scatenare questa reazione?” Domandai incuriosito.
“Nulla…”, sghignazzò Marchetti. “Ho riferito al nostro Silvestro che alla partenza avevo sentito che vi era l’inviato del Corriere Novarese e che la cronaca della gara sarebbe stata riportata nella pagina nazionale dello sport dell’Eco di Bergamo.”
“Sei certo? Mi pare una panzana.”
“Difatti.”
La piatta linea dell’orizzonte era sostituita da placide colline ed una rapida occhiata al percorso mi indicava che, superato il ponte sul Tanaro, avremmo incontrato le prime vere asperità.
All’inizio del primo passaggio, nel tratto in salita verso La Morra, Marchetti ed altri due allungavano.
Vanotti all’imbocco della salita ciondolava in mezzo alla strada come l’ultimo dei mammuth, che sentiva sulle sue spalle tutto il peso della sua specie in estinzione. In breve tempo si staccò dal gruppo.
Per quanto mi riguardava, mi sentivo bene, ma dovevo gestirmi.
Nei momenti di massimo sforzo, ciascun corridore si concentra a modo suo ed i metodi sono i più bizzarri. C’è chi, per restare concentrato, guarda i dorsali degli avversari e scompone le cifre in numeri primi. C’è chi conta mentalmente le pulsazioni o le pedalate al minuto.
Io non faccio tutto questo, io dialogo con la fatica. E’ una compagna fedele ed inseparabile di noi ciclisti. Puoi avere cinque minuti di vantaggio o di ritardo, ma l’unica certezza è la sua presenza. Questa mia amica oggi mi aveva dato appuntamento sulle prime rampe verso La Morra e mi aspettava per darmi consiglio con la sua flebile vocina: “Calma, Paolo. Tranquillo. Non rispondere a tutti gli scatti. Hai davanti Marchetti in fuga. Lascia lavorare gli altri. Controlla il respiro. Cambia rapporto. Pedala agile.”
Durante lo scollinamento, superavo una maglia gialla, una maglia azzurra, una maglia verde, poi un’altra maglia azzurra.
In cima al paese la gente ci incitava, ci spronava a riprendere i tre, segnalando che erano vicini. Per gli adulti avevamo pochi secondi di ritardo, mentre per i bambini, che tendono ad ingigantire tutto, il passivo era incolmabile.
Al contagiri vi era un omino che percuoteva un campanaccio più grande di lui per segnalare l’inizio dell’ultima tornata.
Alla caccia dei primi eravamo rimasti una quindicina e si cominciava la picchiata in discesa verso la Statale in mezzo ai vigneti. La strada verso il fondovalle presentava qualche tornante a gomito, ma era sostanzialmente pedalabile.
Il gruppo degli inseguitori, di cui facevo parte, dava una caccia spietata ai tre di testa.
Il vantaggio scemava poco a poco e nel frattempo si ricominciava a salire verso l’arrivo. Gli ampi tornanti in mezzo ai vigneti consentivano ai tre di vedere noi inseguitori e viceversa. Si consumava così un lento, logorante braccio di ferro.
Dai, Marchetti. Tieni duro. Non mollare. Smettila di voltarti. Guarda avanti.
I fuggitivi erano a vista e me ne stavo coperto in quarta-quinta posizione, sfruttando la scia in attesa degli eventi. All’ultimo chilometro i tre erano oramai ripresi ed una maglia rossa scattò come una saetta sulla destra, superando Marchetti e gli altri due. La fatica ritornava a parlarmi: “Vai, Paolo. Alzati dalla sella. Scatta. Accodati. Bravo, stagli a ruota. Sfrutta la scia. Aspetta gli ultimi duecento metri per superarlo. Ecco. E’ il momento. Adesso, a tutta!!!”
L’arrivo non lo ricordo più. So solo che fui abbracciato da un sacco di persone, fra questi il Rogna e Vanotti, e Carpineti che saltava dall’euforia, mentre il suo riportino ballonzolava in modo incontrollabile.
La gioia era tanta e dopo la premiazione si decise di festeggiare, cenando in una trattoria a Monforte d’Alba a spese di Carpineti. Fra brindisi e risate, decisi che avrei corso anche l’anno seguente, perché non mi potevo perdere questa banda di matti.
Marchetti nel contempo aveva architettato l’ennesima bravata e, dopo aver fatto ubriacare sia Carpineti che Zanzottera, prese le chiavi dell’auto guidando fino a casa accompagnati dall’ inconfondibile suono della Cucaracha.
23 gennaio 2005
'Ascolti emergenti'
The Marigold - Erotomania **
Probabilmente hanno fatto il passo più lungo della gamba, ma almeno ci hanno provato. Dopo tre demo, gli abruzzesi Marigold arrivano al long play e le aspettative sono elevatissime visto il produttore Amaury Cambuzat, leader di Ulan Bator e Faust, (suona in Mercury) e la presenza di ospiti illustri come Umberto Palazzp in Dogma. Lo stile è un mix tra noise (strizzatine d'occhio ai Sonic Youth), richiami anni ottanta e sonorità dilatate alla Ulan Bator. Il risultato è a corrente alternata: si passa da episodi ottimi come Mercury o Voices, ad altri un po' carenti A simple reflex to the light, in cui la stella polare sembra essere stata smarrita tra suoni caotici e forzatamente ricercati. Nel complesso il lavoro è comunque discreto, con punte di eccellenza (). Terremo d'occhio le evoluzioni. Giovanna Oceania
Samideani - Feed me with love **/
Feed me with love è un disco da ascoltare ovunque... perché qualsiasi posto tu scelga per farlo, non sarà quello in cui rimarrai. I Samideani fanno propria e portano avanti la lezione e l’esperienza di gruppi, che tra gli ’80 e i ’90, (The Jesus and Mary Chain e My Bloody Valentine, per citarne alcuni) si ispirarono, anche e soprattutto, alle geniali sperimentazioni dei Velvet Underground. Immergendo melodie pop e ninnananne oniriche in uno strato denso di rumori e distorsioni, i Samideani danno vita a canzoni tanto malinconiche, quanto placide e trasognanti. Il tutto procede assieme ad un canto che sembra provenire da lontano, caldo ed assolutamente evocativo. E’ pop sporco, distorto, dall’attitudine rock’n roll e psichedelica. Una musica che procede densa, fatta di chitarre che si cercano, si trovano, s’intrecciano per riempire tutto.
Tell me why, è una grande e overture, seguita dalla tenue Am I Deceving myself, una canzone velata da una profonda, ma sottile malinconia. E arriva poi Pop Song, una canzone in bilico fra la desolazione di non essere salvi da nulla, soprattutto da se stessi (ahimè.. ndr) e la voglia di lasciarsi andare in tutto ciò che di buono ci rimane… Feed me with love è un punto d’equilibrio fra opposti: fra rumore e melodicità, fra malinconia e serenità. Il tutto è calibrato in modo intelligente e raffinato, senza mai strafare e mantenendo un’originalità propria.
Ascoltateli. Che mettiate gli occhiali da sole o chiudiate gli occhi non importa, ciò che conta è che liberiate la mente e seguiate musica, voce e parole. Oppure, lasciatevi semplicemente trascinare via. Erika Gigli
Carneìgra - Santinsaldo ****
Raffinati e adulti i Carneìgra presentano il loro secondo disco Santinsaldo: si tratta di un elegante mix di cantautorato e musica popolare ispirata alla tradizione italiana, ma che ha il pregio di non prendersi troppo sul serio. Una formula azzeccata che trova nei pezzi più ritmati ed ispirati alle radici della tradizione (rispetto a quelli intimisti) la formula vincente, con piacevoli inserti di strumentali quali fiati, viole, violini (c’è anche l’ukulele), oltre alla base acustica composta da chitarra classica, batteria, contrabbasso, fisarmonica e voce. I brani da segnalare Nss, Notte, Temperature. Nella stralunata Un milione poi il cantante Emiliano Nigi sottolinea con amara ironia la non facile situazione della discografia domandandosi “cosa resterà di noi”? Che la soluzione venga dal download gratuito (il disco si può scaricare da www.carneigra.it). I temi affrontati nell’album sono comunque molto sfaccettati: le difficoltà del nostro Paese, i migranti (Nss), la memoria storica (Strazzema)… La musica di matrice popolare riesce a cogliere le sfumature, l’attimo, adattando i singoli pezzi al contesto in cui vengono eseguiti, è forse questo il principale pregio di una band che pur non presentando slanci di particolare originalità creativa riesce a scaldare i cuori assai meglio del bicchiere di vino a cui i Carneìgra si fa riferimento in più di un pezzo. La copertina del disco è disegnata dal pittore Luca Bellandi. r.co.
Luca Olivieri - La quarta dimensione *
Compositore e strumentista Luca Olivieri propone La quarta dimensione un disco di dodici brani strumentali a cavallo tra new age, colonna sonora e sagre di paese. Il lavoro vede la partecipazione di numerosi ospiti tra i quali Mario Arcari e alcuni componenti degli Yo Yo Mundi. Poco brioso (il florilegio di strumenti utilizzati si appiattisce un po' dietro le basi di tastiera) il disco presenta il difetto principale della lunghezza. La fine sembra non arrivare mai, ma forse questa è una provocazione voluta (?!), visto che la quarta dimensione rappresenta proprio il fattore temporale. Se qualcuno mai volesse approfondire www.lucaolivieri.eu. g.oc.
E.Drunks - Con tutto l'amore del mondo **
Ognuno di noi ha un suo particolare metodo di trasmettere malessere e inquietudine. Gli E.Drunks, dall’operoso nord est italiano, hanno scelto di farlo mescolando punk, sintetizzatori, chitarre impulsive che solo di tanto in tanto concedono un respiro. Con tutto l’amore del mondo è il loro primo disco, buono, specie nel trasmettere le sensazioni di una gavetta fatta di tanti live sanguigni e sudati. Quale sia il messaggio, al di là di questa sensazione di inquietudine furiosa ed imperante, non si riesce bene a comprenderlo: i testi non sono certamente protagonisti del disco e le parole accompagnano la melodia come semplici comprimarie di un cut-up imprevedibile che a tratti si avvicina al non-sense. L’utilizzo dei sintetizzatori è a volte molto opportuno (Nuda) a volte in eccesso (L’altra faccia di Madonna). Il disco è stato prodotto dalla band con il supporto di Michele Scatena che ha curato il mixaggio di quasi tutti i brani. Con tutto l’amore del mondo può dire la sua, in particolare a livello di carica emotiva, le sonorità necessiterebbero di qualche cesellatura in più. g.oc.
Probabilmente hanno fatto il passo più lungo della gamba, ma almeno ci hanno provato. Dopo tre demo, gli abruzzesi Marigold arrivano al long play e le aspettative sono elevatissime visto il produttore Amaury Cambuzat, leader di Ulan Bator e Faust, (suona in Mercury) e la presenza di ospiti illustri come Umberto Palazzp in Dogma. Lo stile è un mix tra noise (strizzatine d'occhio ai Sonic Youth), richiami anni ottanta e sonorità dilatate alla Ulan Bator. Il risultato è a corrente alternata: si passa da episodi ottimi come Mercury o Voices, ad altri un po' carenti A simple reflex to the light, in cui la stella polare sembra essere stata smarrita tra suoni caotici e forzatamente ricercati. Nel complesso il lavoro è comunque discreto, con punte di eccellenza (). Terremo d'occhio le evoluzioni. Giovanna Oceania
Samideani - Feed me with love **/
Feed me with love è un disco da ascoltare ovunque... perché qualsiasi posto tu scelga per farlo, non sarà quello in cui rimarrai. I Samideani fanno propria e portano avanti la lezione e l’esperienza di gruppi, che tra gli ’80 e i ’90, (The Jesus and Mary Chain e My Bloody Valentine, per citarne alcuni) si ispirarono, anche e soprattutto, alle geniali sperimentazioni dei Velvet Underground. Immergendo melodie pop e ninnananne oniriche in uno strato denso di rumori e distorsioni, i Samideani danno vita a canzoni tanto malinconiche, quanto placide e trasognanti. Il tutto procede assieme ad un canto che sembra provenire da lontano, caldo ed assolutamente evocativo. E’ pop sporco, distorto, dall’attitudine rock’n roll e psichedelica. Una musica che procede densa, fatta di chitarre che si cercano, si trovano, s’intrecciano per riempire tutto.
Tell me why, è una grande e overture, seguita dalla tenue Am I Deceving myself, una canzone velata da una profonda, ma sottile malinconia. E arriva poi Pop Song, una canzone in bilico fra la desolazione di non essere salvi da nulla, soprattutto da se stessi (ahimè.. ndr) e la voglia di lasciarsi andare in tutto ciò che di buono ci rimane… Feed me with love è un punto d’equilibrio fra opposti: fra rumore e melodicità, fra malinconia e serenità. Il tutto è calibrato in modo intelligente e raffinato, senza mai strafare e mantenendo un’originalità propria.
Ascoltateli. Che mettiate gli occhiali da sole o chiudiate gli occhi non importa, ciò che conta è che liberiate la mente e seguiate musica, voce e parole. Oppure, lasciatevi semplicemente trascinare via. Erika Gigli
Carneìgra - Santinsaldo ****
Raffinati e adulti i Carneìgra presentano il loro secondo disco Santinsaldo: si tratta di un elegante mix di cantautorato e musica popolare ispirata alla tradizione italiana, ma che ha il pregio di non prendersi troppo sul serio. Una formula azzeccata che trova nei pezzi più ritmati ed ispirati alle radici della tradizione (rispetto a quelli intimisti) la formula vincente, con piacevoli inserti di strumentali quali fiati, viole, violini (c’è anche l’ukulele), oltre alla base acustica composta da chitarra classica, batteria, contrabbasso, fisarmonica e voce. I brani da segnalare Nss, Notte, Temperature. Nella stralunata Un milione poi il cantante Emiliano Nigi sottolinea con amara ironia la non facile situazione della discografia domandandosi “cosa resterà di noi”? Che la soluzione venga dal download gratuito (il disco si può scaricare da www.carneigra.it). I temi affrontati nell’album sono comunque molto sfaccettati: le difficoltà del nostro Paese, i migranti (Nss), la memoria storica (Strazzema)… La musica di matrice popolare riesce a cogliere le sfumature, l’attimo, adattando i singoli pezzi al contesto in cui vengono eseguiti, è forse questo il principale pregio di una band che pur non presentando slanci di particolare originalità creativa riesce a scaldare i cuori assai meglio del bicchiere di vino a cui i Carneìgra si fa riferimento in più di un pezzo. La copertina del disco è disegnata dal pittore Luca Bellandi. r.co.
Luca Olivieri - La quarta dimensione *
Compositore e strumentista Luca Olivieri propone La quarta dimensione un disco di dodici brani strumentali a cavallo tra new age, colonna sonora e sagre di paese. Il lavoro vede la partecipazione di numerosi ospiti tra i quali Mario Arcari e alcuni componenti degli Yo Yo Mundi. Poco brioso (il florilegio di strumenti utilizzati si appiattisce un po' dietro le basi di tastiera) il disco presenta il difetto principale della lunghezza. La fine sembra non arrivare mai, ma forse questa è una provocazione voluta (?!), visto che la quarta dimensione rappresenta proprio il fattore temporale. Se qualcuno mai volesse approfondire www.lucaolivieri.eu. g.oc.
E.Drunks - Con tutto l'amore del mondo **
Ognuno di noi ha un suo particolare metodo di trasmettere malessere e inquietudine. Gli E.Drunks, dall’operoso nord est italiano, hanno scelto di farlo mescolando punk, sintetizzatori, chitarre impulsive che solo di tanto in tanto concedono un respiro. Con tutto l’amore del mondo è il loro primo disco, buono, specie nel trasmettere le sensazioni di una gavetta fatta di tanti live sanguigni e sudati. Quale sia il messaggio, al di là di questa sensazione di inquietudine furiosa ed imperante, non si riesce bene a comprenderlo: i testi non sono certamente protagonisti del disco e le parole accompagnano la melodia come semplici comprimarie di un cut-up imprevedibile che a tratti si avvicina al non-sense. L’utilizzo dei sintetizzatori è a volte molto opportuno (Nuda) a volte in eccesso (L’altra faccia di Madonna). Il disco è stato prodotto dalla band con il supporto di Michele Scatena che ha curato il mixaggio di quasi tutti i brani. Con tutto l’amore del mondo può dire la sua, in particolare a livello di carica emotiva, le sonorità necessiterebbero di qualche cesellatura in più. g.oc.
22 gennaio 2005
Marco Amalfitano - Killing Joe
Premio letterario 'Provincia cronica' prima edizione
Marco Amalfitano - Killing Joe
Dal finestrino non si vedevano che risaie. Non che la cosa mi disturbasse particolarmente, ma le tanto amate mura domestiche erano davvero un’altra cosa. Cosa diamine ci facevo su quel treno? Me ne stavo così bene tra chitarre incazzate e tastiere lisergiche… Per me la domenica pomeriggio ha semplicemente due significati: vecchio impianto hi-fi in grande spolvero e pagina 202 di televideo. Il primo rigorosamente monopolizzato da una interminabile successione dischi rock anni ’60-’70, il secondo a celebrare l’ennesima, immancabile giornata di campionato. Da almeno vent’anni questo rito mi tiene letteralmente in pugno, oltre a preservarmi dalle agghiaccianti “vasche” in centro, epicentro vitale delle domeniche di provincia che si rispettino. Ma Fausto, Joe per gli amici, non lo vedevo veramente da troppo tempo, perciò gli erano stati sufficienti tre minuti di telefonata per farmi venire i sensi di colpa. Sensi di colpa rapidamente svaniti non appena mi aveva annunciato di avere delle nuove idee dalle quali sarebbero potuti scaturire dei racconti da sottoporre alla mia attenzione.
Nonostante Joe sia un ingegnere al servizio delle multinazionali ha un unico vero sogno nel cassetto. Vuole diventare uno scrittore e partecipa a tutti i concorsi che misteriosamente gli capitino per le mani. Joe non è altro che l’amico storico per eccellenza, quello con cui il destino ha voluto che condividessi qualunque cosa dagli zero anni in poi, compreso il pied a terre milanese adibito a campus per gli studi universitari. Quello che hai avuto vicino sempre, anche quando forse ne avresti fatto volentieri a meno. Le nostre strade si separarono dopo la laurea. Preso l’agognato pezzo di carta da Milano ero letteralmente fuggito, mentre lui aveva trovato un lavoro con stipendio da nababbo rimanendo di conseguenza lì. Qualche mese fa il colpo di scena: la sua azienda lo aveva trasferito da Milano a Vercelli, cancellando così dal mio inventario di scuse quella che utilizzavo maggiormente per giustificare lo scarso numero di presenze presso la sua dimora. Ora non avrei più potuto liquidarlo con un banale “odio Milano”. E come se non bastasse Vercelli è dannatamente vicina a Novara, la mia città. Un misero quarto d’ora di treno tollerabile anche da una persona pigra come me.
Comunque sia, non sarei dovuto salire su quell’ammasso di ferraglia lanciato contro stormi di zanzare e con tutta probabilità diretto verso ore ed ore di logorrea. Il treno era partito da neanche cinque minuti e avevo già il voltastomaco. Mi alzai per setacciare i vagoni alla ricerca di qualche persona con cui condividere la mia sventura, ma ben presto dovetti arrendermi alla prospettiva di dover passare i successivi venti minuti da solo con me stesso: ero finito su un convoglio fantasma, non c’era traccia neppure del controllore. Dell’insormontabile ammasso di carne umana che è possibile osservare su quei vagoni tutte le mattine della settimana lavorativa non c’era neanche l’ombra lontana.
Joe aveva trovato un monolocale in affitto all’interno di una vecchia palazzina immersa nel bel mezzo delle risaie, appena fuori città. Distava più di mezzora a piedi dalla stazione: un motivo più che valido per continuare a lamentarmi. Mentre mi trascinavo in una marcia forzata verso quella meta desolata, nella mia testa non facevano che rincorrersi le solite ossessioni. Trent’anni che sembravano buttati nel cesso, una laurea in filosofia che non era buona nemmeno per pulire i pavimenti e tre lavori cambiati negli ultimi nove mesi. Magazziniere, telefonista di callcenter e addetto al volantinaggio per una banda di usurai camuffata da agenzia dei prestiti. Stesso risultato in tutti e tre i casi: dimissioni per incompatibilità caratteriali con il datore di lavoro.
Non appena arrivato a destinazione, notai che davanti al portone di Joe troneggiava una gigantesca cacca di cane. - Dio esiste - pensai. Il padrone di casa fece capolino da una finestra ancora prima che potessi suonare il campanello. - Alla buon’ora! - fece stizzito.
- Alla buon’ora un cazzo. Cara grazia che mi sono mosso dal letto. Questo menhir qua fuori è opera tua?
- Sospetto che sia un regalo del cane del mio vicino. E’ già la terza volta, inizio a pensare che lo faccia apposta.
- Gli hai letto uno dei tuoi racconti?
- …
- A giudicare dalle dimensioni devi avergli letto quantomeno un romanzo!
Entrai in casa alla ricerca disperata di una radio. Secondo miei calcoli mancavano circa cinque minuti alla fine delle partite.
- Che fine ha fatto la radio?
- Si è rotta
- E la tv?
- Ho nascosto il cavo dell’antenna – comunicò Joe con l’aria di chi la sapeva lunga – E’ l’unico modo per riuscire a comunicare con te di domenica pomeriggio.
Avrei voluto cavargli gli occhi, ma d’altra parte me l’aspettavo. - Hai almeno da fumare, odiosa testa di cazzo? – chiesi agitando un pacchetto di cartine.
- Chiedi allo zio Jim e ti sarà dato - disse indicandomi un barattolo raffigurante il volto di un sognante Jim Morrison. Lo aprii e non potei fare a meno di notare che al suo interno c’erano almeno dieci grammi di erba.
- Vedo che il vecchio Joe si è dato allo spaccio…
- Dalla mattina alla sera combatto con i peggiori stronzi del pianeta. Pensare che a casa troverò quel barattolo mi permette di restare sano di mente.
- Cambiare lavoro non è un’opzione ragionevole?
- Mi pagano troppo bene. Finchè non scrivo un best seller devo andare avanti.
- Allora tagliamo corto.
- Posso iniziare? – chiese Joe, brandendo trionfante una pila di fogli scritti a mano.
- Ho forse scelta?
- Non credo proprio.
- Ecco. Almeno sii sintetico, te lo chiedo per pietà.
- Dunque…La storia è ambientata all’interno di un enorme studio legale. A dirigere le danze c’è un adiposo avvocato, che nell’ambiente tutti chiamano Napoleone; è un uomo che nonostante i settant’anni compiuti non riesce ancora a porre freno all’avidità che assedia ogni secondo della sua vita. Ha vissuto un’esistenza traboccante di successi e ricchezze ma affronta ancora ogni giornata come se avesse tempo fino a mezzanotte per racimolare i soldi necessari a pagare il pizzo a qualche sanguinario cassiere della mala, pena l’amputazione degli alluci. Oltre al fruscìo delle banconote c’è qualcos’altro che lo ossessiona: sa perfettamente che neanche tutti i soldi del mondo potranno restituirgli la giovinezza. Il suo corpo si è ormai trasformato nella più atroce delle beffe ed ogni mattina al risveglio non fa che annunciargli nuovi acciacchi. Ma il destino gli ha riservato un asso nella manica: il clamoroso surplus di giovani neolaureati in giurisprudenza. Tutti alla disperata ricerca di un prestigioso studio legale all’interno del quale farsi le ossa. Con il passare degli anni è arrivato a collezionare la bellezza di trenta praticanti, guadagnandosi lo status di multinazionale del foro. Ogni apprendista ha una mansione. C’è chi si occupa dei ricorsi, chi delle querele; l’addetto ai processi penali, quello alle cause civili e così via, a seconda dei giudizi che il capo appioppa all’intelletto dei suoi sottoposti.
Scossi la testa sbuffando. - Una storia di avvocati…Spero che entrino in scena quanto prima almeno sei o sette dive del porno sennò me ne torno a casa – commentai rollando la prima sigaretta.
– Ma adesso viene il bello – rispose Joe con il solito sorrisetto ammiccante – Ora subentra il nostro protagonista…ovvero Tito! Si tratta di un giovane dottore in legge apatico e con il vizietto della marijuana. E’ consapevole di avere sbagliato completamente facoltà, ma ormai la laurea è lì e bisogna farne qualcosa. Così si presenta al colloquio col vecchio alle nove del mattino, per essere assunto come praticante, dopo una notte di bagordi indegni, facendo il suo ingresso nella sala reale con un pallore quantomeno interessante. Napoleone, restando seduto dietro la sua scrivania, lo battezza dopo neanche cinque secondi. “Non solo hai l’aria di uno che non sa un cazzo…hai anche l’aria di chi non vuole fare un cazzo”, gli comunica sprezzante senza alzare il doppio mento dal pc portatile. “Ma si dà il caso che oggi sia il tuo giorno fortunato. Non ho più l’addetto alle corrispondenze e purtroppo gli atti non vanno a depositarsi da soli in cancelleria. Sarà la contropartita per tutto ciò che avrai l’occasione di imparare nello studio più importante della città. I soldi veri li guadagnerai quando sarai un avvocato”. Il neo praticante-postino annuisce fissando sul tappeto quella che somiglia ad una grossa macchia circolare di ketchup.“Da domani ti voglio qui dalle otto di mattina alle otto di sera”, gli intima il vecchio. “In condizioni decorose mi auguro”.
Joe si interruppe e rimase a guardarmi con un’espressione che implorava approvazione.
– Sbaglio o è l’ennesimo racconto che come protagonista ha qualcosa che assomiglia ad un perdente? – chiesi con aria inquisitoria.
- Ormai dovresti sapere che i miei racconti pullulano di eroi negativi, inadeguati alla lotta per la vita. Non a caso, sin dal primo momento, Tito si sente un corpo estraneo all’interno dello studio legale e non riesce a socializzare con gli altri praticanti che sono completamente diversi da lui. Passa le sue giornate a scrutarli come un perfetto infiltrato, analizzando volti, movenze e posture. Non si sforza di conoscerli perché le facce e gli atteggiamenti nascondono già il futuro di ciascuno di loro. Dietro quel calderone di cravatte e completi gessati si cela l’umanità più varia. Ci sono quelli col mascellone squadrato e la schiena sempre dritta, i classici squali che seguiranno le orme del capo. Tutte quelle facce lucide di dopobarba e ballonzolanti come medaglie su divise di alti ufficiali avranno dei lauti conti in banca a certificare la loro esistenza. Ma c’è anche chi non andrà mai al di là dei mille euro al mese perché non riesce a convincere neanche sua madre di essere un avvocato, figuriamoci un giudice. C’è il neolaureato con gli occhialini, la testa sempre bassa e la faccia da scemo ancora martoriata dall’acne nonostante i ventitré anni suonati che non passerà mai l’esame di stato perché troppo emotivo. E naturalmente c’è anche chi, come il nostro protagonista, non finirà neanche il tirocinio. Mentre lui utilizza la pausa caffè per andare in stazione a cercare un pusher che gli venda dell’erba, gli altri sognano di fare carriera e di costruire un deposito pieno di dollari in cima ad una collina. I loro sordidi obiettivi rendono del tutto sopportabili le angherie di Napoleone, che nel lento dipanarsi di ogni giornata lavorativa non fa che ostentare un uso sproporzionato della forza. Ha un motto che ripete a ciascuno di loro dalla mattina alla sera: “Ai vostri occhi sembro un patetico vecchio. Ma ho potere e ricchezze. Voi invece non siete un cazzo”.
- Qui devo interromperla signor narratore – annunciai agitando l’ennesima sigaretta – Il suo romanzo si sta tuffando a piedi pari nella fantascienza. E’ impossibile che su trenta e passa anime costrette a lavorare senza stipendio non ci sia neanche un tizio che tenti il colpo di stato. O che molto più pragmaticamente ficchi un tagliacarte nella gola del vecchio.
- Saggia osservazione. Ma ormai dovresti aver familiarizzato col fatto che nelle mie storie mancano del tutto anche persone pronte di spirito. Comunque la storia sta per avere una svolta – ammiccò Joe nutrendo di dosi ulteriori il mio odio nei suoi confronti.
- Più che altro spero che stia per avere una fine. Cosa accadrà di così mirabolante? Il praticante annuncia le dimissioni e va a lavorare come portiere notturno in un ostello di Copenaghen?
- Innanzitutto ci mettiamo in mezzo una storia d’amore platonico, costellata di patetismi ed imbarazzi. Il protagonista si innamora di Livia, la tizia addetta ai pignoramenti, una donna dalla faccia slavata e gli occhi tristi, di un paio d’anni più grande di lui. Naturalmente non riesce neppure a chiederle di andare a bere un aperitivo a fine giornata, nonostante ogni mattina si presenti in ufficio con l’unico obiettivo di proporle l’invito, dopo ore di esercitazioni casalinghe davanti allo specchio.
- Ho capito perché non vinci i concorsi letterari, Joe. Finchè le tue storie saranno infarcite di persone costruite a tua immagine e somiglianza non potrò biasimare quel lettore incapace di superare la terza pagina.
- Non vinco i concorsi perché scrivo di merda. Ma questa storia diventerà un best seller.
- Va bene Joe. Precarietà, amore platonico e ridicoli completi gessati. Poi che diamine accade?
- Te la faccio breve. Con il passare dei giorni Tito si accorge che i suoi colleghi diventano sempre meno numerosi. All’inizio non ci fa caso. Ma gli uffici poco a poco si svuotano e nessuno riesce a spiegarsi il motivo di quelle assenze. Il vecchio invece diventa sempre più grasso e intrattabile. Tito comincia tra l’altro a pensare che il fumo stia iniziando a procurargli le allucinazioni, dato che ormai Napoleone nelle sue fugaci comparse assomiglia sempre meno a qualcosa di umano. Arriva al punto di convincersi di avere completamente perso il senno, oltre a credere di essere l’unico a vedere il suo capo sotto forma di un’ incredibile, inverosimile piramide di grasso. Per qualche settimana ipotizza che l’avido ammiraglio sia caduto in disgrazia perdendo prestigio e clienti e che sia quella la causa del fuggi fuggi generale. Il ragionamento in effetti fila: la cariatide del foro si sta sgretolando, i suoi uomini abbandonano la nave che affonda e lui per dimenticare dedica anima e corpo al cibo… Eppure gli pare che qualcosa continui a non quadrare… Il vecchio d’altronde non è il tipo da ridursi sul lastrico per riempire il suo stomaco di unte leccornie. Durante una delle sue notti insonni il praticante ha finalmente un lampo di genio inatteso, un’illuminazione che gli porge su un piatto d’argento la verità nuda e cruda, facendolo scattare dal letto come una molla impazzita: quella strana macchia di ketchup sul tappeto napoleonico nel giorno del colloquio...altro che ketchup…”Ho capito dove finiscono i praticanti”, sussurra al mozzicone dal sapore dolciastro che stringe fra le dita. “Domani col cazzo che vado a lavorare”.
Confesso che rimasi stupito anch’io, ma camuffai alla grande lo sbigottimento. - Un epilogo a dir poco splatter. – commentai con una smorfia - E la tizia addetta ai pignoramenti? Viene lasciata al suo culinario destino?
- Eh no…Dopo un paio di giorni di assenteismo, mosso da impeto eroico ed anche da qualche senso di colpa, Tito decide di tornare in ufficio solo per salvarla dalle fauci avvocatesche. Si precipita allo studio legale nel bel mezzo di un pomeriggio di grandine, sperando che gli ultimi banchetti abbiano risparmiato almeno la giovane donna. Appena si lascia la porta alle spalle, realizza di essere immerso in un contesto surreale. Non sembra esserci anima viva e regna un silenzio assordante, rotto solo saltuariamente dal ticchettio metallico di qualche chicco di grandine che spinto dalla foga del vento va a rimbalzare sulle ringhiere delle balconate. Ben presto le sue narici si impregnano di un odore caldo ed assuefacente, simile a quello di una marmellata lasciata a bollire sui fornelli. A quel punto si mette alla frenetica ricerca della donna, setacciando il labirinto di uffici deserti, illuminati dal solito insopportabile candore elettrico di neon a basso consumo. Per terra ci sono fogli e fascicoli di cause sparpagliati ovunque, mentre la moquette è letteralmente costellata di quelle famose macchie circolari di “ketchup” che nel frattempo si sono moltiplicate a dismisura ed hanno anche notevolmente allargato il loro diametro. Quando ormai sta pianificando una rapida uscita di scena, dall’ultimo ufficio, proprio quello adiacente alla stanza del capo, spunta la sagoma di Livia. E’ china sulla parte bassa della libreria a riordinare i fascicoli dei pignoramenti come se niente fosse. Lo sfattissimo praticante trova il coraggio per invitarla al bar a prendere un the caldo per portarla il più lontano possibile da lì e raccontarle solo in un secondo momento che il vecchio ha mangiato tutti e non vede l’ora di ingurgitare anche loro. Mentre stanno per abbandonare lo studio scoprono però che la porta principale è stata chiusa a chiave. E proprio in quel momento una voce tuonante rimbomba per tutto l’edificio rimbalzando nelle loro orecchie come un assordante anatema. “Le ultime giovani promesse del più importante studio legale cittadino sono convocate d’urgenza dal loro amorevole maestro. Abbandonino dunque qualunque patetica aspirazione di fuga e si rechino nella sala del trono senza tergiversare, altrimenti mi si scuotono i nervi. E se mi incazzo mi aumenta l’appetito”. Era la voce del vecchio che veniva dalle casse della filodiffusione poste sul soffitto. Suonava meccanica e gutturale, sinistra come una condanna.
- Non sono più tanto sicuro di voler sapere come va a finire il libro.
- Ma ti perdi il meglio!
- Conoscendoti posso immaginare.
- Immagini giusto. Finisce malissimo.
- Un'altra costante delle tue storie. Ci vai ancora dallo psicologo, Joe?
- Ma che psicologo, non serve a un cazzo – rispose Joe, appoggiando sul divano il prezioso manoscritto – Secondo me è questo posto che mi mette la tristezza addosso. Si vede che non sono tagliato per le risaie. Non mi sento più bene neanche quando fumo, ormai mi viene l’ansia due volte su tre. Forse dovrei solo andarmene da qui. Andarmene il più lontano possibile.
- Vuoi dirmi che quando eravamo di una decina di anni più giovani e vivevamo a Milano era diverso?
- Almeno non ero intrappolato in questa cavolo di provincia cronica, dove il massimo che possa succederti è che il cane del vicino ti caghi davanti alla porta di casa.
- Si certo. Ricordo quanto era diverso. Ricordo anche l’entusiasmo di quando finimmo il liceo e pensavamo a come sarebbe stata la vita da universitari. Se non sbaglio l’obiettivo era quello di conoscere un sacco di gente, cambiare una compagnia a sera ed avere le ragazze più belle della facoltà. Per farla breve c’era da spaccare il mondo. E invece com’è andata a finire?
- Non lo so. Credo di averlo rimosso.
- Tornei di calcio alla playstation e canne. Ecco com’è andata. Ogni maledetta sera a dirci c’è la svolta, si esce, si fa il giro dei locali... E poi? Per un motivo o per l’altro alle quattro del mattino si era ancora davanti alla tv con un joystick in mano, gli occhi sbarrati e l’espressione da ebeti.
- Dolci ricordi.
- Si dolcissimi…Sai qual è la verità? E’che siamo ridicoli. Ci saremmo rotti le palle anche a New York o a Parigi. Siamo fatti così. Neanche il sessantotto ci avrebbe dato stimoli. Saremmo riusciti a bruciarci il cervello con gli acidi ancora prima di gridare alla rivoluzione. Non è la provincia che è cronica. E’ cronica questa sorta di resa senza motivo. Ti sei mai fatto un esame di coscienza su quegli anni sprecati da perfetti idioti?
- Diciamo che su questo punto ho avuto modo di interrogare il mio super-io. Con il risultato che l’ho sbattuto in gattabuia dopo neanche cinque minuti. Però tu esageri come al solito…
- Ah già…Scusa…Due concerti all’anno andavamo a vederli. Possibilmente stando sul reggae così c’era modo di trovare il fumo anche per terra.
Joe rimase a fissarmi pensieroso per un attimo. - Però te li ricordi quei tornei alla “play”? Ci credevamo proprio… Si finiva sudati come se in campo ci fossimo stati noi! Poi il bello era che si sceglievano tassativamente solo squadre scarsissime del Sud America, sennò non si giocava.
- Cavolo se me lo ricordo… Tutte quelle finali perse contro la Germania. Con quel maledetto di Oliver Kahn che le parava tutte, potevi tirare in porta anche cento volte ma non c’era verso.
- Sai una cosa?
- Dimmi.
- Di là sotto il letto la play ce l’ho ancora…Ce la facciamo una partitina?
- Ma vai a cagare Joe. Domani mattina devo andare a cercarmi un lavoro. Non posso correre il rischio di essere ancora davanti a Oliver Kahn alle tre di notte.
- La prossima volta però un mondiale con il Perù ce lo possiamo fare!
- Ciao Joe, stammi bene – mi congedai precipitandomi verso la porta di casa - Cerca di uscire da queste quattro mura ogni tanto, non hai una gran cera.
Lasciarmi alle spalle la cupa atmosfera del monolocale di Joe fu a dir poco liberatorio. Da almeno tre anni, ogni volta che lo andavo a trovare, finivo col tornamene a casa con un groppo alla gola e dosi massicce di paranoia senza riuscire neanche a comprenderne il motivo. Ma proprio mentre mi lasciavo andare in un enorme sospiro di sollievo, scivolai su qualcosa di molle e, ancor prima di capire cosa stesse succedendo, mi ritrovai steso a terra pancia all’aria. Mi ero dimenticato di quella gigantesca cacca di cane e ora me la ritrovavo su tre quarti di scarpa e pure sulla caviglia dei jeans. Dopo essermi rimesso in piedi, accesi un’ultima sigaretta e rimasi immobile per qualche minuto a guardare la piatta campagna circostante. Quella luna velata di umidità, intenta a farsi un bagno di primavera nelle risaie, per un attimo mi catapultò indietro nel tempo alla mia prima vacanza al mare con gli amici, quando il mondo intero confinava con le pareti di un liceo e i trent’anni rappresentavano una meta così lontana da sembrare irraggiungibile. Mi allontanai con un sorriso stampato sulle labbra, masticando nebbia e imprecazioni.
Marco Amalfitano - Killing Joe
Dal finestrino non si vedevano che risaie. Non che la cosa mi disturbasse particolarmente, ma le tanto amate mura domestiche erano davvero un’altra cosa. Cosa diamine ci facevo su quel treno? Me ne stavo così bene tra chitarre incazzate e tastiere lisergiche… Per me la domenica pomeriggio ha semplicemente due significati: vecchio impianto hi-fi in grande spolvero e pagina 202 di televideo. Il primo rigorosamente monopolizzato da una interminabile successione dischi rock anni ’60-’70, il secondo a celebrare l’ennesima, immancabile giornata di campionato. Da almeno vent’anni questo rito mi tiene letteralmente in pugno, oltre a preservarmi dalle agghiaccianti “vasche” in centro, epicentro vitale delle domeniche di provincia che si rispettino. Ma Fausto, Joe per gli amici, non lo vedevo veramente da troppo tempo, perciò gli erano stati sufficienti tre minuti di telefonata per farmi venire i sensi di colpa. Sensi di colpa rapidamente svaniti non appena mi aveva annunciato di avere delle nuove idee dalle quali sarebbero potuti scaturire dei racconti da sottoporre alla mia attenzione.
Nonostante Joe sia un ingegnere al servizio delle multinazionali ha un unico vero sogno nel cassetto. Vuole diventare uno scrittore e partecipa a tutti i concorsi che misteriosamente gli capitino per le mani. Joe non è altro che l’amico storico per eccellenza, quello con cui il destino ha voluto che condividessi qualunque cosa dagli zero anni in poi, compreso il pied a terre milanese adibito a campus per gli studi universitari. Quello che hai avuto vicino sempre, anche quando forse ne avresti fatto volentieri a meno. Le nostre strade si separarono dopo la laurea. Preso l’agognato pezzo di carta da Milano ero letteralmente fuggito, mentre lui aveva trovato un lavoro con stipendio da nababbo rimanendo di conseguenza lì. Qualche mese fa il colpo di scena: la sua azienda lo aveva trasferito da Milano a Vercelli, cancellando così dal mio inventario di scuse quella che utilizzavo maggiormente per giustificare lo scarso numero di presenze presso la sua dimora. Ora non avrei più potuto liquidarlo con un banale “odio Milano”. E come se non bastasse Vercelli è dannatamente vicina a Novara, la mia città. Un misero quarto d’ora di treno tollerabile anche da una persona pigra come me.
Comunque sia, non sarei dovuto salire su quell’ammasso di ferraglia lanciato contro stormi di zanzare e con tutta probabilità diretto verso ore ed ore di logorrea. Il treno era partito da neanche cinque minuti e avevo già il voltastomaco. Mi alzai per setacciare i vagoni alla ricerca di qualche persona con cui condividere la mia sventura, ma ben presto dovetti arrendermi alla prospettiva di dover passare i successivi venti minuti da solo con me stesso: ero finito su un convoglio fantasma, non c’era traccia neppure del controllore. Dell’insormontabile ammasso di carne umana che è possibile osservare su quei vagoni tutte le mattine della settimana lavorativa non c’era neanche l’ombra lontana.
Joe aveva trovato un monolocale in affitto all’interno di una vecchia palazzina immersa nel bel mezzo delle risaie, appena fuori città. Distava più di mezzora a piedi dalla stazione: un motivo più che valido per continuare a lamentarmi. Mentre mi trascinavo in una marcia forzata verso quella meta desolata, nella mia testa non facevano che rincorrersi le solite ossessioni. Trent’anni che sembravano buttati nel cesso, una laurea in filosofia che non era buona nemmeno per pulire i pavimenti e tre lavori cambiati negli ultimi nove mesi. Magazziniere, telefonista di callcenter e addetto al volantinaggio per una banda di usurai camuffata da agenzia dei prestiti. Stesso risultato in tutti e tre i casi: dimissioni per incompatibilità caratteriali con il datore di lavoro.
Non appena arrivato a destinazione, notai che davanti al portone di Joe troneggiava una gigantesca cacca di cane. - Dio esiste - pensai. Il padrone di casa fece capolino da una finestra ancora prima che potessi suonare il campanello. - Alla buon’ora! - fece stizzito.
- Alla buon’ora un cazzo. Cara grazia che mi sono mosso dal letto. Questo menhir qua fuori è opera tua?
- Sospetto che sia un regalo del cane del mio vicino. E’ già la terza volta, inizio a pensare che lo faccia apposta.
- Gli hai letto uno dei tuoi racconti?
- …
- A giudicare dalle dimensioni devi avergli letto quantomeno un romanzo!
Entrai in casa alla ricerca disperata di una radio. Secondo miei calcoli mancavano circa cinque minuti alla fine delle partite.
- Che fine ha fatto la radio?
- Si è rotta
- E la tv?
- Ho nascosto il cavo dell’antenna – comunicò Joe con l’aria di chi la sapeva lunga – E’ l’unico modo per riuscire a comunicare con te di domenica pomeriggio.
Avrei voluto cavargli gli occhi, ma d’altra parte me l’aspettavo. - Hai almeno da fumare, odiosa testa di cazzo? – chiesi agitando un pacchetto di cartine.
- Chiedi allo zio Jim e ti sarà dato - disse indicandomi un barattolo raffigurante il volto di un sognante Jim Morrison. Lo aprii e non potei fare a meno di notare che al suo interno c’erano almeno dieci grammi di erba.
- Vedo che il vecchio Joe si è dato allo spaccio…
- Dalla mattina alla sera combatto con i peggiori stronzi del pianeta. Pensare che a casa troverò quel barattolo mi permette di restare sano di mente.
- Cambiare lavoro non è un’opzione ragionevole?
- Mi pagano troppo bene. Finchè non scrivo un best seller devo andare avanti.
- Allora tagliamo corto.
- Posso iniziare? – chiese Joe, brandendo trionfante una pila di fogli scritti a mano.
- Ho forse scelta?
- Non credo proprio.
- Ecco. Almeno sii sintetico, te lo chiedo per pietà.
- Dunque…La storia è ambientata all’interno di un enorme studio legale. A dirigere le danze c’è un adiposo avvocato, che nell’ambiente tutti chiamano Napoleone; è un uomo che nonostante i settant’anni compiuti non riesce ancora a porre freno all’avidità che assedia ogni secondo della sua vita. Ha vissuto un’esistenza traboccante di successi e ricchezze ma affronta ancora ogni giornata come se avesse tempo fino a mezzanotte per racimolare i soldi necessari a pagare il pizzo a qualche sanguinario cassiere della mala, pena l’amputazione degli alluci. Oltre al fruscìo delle banconote c’è qualcos’altro che lo ossessiona: sa perfettamente che neanche tutti i soldi del mondo potranno restituirgli la giovinezza. Il suo corpo si è ormai trasformato nella più atroce delle beffe ed ogni mattina al risveglio non fa che annunciargli nuovi acciacchi. Ma il destino gli ha riservato un asso nella manica: il clamoroso surplus di giovani neolaureati in giurisprudenza. Tutti alla disperata ricerca di un prestigioso studio legale all’interno del quale farsi le ossa. Con il passare degli anni è arrivato a collezionare la bellezza di trenta praticanti, guadagnandosi lo status di multinazionale del foro. Ogni apprendista ha una mansione. C’è chi si occupa dei ricorsi, chi delle querele; l’addetto ai processi penali, quello alle cause civili e così via, a seconda dei giudizi che il capo appioppa all’intelletto dei suoi sottoposti.
Scossi la testa sbuffando. - Una storia di avvocati…Spero che entrino in scena quanto prima almeno sei o sette dive del porno sennò me ne torno a casa – commentai rollando la prima sigaretta.
– Ma adesso viene il bello – rispose Joe con il solito sorrisetto ammiccante – Ora subentra il nostro protagonista…ovvero Tito! Si tratta di un giovane dottore in legge apatico e con il vizietto della marijuana. E’ consapevole di avere sbagliato completamente facoltà, ma ormai la laurea è lì e bisogna farne qualcosa. Così si presenta al colloquio col vecchio alle nove del mattino, per essere assunto come praticante, dopo una notte di bagordi indegni, facendo il suo ingresso nella sala reale con un pallore quantomeno interessante. Napoleone, restando seduto dietro la sua scrivania, lo battezza dopo neanche cinque secondi. “Non solo hai l’aria di uno che non sa un cazzo…hai anche l’aria di chi non vuole fare un cazzo”, gli comunica sprezzante senza alzare il doppio mento dal pc portatile. “Ma si dà il caso che oggi sia il tuo giorno fortunato. Non ho più l’addetto alle corrispondenze e purtroppo gli atti non vanno a depositarsi da soli in cancelleria. Sarà la contropartita per tutto ciò che avrai l’occasione di imparare nello studio più importante della città. I soldi veri li guadagnerai quando sarai un avvocato”. Il neo praticante-postino annuisce fissando sul tappeto quella che somiglia ad una grossa macchia circolare di ketchup.“Da domani ti voglio qui dalle otto di mattina alle otto di sera”, gli intima il vecchio. “In condizioni decorose mi auguro”.
Joe si interruppe e rimase a guardarmi con un’espressione che implorava approvazione.
– Sbaglio o è l’ennesimo racconto che come protagonista ha qualcosa che assomiglia ad un perdente? – chiesi con aria inquisitoria.
- Ormai dovresti sapere che i miei racconti pullulano di eroi negativi, inadeguati alla lotta per la vita. Non a caso, sin dal primo momento, Tito si sente un corpo estraneo all’interno dello studio legale e non riesce a socializzare con gli altri praticanti che sono completamente diversi da lui. Passa le sue giornate a scrutarli come un perfetto infiltrato, analizzando volti, movenze e posture. Non si sforza di conoscerli perché le facce e gli atteggiamenti nascondono già il futuro di ciascuno di loro. Dietro quel calderone di cravatte e completi gessati si cela l’umanità più varia. Ci sono quelli col mascellone squadrato e la schiena sempre dritta, i classici squali che seguiranno le orme del capo. Tutte quelle facce lucide di dopobarba e ballonzolanti come medaglie su divise di alti ufficiali avranno dei lauti conti in banca a certificare la loro esistenza. Ma c’è anche chi non andrà mai al di là dei mille euro al mese perché non riesce a convincere neanche sua madre di essere un avvocato, figuriamoci un giudice. C’è il neolaureato con gli occhialini, la testa sempre bassa e la faccia da scemo ancora martoriata dall’acne nonostante i ventitré anni suonati che non passerà mai l’esame di stato perché troppo emotivo. E naturalmente c’è anche chi, come il nostro protagonista, non finirà neanche il tirocinio. Mentre lui utilizza la pausa caffè per andare in stazione a cercare un pusher che gli venda dell’erba, gli altri sognano di fare carriera e di costruire un deposito pieno di dollari in cima ad una collina. I loro sordidi obiettivi rendono del tutto sopportabili le angherie di Napoleone, che nel lento dipanarsi di ogni giornata lavorativa non fa che ostentare un uso sproporzionato della forza. Ha un motto che ripete a ciascuno di loro dalla mattina alla sera: “Ai vostri occhi sembro un patetico vecchio. Ma ho potere e ricchezze. Voi invece non siete un cazzo”.
- Qui devo interromperla signor narratore – annunciai agitando l’ennesima sigaretta – Il suo romanzo si sta tuffando a piedi pari nella fantascienza. E’ impossibile che su trenta e passa anime costrette a lavorare senza stipendio non ci sia neanche un tizio che tenti il colpo di stato. O che molto più pragmaticamente ficchi un tagliacarte nella gola del vecchio.
- Saggia osservazione. Ma ormai dovresti aver familiarizzato col fatto che nelle mie storie mancano del tutto anche persone pronte di spirito. Comunque la storia sta per avere una svolta – ammiccò Joe nutrendo di dosi ulteriori il mio odio nei suoi confronti.
- Più che altro spero che stia per avere una fine. Cosa accadrà di così mirabolante? Il praticante annuncia le dimissioni e va a lavorare come portiere notturno in un ostello di Copenaghen?
- Innanzitutto ci mettiamo in mezzo una storia d’amore platonico, costellata di patetismi ed imbarazzi. Il protagonista si innamora di Livia, la tizia addetta ai pignoramenti, una donna dalla faccia slavata e gli occhi tristi, di un paio d’anni più grande di lui. Naturalmente non riesce neppure a chiederle di andare a bere un aperitivo a fine giornata, nonostante ogni mattina si presenti in ufficio con l’unico obiettivo di proporle l’invito, dopo ore di esercitazioni casalinghe davanti allo specchio.
- Ho capito perché non vinci i concorsi letterari, Joe. Finchè le tue storie saranno infarcite di persone costruite a tua immagine e somiglianza non potrò biasimare quel lettore incapace di superare la terza pagina.
- Non vinco i concorsi perché scrivo di merda. Ma questa storia diventerà un best seller.
- Va bene Joe. Precarietà, amore platonico e ridicoli completi gessati. Poi che diamine accade?
- Te la faccio breve. Con il passare dei giorni Tito si accorge che i suoi colleghi diventano sempre meno numerosi. All’inizio non ci fa caso. Ma gli uffici poco a poco si svuotano e nessuno riesce a spiegarsi il motivo di quelle assenze. Il vecchio invece diventa sempre più grasso e intrattabile. Tito comincia tra l’altro a pensare che il fumo stia iniziando a procurargli le allucinazioni, dato che ormai Napoleone nelle sue fugaci comparse assomiglia sempre meno a qualcosa di umano. Arriva al punto di convincersi di avere completamente perso il senno, oltre a credere di essere l’unico a vedere il suo capo sotto forma di un’ incredibile, inverosimile piramide di grasso. Per qualche settimana ipotizza che l’avido ammiraglio sia caduto in disgrazia perdendo prestigio e clienti e che sia quella la causa del fuggi fuggi generale. Il ragionamento in effetti fila: la cariatide del foro si sta sgretolando, i suoi uomini abbandonano la nave che affonda e lui per dimenticare dedica anima e corpo al cibo… Eppure gli pare che qualcosa continui a non quadrare… Il vecchio d’altronde non è il tipo da ridursi sul lastrico per riempire il suo stomaco di unte leccornie. Durante una delle sue notti insonni il praticante ha finalmente un lampo di genio inatteso, un’illuminazione che gli porge su un piatto d’argento la verità nuda e cruda, facendolo scattare dal letto come una molla impazzita: quella strana macchia di ketchup sul tappeto napoleonico nel giorno del colloquio...altro che ketchup…”Ho capito dove finiscono i praticanti”, sussurra al mozzicone dal sapore dolciastro che stringe fra le dita. “Domani col cazzo che vado a lavorare”.
Confesso che rimasi stupito anch’io, ma camuffai alla grande lo sbigottimento. - Un epilogo a dir poco splatter. – commentai con una smorfia - E la tizia addetta ai pignoramenti? Viene lasciata al suo culinario destino?
- Eh no…Dopo un paio di giorni di assenteismo, mosso da impeto eroico ed anche da qualche senso di colpa, Tito decide di tornare in ufficio solo per salvarla dalle fauci avvocatesche. Si precipita allo studio legale nel bel mezzo di un pomeriggio di grandine, sperando che gli ultimi banchetti abbiano risparmiato almeno la giovane donna. Appena si lascia la porta alle spalle, realizza di essere immerso in un contesto surreale. Non sembra esserci anima viva e regna un silenzio assordante, rotto solo saltuariamente dal ticchettio metallico di qualche chicco di grandine che spinto dalla foga del vento va a rimbalzare sulle ringhiere delle balconate. Ben presto le sue narici si impregnano di un odore caldo ed assuefacente, simile a quello di una marmellata lasciata a bollire sui fornelli. A quel punto si mette alla frenetica ricerca della donna, setacciando il labirinto di uffici deserti, illuminati dal solito insopportabile candore elettrico di neon a basso consumo. Per terra ci sono fogli e fascicoli di cause sparpagliati ovunque, mentre la moquette è letteralmente costellata di quelle famose macchie circolari di “ketchup” che nel frattempo si sono moltiplicate a dismisura ed hanno anche notevolmente allargato il loro diametro. Quando ormai sta pianificando una rapida uscita di scena, dall’ultimo ufficio, proprio quello adiacente alla stanza del capo, spunta la sagoma di Livia. E’ china sulla parte bassa della libreria a riordinare i fascicoli dei pignoramenti come se niente fosse. Lo sfattissimo praticante trova il coraggio per invitarla al bar a prendere un the caldo per portarla il più lontano possibile da lì e raccontarle solo in un secondo momento che il vecchio ha mangiato tutti e non vede l’ora di ingurgitare anche loro. Mentre stanno per abbandonare lo studio scoprono però che la porta principale è stata chiusa a chiave. E proprio in quel momento una voce tuonante rimbomba per tutto l’edificio rimbalzando nelle loro orecchie come un assordante anatema. “Le ultime giovani promesse del più importante studio legale cittadino sono convocate d’urgenza dal loro amorevole maestro. Abbandonino dunque qualunque patetica aspirazione di fuga e si rechino nella sala del trono senza tergiversare, altrimenti mi si scuotono i nervi. E se mi incazzo mi aumenta l’appetito”. Era la voce del vecchio che veniva dalle casse della filodiffusione poste sul soffitto. Suonava meccanica e gutturale, sinistra come una condanna.
- Non sono più tanto sicuro di voler sapere come va a finire il libro.
- Ma ti perdi il meglio!
- Conoscendoti posso immaginare.
- Immagini giusto. Finisce malissimo.
- Un'altra costante delle tue storie. Ci vai ancora dallo psicologo, Joe?
- Ma che psicologo, non serve a un cazzo – rispose Joe, appoggiando sul divano il prezioso manoscritto – Secondo me è questo posto che mi mette la tristezza addosso. Si vede che non sono tagliato per le risaie. Non mi sento più bene neanche quando fumo, ormai mi viene l’ansia due volte su tre. Forse dovrei solo andarmene da qui. Andarmene il più lontano possibile.
- Vuoi dirmi che quando eravamo di una decina di anni più giovani e vivevamo a Milano era diverso?
- Almeno non ero intrappolato in questa cavolo di provincia cronica, dove il massimo che possa succederti è che il cane del vicino ti caghi davanti alla porta di casa.
- Si certo. Ricordo quanto era diverso. Ricordo anche l’entusiasmo di quando finimmo il liceo e pensavamo a come sarebbe stata la vita da universitari. Se non sbaglio l’obiettivo era quello di conoscere un sacco di gente, cambiare una compagnia a sera ed avere le ragazze più belle della facoltà. Per farla breve c’era da spaccare il mondo. E invece com’è andata a finire?
- Non lo so. Credo di averlo rimosso.
- Tornei di calcio alla playstation e canne. Ecco com’è andata. Ogni maledetta sera a dirci c’è la svolta, si esce, si fa il giro dei locali... E poi? Per un motivo o per l’altro alle quattro del mattino si era ancora davanti alla tv con un joystick in mano, gli occhi sbarrati e l’espressione da ebeti.
- Dolci ricordi.
- Si dolcissimi…Sai qual è la verità? E’che siamo ridicoli. Ci saremmo rotti le palle anche a New York o a Parigi. Siamo fatti così. Neanche il sessantotto ci avrebbe dato stimoli. Saremmo riusciti a bruciarci il cervello con gli acidi ancora prima di gridare alla rivoluzione. Non è la provincia che è cronica. E’ cronica questa sorta di resa senza motivo. Ti sei mai fatto un esame di coscienza su quegli anni sprecati da perfetti idioti?
- Diciamo che su questo punto ho avuto modo di interrogare il mio super-io. Con il risultato che l’ho sbattuto in gattabuia dopo neanche cinque minuti. Però tu esageri come al solito…
- Ah già…Scusa…Due concerti all’anno andavamo a vederli. Possibilmente stando sul reggae così c’era modo di trovare il fumo anche per terra.
Joe rimase a fissarmi pensieroso per un attimo. - Però te li ricordi quei tornei alla “play”? Ci credevamo proprio… Si finiva sudati come se in campo ci fossimo stati noi! Poi il bello era che si sceglievano tassativamente solo squadre scarsissime del Sud America, sennò non si giocava.
- Cavolo se me lo ricordo… Tutte quelle finali perse contro la Germania. Con quel maledetto di Oliver Kahn che le parava tutte, potevi tirare in porta anche cento volte ma non c’era verso.
- Sai una cosa?
- Dimmi.
- Di là sotto il letto la play ce l’ho ancora…Ce la facciamo una partitina?
- Ma vai a cagare Joe. Domani mattina devo andare a cercarmi un lavoro. Non posso correre il rischio di essere ancora davanti a Oliver Kahn alle tre di notte.
- La prossima volta però un mondiale con il Perù ce lo possiamo fare!
- Ciao Joe, stammi bene – mi congedai precipitandomi verso la porta di casa - Cerca di uscire da queste quattro mura ogni tanto, non hai una gran cera.
Lasciarmi alle spalle la cupa atmosfera del monolocale di Joe fu a dir poco liberatorio. Da almeno tre anni, ogni volta che lo andavo a trovare, finivo col tornamene a casa con un groppo alla gola e dosi massicce di paranoia senza riuscire neanche a comprenderne il motivo. Ma proprio mentre mi lasciavo andare in un enorme sospiro di sollievo, scivolai su qualcosa di molle e, ancor prima di capire cosa stesse succedendo, mi ritrovai steso a terra pancia all’aria. Mi ero dimenticato di quella gigantesca cacca di cane e ora me la ritrovavo su tre quarti di scarpa e pure sulla caviglia dei jeans. Dopo essermi rimesso in piedi, accesi un’ultima sigaretta e rimasi immobile per qualche minuto a guardare la piatta campagna circostante. Quella luna velata di umidità, intenta a farsi un bagno di primavera nelle risaie, per un attimo mi catapultò indietro nel tempo alla mia prima vacanza al mare con gli amici, quando il mondo intero confinava con le pareti di un liceo e i trent’anni rappresentavano una meta così lontana da sembrare irraggiungibile. Mi allontanai con un sorriso stampato sulle labbra, masticando nebbia e imprecazioni.
Dario Ghiringhelli - Tutti al mare
Premio letterario 'Provincia cronica' prima edizione
Dario Ghiringhelli - Tutti al mare
A conclusione dell’anno scolastico, ottenuto con successo il superamento dell’esame di stato, detto anche della maturità, si strappava l’autorizzazione dei genitori a trascorrere qualche giorno in una località marina nella vicina Liguria.
In tale occasione si formava una specie di squadra, composta da un certo numero di ragazzi a cui non faceva difetto qualche specifica risorsa economica, utile per organizzare una spedizione marina essenzialmente rivolta alla ricerca spasmodica di una avventura da consumarsi, come diceva la canzone, grazie a qualche rotonda sul mare. Anche a me toccò di essere coinvolto in tale singolare e straordinaria vicenda.
La quartina dei partenti era costituita, oltre che dal sottoscritto, da Gigi, Ottavio, Massimo. Dopo una serrata discussione relativa alla scelta della destinazione, (considerazioni del tipo: “se si cercano grandi emozioni non è certo la Liguria in cui si deve andare, quello è un luogo di milanesi senza fantasia”, “vero, lì non è un posto dove si rimorchia, le ragazze sono belle, ma cercano tutte un marito”.), prevalse la mia decisione di privilegiare Albissola Mare quale luogo per portare a compimento la nostra voglia di conquiste femminili, giocando in trasferta animati da un senso di liberatoria trasgressione.
Conoscendo bene il posto per avervi, in anni passati, trascorso ripetute settimane di villeggiatura, fui in grado di suggerire il nome dell’albergo in cui avremmo alloggiato: l’hotel Wanda, con vista diretta sulla spiaggia e sul mare, di cui ricordavo bene la favorevole ed allettante caratteristica di disporre anche di un ingresso posteriore, che dava accesso alle stanze, senza obbligo di passare dalla scalinata centrale la quale immetteva nella hall principale.
Si era intorno alla metà di luglio di un favoloso ’64 e avevamo la meravigliosa età dei venti anni. Fu collegiale la decisione di raggiungere la meta in treno sulla tratta Milano – Savona, con trasbordo in autobus da Savona ad Albissola. Il tempo di viaggio, senza problemi di guida, ci avrebbe consentito di formalizzare una strategia di comportamento durante quei pochi giorni di vacanza.
Appena giunti in albergo, dopo esserci sistemati in due camere doppie, Massimo con Ottavio ed io con Gigi, in attesa dell’ora di cena, ci recammo in perlustrazione sul lungomare per identificare lo stabilimento balneare più densamente popolato di fanciulle facilmente circuibili. La scelta cadde sui bagni Sant’Antonio, un edificio in muratura che riecheggiava, in qualche modo, la forma di una nave e dalla cui spiaggia confinante con il molo principale di Albissola si poteva controllare bene tutte le persone che vi passeggiavano.
C’erano fanciulle con masse di capelli platinati, dalle scollature generose, con fianchi persuasivi che attiravano su di esse molte nostre occhiate di interesse. Ragazze di quel tipo non passavano certo inosservate.
La cena di quella prima sera fu un po’ strana perché nessuno dei miei compagni intese aderire alla proposta dei vari piatti di pesce offerti dalla cucina, come era logico e naturale in un posto di mare.
Mi resi conto di essere con dei commensali rigorosamente carnivori che ordinarono allo stupito cameriere tre cotolette alla milanese, guardandomi con disprezzo per la mia scelta di un ottimo fritto misto. Come era facilmente prevedibile, l’esito delle cotolette fu disastroso, sia per il tempo di attesa, sia per il modo in cui erano state cucinate dopo essere state sottoposte ad un vero e proprio processo di carbonizzazione.
Essendo stato responsabile della scelta dell’hotel Wanda, fui oggetto di una serie di improperi da parte degli amici che ritrovarono la consueta calma solo durante la degustazione di eccellenti affogati all’amarena, ripromettendosi, per l’indomani, di rifarsi con sostanziosi primi piatti, orientando i secondi in puro stile esclusivamente vegetariano.
La mattina successiva, dopo aver rispettato la tradizione che prevedeva l’acquisto in panetteria di un pezzo di vera, calda focaccia ligure, facemmo il nostro ingresso nella spiaggia dei bagni Sant’Antonio, sistemandoci sulle sdraio a noi riservate all’ombra di un paio di ombrelloni.
Da quel momento in avanti prendeva avvio l’apertura della “caccia”.
Gigi, Ottavio e Massimo, provetti nuotatori, iniziarono a sfoggiare la loro prestanza fisica, mettendosi in evidenza, dopo aver raggiunto e conquistato, con poche bracciate, la piattaforma della boa, dalla quale potevano dominare la popolazione femminile della spiaggia, mentre io, che avevo sempre aborrito di nuotare per l’atavica paura di annegare, me ne stavo tranquillo a fumare sulla sdraio. In modo del tutto da me inaspettato fui avvicinato da una ragazza che mi colpì per la sua altezza apparsami subito notevole, se rapportata alla mia bassa statura. Nel chiedermi, con massima cortesia, l’accendino in prestito, sedendosi sulla sabbia vicino alla mia postazione, iniziò a dialogare con simpatica disinvoltura.
Nel giro di pochi minuti seppi che si chiamava Cinzia, che aveva ventun’anni, che era ospite nella casa di una zia a Savona, ma che era originaria di Casale Monferrato e che era impiegata presso uno studio notarile. Volle conoscere il nome dei miei amici i quali, da lontano, osservavano con interesse divertito lo sviluppo di questo mio incontro. Sentendomi un po’ imbarazzato dalla sua pur piacevole tendenza ad intromettersi nelle faccende altrui, mi sforzai di essere cortese, badando a non far cadere il discorso, senza, per altro, preventivare quale sarebbe potuta essere la parte conclusiva della vicenda, finché Cinzia, con ineffabile spontaneità, non se ne uscì con una domanda che risultò per me sconvolgente:
“Facciamo un giretto in moscone? Sai sono brava a remare”.
Nello strettissimo giro di pochi secondi il mio cervello cadde in preda di contrastanti considerazioni, mentre mi affannavo affinché dal viso non trasparisse il mio dramma interiore.
“Non ho mai messo piede su una barca in vita mia. Non so nuotare, non so remare, ignoro come si faccia a spingere un moscone dalla spiaggia in mare. Se mi rifiuto, questa mi affibbia, all’istante, la patente di imbranato. Proprio a me deve capitare questo affare?”.
Tali e siffatte erano le mie cogitazioni, finché dalla bocca mi uscì un labile e quasi rassegnato:
“Va bene, andiamo”.
Non appena mi sollevai dalla sdraio per seguire Cinzia verso la riva dove stavano ormeggiati i mosconi, mi resi conto di una sconcertante realtà: la mia testa arrivava a malapena all’altezza delle spalle di Cinzia.
Fui colto da sgomento per la consapevolezza che, in coppia, formavamo un perfetto articolo “il”, unito al disappunto che ero io a rappresentare la “i” e non, purtroppo, la “l”. Fui assalito da quel profondo e amaro turbamento interiore che assale l’individuo quando si rende conto di avere agito in maniera avventata e riprovevole, accettando un invito del genere.
Cinzia, nel suo sfolgorante bikini a fiori, non realizzò il senso di vergogna che mi aveva assalito, in quanto già impegnata a spingere in acqua quell’infelice imbarcazione. Privo di riflessi, mi accomodai macchinalmente sul seggiolino, mentre la fanciulla, libera da impacci e da incertezze, iniziava a manovrare, con movimento ritmico, i remi per imprimere al galeotto galleggiante un movimento nella direzione da lei voluta.
Poco prima di raggiungere la vicinanza della boa, dove i miei tre compagni stazionavano, avvertii un senso di freddo alle estremità inferiori della gambe, accorgendomi, con violenta sensazione di repulsione, orrore e spavento, che i miei piedi erano letteralmente immersi nell’acqua salmastra.
Cinzia, rilevando in un baleno lo sbiancamento accentuato del colorito del mio volto e lo stato di trepidante e tormentoso affanno del mio respiro, ebbe il buon senso di invertire la rotta del natante in direzione della riva, mentre Gigi, Ottavio e Massimo ci seguivano, nuotando a larghe bracciate.
Giunti finalmente sulla terraferma, mi mancò finanche la forza di effettuare le presentazioni di rito che la circostanza richiedeva, tutto preso come ero a soddisfare quell’esigenza fisiologica derivante dall’intensa reazione impulsiva di timore e paura da me avvertita di fronte al pericolo di un irreparabile annegamento.
Lasciai i bagni Sant’Antonio per rifugiarmi nella mia camera in albergo dove, qualche attimo dopo, fui raggiunto dai miei compagni che, per rendere meglio l’idea del loro punto di vista in proposito, dopo aver messo debitamente in risalto, senza alcun ritegno, le allettanti qualità fisiche di Cinzia, facendo ricorso al linguaggio più scurrile, non si astennero dal dileggiarmi per non aver saputo sfruttare a dovere quell’appetitosa conoscenza.
Ripresomi, ebbi la netta convinzione che, grazie al mio comportamento, nessun’altra occasione di incontro con Cinzia si sarebbe mai più verificata.
Il che contribuì a restituirmi un poco di serenità. Ma mi sbagliavo, perché un seguito ci sarebbe stato.
Durante la colazione e la cena di quella giornata, fui ancora oggetto di scherno e derisione da parte dei tre colleghi di villeggiatura ai quali feci rimarcare, come forma di difesa, che loro, dopo un giorno e mezzo di permanenza, non avevano ancora costruito alcun approccio con l’altro sesso.
Fui subito smentito perché la serata aveva riservato anche a Gigi il suo colpo di vita.
Fin dal nostro arrivo ad Albissola, poco più avanti dell’ingresso dell’albergo, era posizionata una bancarella sulla quale erano esposti numerosi giocattoli, i più svariati pupazzi, insomma un campionario che poteva essere oggetto del desiderio di bimbi dai tre ai sette anni. Avevamo tutti notato l’avvenenza di natura un po’ zingaresca dell’addetta alla vendita, soprattutto Gigi, notoriamente e sensibilmente attirato dalle fanciulle esibenti con ostentazione e compiacenza fluenti chiome corvine.
Il nostro programma della serata consisteva nell’assistere, presso il cinema all’aperto, al film di Zeffirelli “Giulietta e Romeo”, prospettiva non molto allettante a cui Gigi preferì non aderire, avendo in animo di cimentarsi nella conquista dell’ambulante morettona.
Rientrando in albergo, dopo la serata passata al cinema, trovammo Gigi in confidenziale conversazione con la venditrice di giocattoli. Ci salutò dicendoci che sarebbe rimasto lì a chiacchierare con Tamara, (il giorno dopo saremmo anche noi venuti a conoscenza del suo esotico nome), fino al momento di chiusura di quella mobile bottega.
Sorbendo l’ultimo digestivo al bar dell’albergo prima di prendere possesso delle nostre stanze, ci dichiarammo all’unanimità convinti che Gigi avrebbe perfezionato con appagante corollario la sua avventura con l’ambulante venditrice.
Mi coricai leggendo quel passo de “Il Gattopardo”, “…… noi fummo i Gattopardi, i leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra…..”, che ben si addiceva alle presuntuose illusioni della nostra generazione.
Restai in attesa del rientro di Gigi, avidamente curioso della dettagliata cronaca della sua impresa amorosa. Intorno alle tre fece il suo ingresso in camera, recando ben visibili i segni di un angoscioso tormento e di un evidente deperimento fisico.
“Raccontami tutto per filo e per segno. E’ stata una scopata redditizia?”. Gli chiesi con pruriginosa curiosità.
Prima di rispondermi si tolse dalle tasche, deponendoli sgarbatamente sul letto, due yo-yo, un orsetto di peluche, una girandola multicolore e una trottola.
“Ho speso un capitale per queste stronzate, ma è stato l’aggancio per convincere Tamara a scendere sulla spiaggia deserta per fare il bagno di notte. Ha un fisico eccezionale, un pezzo di ragazza incredibile. Quando si è tolta il vestito, si è immersa, sfoggiando un bikini, mini, ma così mini da lasciarmi senza fiato. Usciti dall’acqua, ci siamo sdraiati sulla sabbia ed ho cominciato ad accarezzarla. Lei mi lasciava fare. Ad un tratto, alzando la testa, ho visto alle nostre spalle le ombre preoccupanti di due individui. E’ stato un attimo, uno dei due ha preso Tamara per le spalle, sottraendomela letteralmente, mentre l’altro imprecava in una lingua sconosciuta, forse montenegrina. Erano il padre e il fratello, i quali, con ampi gesti convincenti, mi invitavano a tagliare la corda. Ho dovuto rivestirmi per strada ed eccomi qui con due zebedei privati della loro naturale soddisfazione”.
A fatica fui in grado di trattenere la mia voglia di ridere, per non infierire crudelmente sull’amico già bastantemente contrariato ed avvilito per la frustrazione dei suoi sensi.
La nobilissima ansia di tradurre in pratica i grandi principi della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia, che la nostra generazione, quella dei nati dopo la guerra, ha respirato, mangiato e bevuto da quando è venuta al mondo, in siffatte boccaccesche vicende subiva un crollo definitivo e totale.
**********
Non furono certo più fortunati, rispetto a quelli di Gigi, gli accadimenti balneari di Massimo. La scelta di qualche disco in un juke-box galeotto consentì a Massimo di stabilire un contatto con una signora di Savona, una certa Erica, di almeno una decina di anni più avanti rispetto ai ventuno di Massimo. La savonese, nel complesso, non era male, anzi dava l’impressione di essere una donna di classe, denotando signorilità, disinvoltura ed eleganza anche quando indossava un semplice costume da bagno. Nel giro di un pomeriggio, Massimo fu letteralmente conquistato ed attratto da lei, forse anche attirato dal poter fare la sua prima esperienza amorosa con una donna più matura delle ninfette che, a Saronno, erano solite cadere facilmente ai suoi piedi.
L’immagine di Erica aveva invaso la sua mente. Lo squisito battito delle ciglia, il movimento armonioso del suo corpo gli suscitavano una profonda emozione, non riuscendo a scoprire in lei una minima imperfezione suscettibile di rompere il fascino che emanava dalle sue forme scultoree, senza che alcuna traccia dell’età comparisse su quel viso da cammeo.
Senza frapporre ulteriori indugi, dopo poche ore di conoscenza, Massimo invitò Erica a cena in un ristorante caratteristico di Albissola, forte del fatto che un’improvvisata colletta, effettuata con rapidità presso di noi, gli garantiva la possibilità di non sfigurare, potendo sperperare liberamente per essere all’altezza della sua invitata.
Durante la cena in albergo noi tre commentavamo un po’ perplessi questo repentino innamoramento di Massimo, che, in passato, si era sempre dimostrato e rivenduto come un duro nelle numerose vicende sentimentali in cui era incappato. Inoltre, per quanto lui si dichiarasse navigato nei rapporti con l’altro sesso, ci preoccupava la differenza d’età intercorrente con la sua dama, la quale, ancorché superata da poco la trentina e quantunque molto carina, lasciava trasparire l’immagine di essere una donna molto matura ed esperta e, comunque, in grado di poter dominare appieno i ventuno anni del nostro amico.
Non ci rimaneva che attendere la conclusione di quell’improvvisato connubio. Le nostre larvate perplessità non si rivelarono del tutto infondate, come avemmo modo di evincere dopo la minuziosa cronaca fornitaci da Massimo senza trascurare alcun minimo particolare della sua singolare vissuta avventura.
La cena, consumata in quel costoso ristorantino, a base di specialità di pesce ed annaffiata da un inebriante e gelidissimo “Pigato”, si svolse in perfetta intimità e reciproca corrispondenza di amabili affettuosità, con Massimo estasiato e catturato dall’ineccepibile finezza e signorilità di comportamento della sua compagna nel gestire la conversazione che aveva toccato “vertici sublimi”, spaziando su quintessenziati argomenti, (tali furono le espressioni pronunciate dal nostro compagno nel fornirci il resoconto della serata), che Massimo, ragazzo di provincia, non fu assolutamente in grado di compenetrare.
A cena ultimata, Erica si offerse di accompagnare in auto, un’Appia terza serie, il suo cavaliere per mostrargli l’appartamento di Savona, garantendogli di riaccompagnarlo ad Albissola a serata conclusa.
Grazie a tale invito, Massimo, sentendosi più a suo agio, consapevole di camminare sul terreno a lui familiare dell’incipiente epilogo scopereccio, non esitò un solo istante a cogliere al balzo quell’invitante e, al tempo stesso, intrigante opportunità calatagli, come si suol dire, su un piatto d’argento.
Durante il breve tragitto fino a Savona, il ragazzo non si curò della coltre di silenzio che era improvvisamente calata da parte di Erica, essendo troppo concentrato a pregustare il sapore dell’imminente trasgressione.
Giunti a destinazione, Erica, da perfetta anfitrione, si compiacque di accogliere, con fastosa dovizia di superalcolici, l’ospite, indugiando a raccontare spezzoni della sua vita, (“tirandola un po’ troppo in lungo”, ci disse, per onor di precisazione, Massimo), dopo essersi accomodata non sullo stesso divano su cui era andato a sedersi il nostro amico, ma su quello di fronte. Il che contribuì a raggelare momentaneamente le ambizioni lascive di Massimo che, mediante abile e disinvolta manovra di accerchiamento, andò, con nonchalance, ad occupare più consona postazione a fianco di Erica. Nell’attimo stesso in cui con un braccio cercò di cingerle garbatamente le spalle, questa, con mossa felina, scattò in piedi, urlando con smodata arroganza:
“Ma cosa ti sei messo in testa? Con chi credi di avere a che fare? Mica sono una donna di strada!”,
“Ma, veramente, sei tu che mi hai fatto capire …….”, osò controbattere timidamente Massimo,
“No! Non hai capito niente!”,
“Cosa devo capire? Mi hai invitato qui! Siamo soli ….. Pensavo che …… “,
“No, no! Lascia che ti spieghi”, lo interruppe Erica divenuta più calma e riacquistando la sua consueta classe e signorilità che tanto aveva impressionato favorevolmente Massimo.
“Massimo, tu sei un bel fanciullo e questo è quanto importa e desidero che tu divenga il mio compiacente amico. Vuoi?”.
“Ma, non capisco, prima non hai voluto……….”,
“Insomma, fai uno sforzo….. vienimi incontro ……”.
Ancora una volta Massimo cadde nel fraintendimento più clamoroso, tentando di andare verso Erica.
“No! Continui a non voler capire! Senti, tu sei uno splendido ragazzo. Senza che tu te ne accorga, sei in grado di catalizzare l’attenzione di tante donne ed è a queste che, grazie a te, voglio arrivare! ….” .
Come uscendo improvvisamente alla luce, superato un banco di nebbia, uno squarcio di intuizione lacerò con violenza e con effetto vistoso e impressionante la mente del meschino saronnese, con conseguente, immediato blocco dell’epiglottide.
Neppure un doveroso ed appropriato “gulp” uscì dalla sua bocca.
Come un automa, in un battibaleno, Massimo si trovò alla fermata dell’autobus di linea percorrente la tratta Savona – Albissola, rientrando, frastornato, intontito e confuso, nell’accogliente hotel Wanda.
Ci concluse il suo racconto con un impensabile e stravagante excursus sull’anomalia del comportamento sessuale della donna consistente nella ricerca e nel soddisfacimento del piacere erotico con persone del proprio sesso.
Completamente allibiti, ci consolammo tutti al pensiero che solo due giorni ci dividevano dal momento di far ritorno al nostro natio borgo saronnese.
Non bastavano il contorcimento del twist, dello shake, il rimbambimento dello hully-gully ed il deplorevole contatto fisico del “mattone” a coercizzare noi giovani di quegli anni ’60, fu necessario che si aprisse pure un nuovo capitolo della scostumatezza.
**********
La mattina dopo, mentre tutti e quattro poltrivamo con neghittosa inerzia sulle sdraio della spiaggia, si rifece viva Cinzia nella sua statuaria bellezza, venendo a sedersi sulla sabbia vicino a noi.
Ebbi la sgradevole impressione che fosse ancora più alta di quanto mi era sembrato due giorni prima in occasione del primo incontro. Si mise a parlare con noi con estrema semplicità e amabile cordialità, assumendo un comportamento che ispirava confidenza, senza fare riferimento alcuno al disgraziato episodio del moscone che mi aveva visto protagonista: la qual cosa contribuì a farmela apparire più gradita. Respinse l’invito rivoltole dai miei compagni di immergersi con loro nell’invitante acqua blu di un mare calmissimo, giustificando il suo rifiuto con la necessità di dovermi parlare.
Mi domandai per quale ragione si dimostrasse così insensibile alle più appariscenti doti di bellezza e gagliardia di Gigi, Ottavio e Massimo, i quali, quanto meno, la uguagliavano in altezza.
Rimasti soli, dopo qualche minuto di silenzio, forse impressionata dal mio atteggiamento estremamente guardingo nei suoi confronti, (paventavo qualche altra diabolica proposta da parte sua che avesse ancora attinenza con le barche), mi rivolse la seguente profferta:
“Stasera, in paese, inaugurano un nuovo locale chiamato “La Lanterna”, sai una specie di piccolo night con orchestra. Mi farebbe piacere se tu ci venissi con me”.
La tarpai subito, senza lasciarla proseguire:
“Ma, Cinzia, perché dovrei espormi al ridicolo? Ti immagini gli sfottò dei presenti quando ci vedranno ballare. Bella coppia: l’amazzone ed il nano. No grazie Cinzia”,
“Ma io non ti obbligherei a ballare con me, ce ne stiamo seduti a un tavolino per ascoltare la musica. L’orchestra viene dalle tue parti……”,
“Dalle mie parti?”,
“Sì, si tratta del complesso di Raf Montrasio, un ex componente della famosa band di Carosone”.
Il richiamo delle persone note e familiari contribuirono a farmi valutare con più accondiscendenza la proposta di Cinzia. In effetti, considerato il legame venuto a crearsi al dancing Cadorna con tale complesso, mi trovai nella situazione positiva di dover andare in un luogo nel quale avrei potuto sentirmi un po’ a mio più totale agio. Riflettei ancora un momento e poi, per non dichiararle subito la mia disponibilità ad aderire al suo invito, presi tempo, dicendo:
“Se vengo io, guarda che mi seguiranno anche Gigi, Ottavio e Massimo”,
“Ma non c’è alcun problema! Trascorreremo una serata piacevole non disgiunta dalla possiblità che avremo di rimanere un po’ soli nella mia auto quando avremo lasciato il locale”.
Quest’ultima frase, auspice di un interessante epilogo, costituì la goccia che fece traboccare il vaso in favore di una mia accettazione ad affrontare questa che poteva considerarsi l’ultima avventura di Albissola, prima di far ritorno a Saronno nell’accogliente ed ovattato Cadorna.
La fanciulla mi piaceva e l’ipotesi di godere un’intrigante intimità con lei senza più preoccuparmi della differenza di statura, mi attraeva enormemente, pur senza preventivare quali sarebbero potuti essere i limiti di sconfinamento che mi sarebbero stati consentiti durante la promettente circostanza di concludere la serata con lei.
Entrando nel locale, mi resi conto che Cinzia aveva prudentemente prenotato un tavolo a due per me e per lei, mentre gli altri miei amici andavano a sistemarsi in un angolino in prossimità del bar.
Gigi, Ottavio e Massimo erano già scesi in pista, appropriandosi di tre fanciulle isolate che dimostravano la loro voglia di essere invitate a danzare sulle note di un lento accattivante.
Cinzia, consapevole delle promesse fattemi, arrischiò una timida proposta:
“Sei sicuro che proprio non vuoi ballare?”.
Ignorai quella sua domanda preferendo obnubilarmi con un amaro servitomi con abbondante ghiaccio. Intanto un manipolo di playboy si erano proposti a Cinzia invitandola a ballare, mentre lei, in perfetta coerenza con quanto promessomi, rifiutava di scendere in pista. Ciò che mi meravigliò fu la consumazione ordinata da Cinzia: un wisky doppio, la cui incidenza, al momento del conto, sarebbe stata notevolmente impegnativa per me che, per l’occasione, disponevo di sole diecimila lire. Al primo ne fece seguire un secondo, mentre Lillo, il cantante del complesso che io conoscevo bene, durante una pausa dell’orchestra, portandosi una sedia, venne a sedersi al nostro tavolo, mostrando di conoscere molto bene Cinzia, a cui si rivolgeva assai confidenzialmente. Non mi fu necessario, pertanto, effettuare le presentazioni del caso, perché Lillo mi precedette dicendo:
“Sai, Dario, Cinzia ed io abbiamo avuto una piccola storia l’estate scorsa quando eravamo impegnati al “Nautilus” di Varazze. Non sapevo che vi conosceste”.
Come un’Erinni infuriata Cinzia interruppe la conversazione, rovesciando addosso a Lillo una sfilza di improperi:
“Sei un buffone, un manichino impomatato! Sai quanto se ne frega Dario di quella che tu chiami storia! Mi hai usata, ingannata e imbrogliata! Sei un verme!”.
Mentre Lillo cercava, senza alcun successo, di calmarla, io avrei voluto sprofondare sotto il tavolo perché, dato il tono elevato ed il grado di intensità della voce di Cinzia, tutti i presenti guardavano e seguivano la scena litigiosa con molto interesse e pruriginosa attenzione, convinti che Cinzia fosse l’oggetto del contendere tra me e Lillo, il quale, per fortuna, fu richiamato sulla pedana a continuare il suo ruolo di cantante rubacuori.
Incurante della differenza di statura, attraversai la sala, trascinando Cinzia totalmente in preda ad una crisi nervosa accentuata da un leggero, ma evidente etilismo. Saldai il conto ammontante a ottomilanovecentocinquanta lire, seguito dai miei tre compagni che mi aiutarono ad adagiare Cinzia sul sedile posteriore della sua millecento. Nelle condizioni in cui era non potevamo lasciarle correre il rischio di guidare fino a Savona. Per convincerla a cedere ad Ottavio la funzione di autista momentaneo, fummo costretti ad ascoltare un dettagliato resoconto della sua intricata vicenda con Lillo, pronunciato con grande difficoltà di eloquio a causa del tasso alcolico ingerito.
La solita banale storia della ragazza che si illude, che prima la dà e poi, delusa, si pente di averla data.
Finalmente alle due del mattino la depositammo sulla porta d’ingresso della sua abitazione, dopo averle introdotto in borsetta le chiavi dell’auto debitamente parcheggiata sul piazzale antistante.
A quell’ora non esisteva più alcun autobus di linea, per cui, con strepitosa disinvoltura, ci accingemmo a percorrere a piedi i cinque chilometri che separavano Savona dal nostro albergo di Albissola, incapaci di pronunziare qualsivoglia suono articolato che costituisse la parola, in un ostinato atteggiamento di mutismo, ma, al tempo stesso, confortati dall’idea che, tra una dozzina di ore, ci saremmo reinseriti nel consueto contesto “cadorniano”.
Siccome la sapevamo lunga, o credevamo di saperla lunga, eravamo, però, anche moderni e disincantati e non ci sfuggiva che un’ “affettuosa amicizia” tra un uomo e una donna comportasse amplessi tanto furiosamente passionali, quanto poco destinati a raggiungere il traguardo del “finché morte non vi separi”, così consueto nei film di Hollywood che imperversavano durante quella nostra vacillante generazione.
Dario Ghiringhelli - Tutti al mare
A conclusione dell’anno scolastico, ottenuto con successo il superamento dell’esame di stato, detto anche della maturità, si strappava l’autorizzazione dei genitori a trascorrere qualche giorno in una località marina nella vicina Liguria.
In tale occasione si formava una specie di squadra, composta da un certo numero di ragazzi a cui non faceva difetto qualche specifica risorsa economica, utile per organizzare una spedizione marina essenzialmente rivolta alla ricerca spasmodica di una avventura da consumarsi, come diceva la canzone, grazie a qualche rotonda sul mare. Anche a me toccò di essere coinvolto in tale singolare e straordinaria vicenda.
La quartina dei partenti era costituita, oltre che dal sottoscritto, da Gigi, Ottavio, Massimo. Dopo una serrata discussione relativa alla scelta della destinazione, (considerazioni del tipo: “se si cercano grandi emozioni non è certo la Liguria in cui si deve andare, quello è un luogo di milanesi senza fantasia”, “vero, lì non è un posto dove si rimorchia, le ragazze sono belle, ma cercano tutte un marito”.), prevalse la mia decisione di privilegiare Albissola Mare quale luogo per portare a compimento la nostra voglia di conquiste femminili, giocando in trasferta animati da un senso di liberatoria trasgressione.
Conoscendo bene il posto per avervi, in anni passati, trascorso ripetute settimane di villeggiatura, fui in grado di suggerire il nome dell’albergo in cui avremmo alloggiato: l’hotel Wanda, con vista diretta sulla spiaggia e sul mare, di cui ricordavo bene la favorevole ed allettante caratteristica di disporre anche di un ingresso posteriore, che dava accesso alle stanze, senza obbligo di passare dalla scalinata centrale la quale immetteva nella hall principale.
Si era intorno alla metà di luglio di un favoloso ’64 e avevamo la meravigliosa età dei venti anni. Fu collegiale la decisione di raggiungere la meta in treno sulla tratta Milano – Savona, con trasbordo in autobus da Savona ad Albissola. Il tempo di viaggio, senza problemi di guida, ci avrebbe consentito di formalizzare una strategia di comportamento durante quei pochi giorni di vacanza.
Appena giunti in albergo, dopo esserci sistemati in due camere doppie, Massimo con Ottavio ed io con Gigi, in attesa dell’ora di cena, ci recammo in perlustrazione sul lungomare per identificare lo stabilimento balneare più densamente popolato di fanciulle facilmente circuibili. La scelta cadde sui bagni Sant’Antonio, un edificio in muratura che riecheggiava, in qualche modo, la forma di una nave e dalla cui spiaggia confinante con il molo principale di Albissola si poteva controllare bene tutte le persone che vi passeggiavano.
C’erano fanciulle con masse di capelli platinati, dalle scollature generose, con fianchi persuasivi che attiravano su di esse molte nostre occhiate di interesse. Ragazze di quel tipo non passavano certo inosservate.
La cena di quella prima sera fu un po’ strana perché nessuno dei miei compagni intese aderire alla proposta dei vari piatti di pesce offerti dalla cucina, come era logico e naturale in un posto di mare.
Mi resi conto di essere con dei commensali rigorosamente carnivori che ordinarono allo stupito cameriere tre cotolette alla milanese, guardandomi con disprezzo per la mia scelta di un ottimo fritto misto. Come era facilmente prevedibile, l’esito delle cotolette fu disastroso, sia per il tempo di attesa, sia per il modo in cui erano state cucinate dopo essere state sottoposte ad un vero e proprio processo di carbonizzazione.
Essendo stato responsabile della scelta dell’hotel Wanda, fui oggetto di una serie di improperi da parte degli amici che ritrovarono la consueta calma solo durante la degustazione di eccellenti affogati all’amarena, ripromettendosi, per l’indomani, di rifarsi con sostanziosi primi piatti, orientando i secondi in puro stile esclusivamente vegetariano.
La mattina successiva, dopo aver rispettato la tradizione che prevedeva l’acquisto in panetteria di un pezzo di vera, calda focaccia ligure, facemmo il nostro ingresso nella spiaggia dei bagni Sant’Antonio, sistemandoci sulle sdraio a noi riservate all’ombra di un paio di ombrelloni.
Da quel momento in avanti prendeva avvio l’apertura della “caccia”.
Gigi, Ottavio e Massimo, provetti nuotatori, iniziarono a sfoggiare la loro prestanza fisica, mettendosi in evidenza, dopo aver raggiunto e conquistato, con poche bracciate, la piattaforma della boa, dalla quale potevano dominare la popolazione femminile della spiaggia, mentre io, che avevo sempre aborrito di nuotare per l’atavica paura di annegare, me ne stavo tranquillo a fumare sulla sdraio. In modo del tutto da me inaspettato fui avvicinato da una ragazza che mi colpì per la sua altezza apparsami subito notevole, se rapportata alla mia bassa statura. Nel chiedermi, con massima cortesia, l’accendino in prestito, sedendosi sulla sabbia vicino alla mia postazione, iniziò a dialogare con simpatica disinvoltura.
Nel giro di pochi minuti seppi che si chiamava Cinzia, che aveva ventun’anni, che era ospite nella casa di una zia a Savona, ma che era originaria di Casale Monferrato e che era impiegata presso uno studio notarile. Volle conoscere il nome dei miei amici i quali, da lontano, osservavano con interesse divertito lo sviluppo di questo mio incontro. Sentendomi un po’ imbarazzato dalla sua pur piacevole tendenza ad intromettersi nelle faccende altrui, mi sforzai di essere cortese, badando a non far cadere il discorso, senza, per altro, preventivare quale sarebbe potuta essere la parte conclusiva della vicenda, finché Cinzia, con ineffabile spontaneità, non se ne uscì con una domanda che risultò per me sconvolgente:
“Facciamo un giretto in moscone? Sai sono brava a remare”.
Nello strettissimo giro di pochi secondi il mio cervello cadde in preda di contrastanti considerazioni, mentre mi affannavo affinché dal viso non trasparisse il mio dramma interiore.
“Non ho mai messo piede su una barca in vita mia. Non so nuotare, non so remare, ignoro come si faccia a spingere un moscone dalla spiaggia in mare. Se mi rifiuto, questa mi affibbia, all’istante, la patente di imbranato. Proprio a me deve capitare questo affare?”.
Tali e siffatte erano le mie cogitazioni, finché dalla bocca mi uscì un labile e quasi rassegnato:
“Va bene, andiamo”.
Non appena mi sollevai dalla sdraio per seguire Cinzia verso la riva dove stavano ormeggiati i mosconi, mi resi conto di una sconcertante realtà: la mia testa arrivava a malapena all’altezza delle spalle di Cinzia.
Fui colto da sgomento per la consapevolezza che, in coppia, formavamo un perfetto articolo “il”, unito al disappunto che ero io a rappresentare la “i” e non, purtroppo, la “l”. Fui assalito da quel profondo e amaro turbamento interiore che assale l’individuo quando si rende conto di avere agito in maniera avventata e riprovevole, accettando un invito del genere.
Cinzia, nel suo sfolgorante bikini a fiori, non realizzò il senso di vergogna che mi aveva assalito, in quanto già impegnata a spingere in acqua quell’infelice imbarcazione. Privo di riflessi, mi accomodai macchinalmente sul seggiolino, mentre la fanciulla, libera da impacci e da incertezze, iniziava a manovrare, con movimento ritmico, i remi per imprimere al galeotto galleggiante un movimento nella direzione da lei voluta.
Poco prima di raggiungere la vicinanza della boa, dove i miei tre compagni stazionavano, avvertii un senso di freddo alle estremità inferiori della gambe, accorgendomi, con violenta sensazione di repulsione, orrore e spavento, che i miei piedi erano letteralmente immersi nell’acqua salmastra.
Cinzia, rilevando in un baleno lo sbiancamento accentuato del colorito del mio volto e lo stato di trepidante e tormentoso affanno del mio respiro, ebbe il buon senso di invertire la rotta del natante in direzione della riva, mentre Gigi, Ottavio e Massimo ci seguivano, nuotando a larghe bracciate.
Giunti finalmente sulla terraferma, mi mancò finanche la forza di effettuare le presentazioni di rito che la circostanza richiedeva, tutto preso come ero a soddisfare quell’esigenza fisiologica derivante dall’intensa reazione impulsiva di timore e paura da me avvertita di fronte al pericolo di un irreparabile annegamento.
Lasciai i bagni Sant’Antonio per rifugiarmi nella mia camera in albergo dove, qualche attimo dopo, fui raggiunto dai miei compagni che, per rendere meglio l’idea del loro punto di vista in proposito, dopo aver messo debitamente in risalto, senza alcun ritegno, le allettanti qualità fisiche di Cinzia, facendo ricorso al linguaggio più scurrile, non si astennero dal dileggiarmi per non aver saputo sfruttare a dovere quell’appetitosa conoscenza.
Ripresomi, ebbi la netta convinzione che, grazie al mio comportamento, nessun’altra occasione di incontro con Cinzia si sarebbe mai più verificata.
Il che contribuì a restituirmi un poco di serenità. Ma mi sbagliavo, perché un seguito ci sarebbe stato.
Durante la colazione e la cena di quella giornata, fui ancora oggetto di scherno e derisione da parte dei tre colleghi di villeggiatura ai quali feci rimarcare, come forma di difesa, che loro, dopo un giorno e mezzo di permanenza, non avevano ancora costruito alcun approccio con l’altro sesso.
Fui subito smentito perché la serata aveva riservato anche a Gigi il suo colpo di vita.
Fin dal nostro arrivo ad Albissola, poco più avanti dell’ingresso dell’albergo, era posizionata una bancarella sulla quale erano esposti numerosi giocattoli, i più svariati pupazzi, insomma un campionario che poteva essere oggetto del desiderio di bimbi dai tre ai sette anni. Avevamo tutti notato l’avvenenza di natura un po’ zingaresca dell’addetta alla vendita, soprattutto Gigi, notoriamente e sensibilmente attirato dalle fanciulle esibenti con ostentazione e compiacenza fluenti chiome corvine.
Il nostro programma della serata consisteva nell’assistere, presso il cinema all’aperto, al film di Zeffirelli “Giulietta e Romeo”, prospettiva non molto allettante a cui Gigi preferì non aderire, avendo in animo di cimentarsi nella conquista dell’ambulante morettona.
Rientrando in albergo, dopo la serata passata al cinema, trovammo Gigi in confidenziale conversazione con la venditrice di giocattoli. Ci salutò dicendoci che sarebbe rimasto lì a chiacchierare con Tamara, (il giorno dopo saremmo anche noi venuti a conoscenza del suo esotico nome), fino al momento di chiusura di quella mobile bottega.
Sorbendo l’ultimo digestivo al bar dell’albergo prima di prendere possesso delle nostre stanze, ci dichiarammo all’unanimità convinti che Gigi avrebbe perfezionato con appagante corollario la sua avventura con l’ambulante venditrice.
Mi coricai leggendo quel passo de “Il Gattopardo”, “…… noi fummo i Gattopardi, i leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra…..”, che ben si addiceva alle presuntuose illusioni della nostra generazione.
Restai in attesa del rientro di Gigi, avidamente curioso della dettagliata cronaca della sua impresa amorosa. Intorno alle tre fece il suo ingresso in camera, recando ben visibili i segni di un angoscioso tormento e di un evidente deperimento fisico.
“Raccontami tutto per filo e per segno. E’ stata una scopata redditizia?”. Gli chiesi con pruriginosa curiosità.
Prima di rispondermi si tolse dalle tasche, deponendoli sgarbatamente sul letto, due yo-yo, un orsetto di peluche, una girandola multicolore e una trottola.
“Ho speso un capitale per queste stronzate, ma è stato l’aggancio per convincere Tamara a scendere sulla spiaggia deserta per fare il bagno di notte. Ha un fisico eccezionale, un pezzo di ragazza incredibile. Quando si è tolta il vestito, si è immersa, sfoggiando un bikini, mini, ma così mini da lasciarmi senza fiato. Usciti dall’acqua, ci siamo sdraiati sulla sabbia ed ho cominciato ad accarezzarla. Lei mi lasciava fare. Ad un tratto, alzando la testa, ho visto alle nostre spalle le ombre preoccupanti di due individui. E’ stato un attimo, uno dei due ha preso Tamara per le spalle, sottraendomela letteralmente, mentre l’altro imprecava in una lingua sconosciuta, forse montenegrina. Erano il padre e il fratello, i quali, con ampi gesti convincenti, mi invitavano a tagliare la corda. Ho dovuto rivestirmi per strada ed eccomi qui con due zebedei privati della loro naturale soddisfazione”.
A fatica fui in grado di trattenere la mia voglia di ridere, per non infierire crudelmente sull’amico già bastantemente contrariato ed avvilito per la frustrazione dei suoi sensi.
La nobilissima ansia di tradurre in pratica i grandi principi della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia, che la nostra generazione, quella dei nati dopo la guerra, ha respirato, mangiato e bevuto da quando è venuta al mondo, in siffatte boccaccesche vicende subiva un crollo definitivo e totale.
**********
Non furono certo più fortunati, rispetto a quelli di Gigi, gli accadimenti balneari di Massimo. La scelta di qualche disco in un juke-box galeotto consentì a Massimo di stabilire un contatto con una signora di Savona, una certa Erica, di almeno una decina di anni più avanti rispetto ai ventuno di Massimo. La savonese, nel complesso, non era male, anzi dava l’impressione di essere una donna di classe, denotando signorilità, disinvoltura ed eleganza anche quando indossava un semplice costume da bagno. Nel giro di un pomeriggio, Massimo fu letteralmente conquistato ed attratto da lei, forse anche attirato dal poter fare la sua prima esperienza amorosa con una donna più matura delle ninfette che, a Saronno, erano solite cadere facilmente ai suoi piedi.
L’immagine di Erica aveva invaso la sua mente. Lo squisito battito delle ciglia, il movimento armonioso del suo corpo gli suscitavano una profonda emozione, non riuscendo a scoprire in lei una minima imperfezione suscettibile di rompere il fascino che emanava dalle sue forme scultoree, senza che alcuna traccia dell’età comparisse su quel viso da cammeo.
Senza frapporre ulteriori indugi, dopo poche ore di conoscenza, Massimo invitò Erica a cena in un ristorante caratteristico di Albissola, forte del fatto che un’improvvisata colletta, effettuata con rapidità presso di noi, gli garantiva la possibilità di non sfigurare, potendo sperperare liberamente per essere all’altezza della sua invitata.
Durante la cena in albergo noi tre commentavamo un po’ perplessi questo repentino innamoramento di Massimo, che, in passato, si era sempre dimostrato e rivenduto come un duro nelle numerose vicende sentimentali in cui era incappato. Inoltre, per quanto lui si dichiarasse navigato nei rapporti con l’altro sesso, ci preoccupava la differenza d’età intercorrente con la sua dama, la quale, ancorché superata da poco la trentina e quantunque molto carina, lasciava trasparire l’immagine di essere una donna molto matura ed esperta e, comunque, in grado di poter dominare appieno i ventuno anni del nostro amico.
Non ci rimaneva che attendere la conclusione di quell’improvvisato connubio. Le nostre larvate perplessità non si rivelarono del tutto infondate, come avemmo modo di evincere dopo la minuziosa cronaca fornitaci da Massimo senza trascurare alcun minimo particolare della sua singolare vissuta avventura.
La cena, consumata in quel costoso ristorantino, a base di specialità di pesce ed annaffiata da un inebriante e gelidissimo “Pigato”, si svolse in perfetta intimità e reciproca corrispondenza di amabili affettuosità, con Massimo estasiato e catturato dall’ineccepibile finezza e signorilità di comportamento della sua compagna nel gestire la conversazione che aveva toccato “vertici sublimi”, spaziando su quintessenziati argomenti, (tali furono le espressioni pronunciate dal nostro compagno nel fornirci il resoconto della serata), che Massimo, ragazzo di provincia, non fu assolutamente in grado di compenetrare.
A cena ultimata, Erica si offerse di accompagnare in auto, un’Appia terza serie, il suo cavaliere per mostrargli l’appartamento di Savona, garantendogli di riaccompagnarlo ad Albissola a serata conclusa.
Grazie a tale invito, Massimo, sentendosi più a suo agio, consapevole di camminare sul terreno a lui familiare dell’incipiente epilogo scopereccio, non esitò un solo istante a cogliere al balzo quell’invitante e, al tempo stesso, intrigante opportunità calatagli, come si suol dire, su un piatto d’argento.
Durante il breve tragitto fino a Savona, il ragazzo non si curò della coltre di silenzio che era improvvisamente calata da parte di Erica, essendo troppo concentrato a pregustare il sapore dell’imminente trasgressione.
Giunti a destinazione, Erica, da perfetta anfitrione, si compiacque di accogliere, con fastosa dovizia di superalcolici, l’ospite, indugiando a raccontare spezzoni della sua vita, (“tirandola un po’ troppo in lungo”, ci disse, per onor di precisazione, Massimo), dopo essersi accomodata non sullo stesso divano su cui era andato a sedersi il nostro amico, ma su quello di fronte. Il che contribuì a raggelare momentaneamente le ambizioni lascive di Massimo che, mediante abile e disinvolta manovra di accerchiamento, andò, con nonchalance, ad occupare più consona postazione a fianco di Erica. Nell’attimo stesso in cui con un braccio cercò di cingerle garbatamente le spalle, questa, con mossa felina, scattò in piedi, urlando con smodata arroganza:
“Ma cosa ti sei messo in testa? Con chi credi di avere a che fare? Mica sono una donna di strada!”,
“Ma, veramente, sei tu che mi hai fatto capire …….”, osò controbattere timidamente Massimo,
“No! Non hai capito niente!”,
“Cosa devo capire? Mi hai invitato qui! Siamo soli ….. Pensavo che …… “,
“No, no! Lascia che ti spieghi”, lo interruppe Erica divenuta più calma e riacquistando la sua consueta classe e signorilità che tanto aveva impressionato favorevolmente Massimo.
“Massimo, tu sei un bel fanciullo e questo è quanto importa e desidero che tu divenga il mio compiacente amico. Vuoi?”.
“Ma, non capisco, prima non hai voluto……….”,
“Insomma, fai uno sforzo….. vienimi incontro ……”.
Ancora una volta Massimo cadde nel fraintendimento più clamoroso, tentando di andare verso Erica.
“No! Continui a non voler capire! Senti, tu sei uno splendido ragazzo. Senza che tu te ne accorga, sei in grado di catalizzare l’attenzione di tante donne ed è a queste che, grazie a te, voglio arrivare! ….” .
Come uscendo improvvisamente alla luce, superato un banco di nebbia, uno squarcio di intuizione lacerò con violenza e con effetto vistoso e impressionante la mente del meschino saronnese, con conseguente, immediato blocco dell’epiglottide.
Neppure un doveroso ed appropriato “gulp” uscì dalla sua bocca.
Come un automa, in un battibaleno, Massimo si trovò alla fermata dell’autobus di linea percorrente la tratta Savona – Albissola, rientrando, frastornato, intontito e confuso, nell’accogliente hotel Wanda.
Ci concluse il suo racconto con un impensabile e stravagante excursus sull’anomalia del comportamento sessuale della donna consistente nella ricerca e nel soddisfacimento del piacere erotico con persone del proprio sesso.
Completamente allibiti, ci consolammo tutti al pensiero che solo due giorni ci dividevano dal momento di far ritorno al nostro natio borgo saronnese.
Non bastavano il contorcimento del twist, dello shake, il rimbambimento dello hully-gully ed il deplorevole contatto fisico del “mattone” a coercizzare noi giovani di quegli anni ’60, fu necessario che si aprisse pure un nuovo capitolo della scostumatezza.
**********
La mattina dopo, mentre tutti e quattro poltrivamo con neghittosa inerzia sulle sdraio della spiaggia, si rifece viva Cinzia nella sua statuaria bellezza, venendo a sedersi sulla sabbia vicino a noi.
Ebbi la sgradevole impressione che fosse ancora più alta di quanto mi era sembrato due giorni prima in occasione del primo incontro. Si mise a parlare con noi con estrema semplicità e amabile cordialità, assumendo un comportamento che ispirava confidenza, senza fare riferimento alcuno al disgraziato episodio del moscone che mi aveva visto protagonista: la qual cosa contribuì a farmela apparire più gradita. Respinse l’invito rivoltole dai miei compagni di immergersi con loro nell’invitante acqua blu di un mare calmissimo, giustificando il suo rifiuto con la necessità di dovermi parlare.
Mi domandai per quale ragione si dimostrasse così insensibile alle più appariscenti doti di bellezza e gagliardia di Gigi, Ottavio e Massimo, i quali, quanto meno, la uguagliavano in altezza.
Rimasti soli, dopo qualche minuto di silenzio, forse impressionata dal mio atteggiamento estremamente guardingo nei suoi confronti, (paventavo qualche altra diabolica proposta da parte sua che avesse ancora attinenza con le barche), mi rivolse la seguente profferta:
“Stasera, in paese, inaugurano un nuovo locale chiamato “La Lanterna”, sai una specie di piccolo night con orchestra. Mi farebbe piacere se tu ci venissi con me”.
La tarpai subito, senza lasciarla proseguire:
“Ma, Cinzia, perché dovrei espormi al ridicolo? Ti immagini gli sfottò dei presenti quando ci vedranno ballare. Bella coppia: l’amazzone ed il nano. No grazie Cinzia”,
“Ma io non ti obbligherei a ballare con me, ce ne stiamo seduti a un tavolino per ascoltare la musica. L’orchestra viene dalle tue parti……”,
“Dalle mie parti?”,
“Sì, si tratta del complesso di Raf Montrasio, un ex componente della famosa band di Carosone”.
Il richiamo delle persone note e familiari contribuirono a farmi valutare con più accondiscendenza la proposta di Cinzia. In effetti, considerato il legame venuto a crearsi al dancing Cadorna con tale complesso, mi trovai nella situazione positiva di dover andare in un luogo nel quale avrei potuto sentirmi un po’ a mio più totale agio. Riflettei ancora un momento e poi, per non dichiararle subito la mia disponibilità ad aderire al suo invito, presi tempo, dicendo:
“Se vengo io, guarda che mi seguiranno anche Gigi, Ottavio e Massimo”,
“Ma non c’è alcun problema! Trascorreremo una serata piacevole non disgiunta dalla possiblità che avremo di rimanere un po’ soli nella mia auto quando avremo lasciato il locale”.
Quest’ultima frase, auspice di un interessante epilogo, costituì la goccia che fece traboccare il vaso in favore di una mia accettazione ad affrontare questa che poteva considerarsi l’ultima avventura di Albissola, prima di far ritorno a Saronno nell’accogliente ed ovattato Cadorna.
La fanciulla mi piaceva e l’ipotesi di godere un’intrigante intimità con lei senza più preoccuparmi della differenza di statura, mi attraeva enormemente, pur senza preventivare quali sarebbero potuti essere i limiti di sconfinamento che mi sarebbero stati consentiti durante la promettente circostanza di concludere la serata con lei.
Entrando nel locale, mi resi conto che Cinzia aveva prudentemente prenotato un tavolo a due per me e per lei, mentre gli altri miei amici andavano a sistemarsi in un angolino in prossimità del bar.
Gigi, Ottavio e Massimo erano già scesi in pista, appropriandosi di tre fanciulle isolate che dimostravano la loro voglia di essere invitate a danzare sulle note di un lento accattivante.
Cinzia, consapevole delle promesse fattemi, arrischiò una timida proposta:
“Sei sicuro che proprio non vuoi ballare?”.
Ignorai quella sua domanda preferendo obnubilarmi con un amaro servitomi con abbondante ghiaccio. Intanto un manipolo di playboy si erano proposti a Cinzia invitandola a ballare, mentre lei, in perfetta coerenza con quanto promessomi, rifiutava di scendere in pista. Ciò che mi meravigliò fu la consumazione ordinata da Cinzia: un wisky doppio, la cui incidenza, al momento del conto, sarebbe stata notevolmente impegnativa per me che, per l’occasione, disponevo di sole diecimila lire. Al primo ne fece seguire un secondo, mentre Lillo, il cantante del complesso che io conoscevo bene, durante una pausa dell’orchestra, portandosi una sedia, venne a sedersi al nostro tavolo, mostrando di conoscere molto bene Cinzia, a cui si rivolgeva assai confidenzialmente. Non mi fu necessario, pertanto, effettuare le presentazioni del caso, perché Lillo mi precedette dicendo:
“Sai, Dario, Cinzia ed io abbiamo avuto una piccola storia l’estate scorsa quando eravamo impegnati al “Nautilus” di Varazze. Non sapevo che vi conosceste”.
Come un’Erinni infuriata Cinzia interruppe la conversazione, rovesciando addosso a Lillo una sfilza di improperi:
“Sei un buffone, un manichino impomatato! Sai quanto se ne frega Dario di quella che tu chiami storia! Mi hai usata, ingannata e imbrogliata! Sei un verme!”.
Mentre Lillo cercava, senza alcun successo, di calmarla, io avrei voluto sprofondare sotto il tavolo perché, dato il tono elevato ed il grado di intensità della voce di Cinzia, tutti i presenti guardavano e seguivano la scena litigiosa con molto interesse e pruriginosa attenzione, convinti che Cinzia fosse l’oggetto del contendere tra me e Lillo, il quale, per fortuna, fu richiamato sulla pedana a continuare il suo ruolo di cantante rubacuori.
Incurante della differenza di statura, attraversai la sala, trascinando Cinzia totalmente in preda ad una crisi nervosa accentuata da un leggero, ma evidente etilismo. Saldai il conto ammontante a ottomilanovecentocinquanta lire, seguito dai miei tre compagni che mi aiutarono ad adagiare Cinzia sul sedile posteriore della sua millecento. Nelle condizioni in cui era non potevamo lasciarle correre il rischio di guidare fino a Savona. Per convincerla a cedere ad Ottavio la funzione di autista momentaneo, fummo costretti ad ascoltare un dettagliato resoconto della sua intricata vicenda con Lillo, pronunciato con grande difficoltà di eloquio a causa del tasso alcolico ingerito.
La solita banale storia della ragazza che si illude, che prima la dà e poi, delusa, si pente di averla data.
Finalmente alle due del mattino la depositammo sulla porta d’ingresso della sua abitazione, dopo averle introdotto in borsetta le chiavi dell’auto debitamente parcheggiata sul piazzale antistante.
A quell’ora non esisteva più alcun autobus di linea, per cui, con strepitosa disinvoltura, ci accingemmo a percorrere a piedi i cinque chilometri che separavano Savona dal nostro albergo di Albissola, incapaci di pronunziare qualsivoglia suono articolato che costituisse la parola, in un ostinato atteggiamento di mutismo, ma, al tempo stesso, confortati dall’idea che, tra una dozzina di ore, ci saremmo reinseriti nel consueto contesto “cadorniano”.
Siccome la sapevamo lunga, o credevamo di saperla lunga, eravamo, però, anche moderni e disincantati e non ci sfuggiva che un’ “affettuosa amicizia” tra un uomo e una donna comportasse amplessi tanto furiosamente passionali, quanto poco destinati a raggiungere il traguardo del “finché morte non vi separi”, così consueto nei film di Hollywood che imperversavano durante quella nostra vacillante generazione.
21 gennaio 2005
Roberto Gennaro - Le fate tramandano
Premio letterario 'Provincia cronica' prima edizione
Roberto Gennaro - Le fate tramandano
Venticinque anni, l’età giusta per staccarsi dall’unità familiare, dalle coccole di mamma, dai tempi di papà. Il lavoro andava piuttosto bene, le provvigioni sulla vendita e sulla locazione degli immobili in quei tempi di fervido mercato mi consentivano una solida tranquillità economica. In cinque anni di case ne avevo girate un sacco, e mentre le visitavo per il mandato o quando, successivamente, accompagnavo un potenziale acquirente, mi veniva naturale proiettare una mia ambientazione domestica in quei luoghi. Mi immedesimavo in un io a misura di quegli ambienti, come se fossero proprio quelli deputati ad accogliere il mio futuro nido. Il paragone con la vita vissuta con i genitori era altrettanto inevitabile, e fino al giorno galeotto in cui visitai la mansarda di vicolo Givello l’agio familiare l’ebbe vinta.
Accompagnavo una coppia di studenti della facoltà di Architettura, erano i primi di settembre e il loro vecchio padrone di casa li aveva cacciati per riaffittare l’appartamento ad un cugino della moglie. Pagavano la pigione in nero, senza un contratto da far valere le parole contavano ben poco. Avevano preferito non inveire contro di lui né piangersi addosso, risolvendosi a trovare al più presto, prima dell’inizio delle lezioni autunnali, un luogo in cui trasferirsi, magari comodo alla sede della facoltà. Avevo ricevuto il mandato per locare la mansarda del civico 5 di via Givello da una signora anziana che vi aveva abitato per cinquantasei anni. La salute e le gambe malferme non le consentivano di affrontare i lunghi e stretti rampanti delle scale più di una volta al giorno, e spesso era costretta a farsi portare la spesa a domicilio. Pressata dai figli, si era risolta a trasferirsi vicino alla dimora della più grande, un appartamento a piano terra in riviera, comodo a mezzi e servizi.
C’era stato un principio di battibecco tra noi: le avevo prospettato l’idea di vendere l’immobile per trarne benefici maggiori e più rapidi. Peraltro, ciò facendo, avrei ottenuto una provvigione più cospicua. Aveva replicato seccamente che la casa, eredità di sua nonna, non era vendibile finché lei fosse stata in vita. Successivamente i figli avrebbero disposto come più confaceva loro. Accettai il mandato per la locazione, fissai il mio compenso a trattative completate e le dissi che l’avrei chiamata quanto prima per portare potenziali affittuari a vedere la casa.
Pochi giorni dopo mi trovai con i due universitari davanti al vecchio portone dell’edificio, verniciato con uno smalto verde brillante che palesava l’insufficiente carteggiatura del sottostante antico rivestimento. Suonai alla signora, avvertita in precedenza, e salimmo quegli interminabili gradini in ardesia. Erano talmente consumati dall’usura da essere arrotondati sulla testa della pedata. In discesa si sarebbe dovuto prestare molta attenzione a non scivolare e mentre mi arrampicavo mi figuravo la proprietaria che affrontava quel cimento da così tanti anni, ogni santo giorno.
La mansarda era costituita da un soggiorno con cucina, una camera matrimoniale, una cameretta più piccola ed un minuscolo bagno. L’ambiente era ordinato e profumato, quell’odore di candeggina e sapone di Marsiglia di cui sono intrisi i pavimenti in mattonelle di cemento dei palazzi più vecchi del centro storico.
Notai che il soggiorno era illuminato da una porta finestra, chiesi il permesso alla signora e l’aprii, scoprendo un abbaino versante su un’ampia terrazza. La vista sul mare dominò i miei sensi, rapiti e catturati dalla luce del sole che era quasi al suo apice, erano le 11.30. La terrazza era contenuta dalle mura degli edifici adiacenti. Sui due lati contrapposti, più alti del suo livello di un piano, si scorgevano le ardesie di copertura degli altri tetti.
Un osservatorio tra un nido di tegole, quasi fosse l’obiettivo di un regista alla ricerca dell’inquadratura perfetta sul fronte del porto e più in là, verso l’orizzonte. Sconcertato per quello scorcio visivo, la percezione successiva fu il rapido cambiamento olfattivo, un nuovo profumo che si sostituì a quello delle cose pulite. Intenso, ma delicato. Sfiorava i sensi, avvicinandosi lento e poi scuotendoli violentemente. Attirava l’attenzione, distratta dalla vista sul mare. Direzionai il mio naso verso la fonte di quel profumo. Nell’angolo sinistro della ringhiera della terrazza vidi una pertica ed un tralcio sul quale era abbracciata una pianta che pareva rampicante, dai fiori violacei, un poco avvizziti. S’inerpicava affondando le radici in una grossa conca zincata riempita di terriccio, per metà incastrata nel solaio della terrazza.
Cercai nei gangli della memoria un nome per quella pianta, alle elementari avevamo organizzato un erbario e…sì! “Glicine!!” esclamai convinto, voltandomi verso la signora ed i ragazzi. Lei scoppiò in una risata ragazzina, e fece “Oh mondo, oh mondo!!” rovesciando il suo sorriso nella mia vergogna. Avevo toppato alla grande, lo riconobbi a me stesso e risi a mia volta, per contagio. “Giovane ragazzo di città!” interruppe la signora, “Quello non è glicine, anche se fa parte di quella famiglia di piante” continuò. “Probabilmente sei stato tratto in inganno dalla pertica”, cercò di giustificarmi, e mi spiegò che a differenza del glicine quella non era una pianta rampicante, era stata legata al tralcio da sua nonna che l’aveva trapiantata in quel luogo e di cui si era presa cura ogni giorno, per tutta la vita. Lei stessa l’aveva ereditata e se ne era presa regolarmente cura per tutti quegli anni. La potava periodicamente perché non si espandesse lateralmente offuscando la vista sul mare e non superasse il livello del tetto adiacente. La ringraziai per la spiegazione e a quel punto tanto valeva chiederle quale fosse il nome di quella pianta dal profumo di miele. “È Lillà, giovanotto. Syringa Vulgaris, o più semplicemente Lillà”. Compiaciuto dall’identificazione, il pensiero ritornò sulle sensazioni provate su quella terrazza. I clienti mi fecero cenno di scendere, salutammo la signora e rientrammo in agenzia. Mi dissero che l’appartamento era vecchio e scomodo. Non vollero sapere nemmeno la richiesta di pigione, li portai a vedere un altro appartamento del mio portafoglio trattative e concludemmo su quest’ultimo.
La sera, rientrando dai miei, mi figurai il tramonto visto da quella terrazza. Cambiai la mia vita nello spazio di pochi minuti, presi la decisione che tanto avevo rimandato e pochi giorni dopo affrontai il trasloco nella nuova mansarda. Trasportai solo le necessità personali, i mobili sarebbero rimasti in luogo, la proprietaria non aveva intenzione di tenerseli. Forse, nella sua concezione, essi erano casa quanto i muri dell’abitazione. Concludemmo il contratto, triennale. Dopo aver firmato la signora cavò dalla borsa due mazzi di chiavi, me le porse e sorrise. Non una risata come quella di simil derisione dovuta al misunderstanding sul nome della pianta, che ancora ricordavo. Questo era un sorriso compiacente, come quelli che le persone fanno quando sanno di aver agito seguendo il karma, sulla rotta del sentiero tracciato da un dito del destino nelle vicende umane. “Abbia cura del lillà” si premurò di dirmi, “è un esemplare molto antico e dà profumo e gioia nella misura in cui riceve”.
Faticai non poco ad abituarmi alla vita da single. Dopo un periodo di rodaggio raggiunsi ritmi di vita accettabili e mi organizzai in modo da non dover praticare le scale troppe volte in un giorno solo. Imparai a scenderle al volo, la paura di scivolare passò una volta constatata la misura delle alzate ed adeguato il ritmo di discesa. Comprai un divano da esterni, lo incastrai nel lato sinistro della terrazza, contro la pianta di Lillà, i cui petali sfiorivano lentamente decorando l’ecru del rivestimento in tessuto. La sera, fino a quando le temperature l’avevano concesso, ero solito sedermi sul divano a leggere uno dei libri della mia riserva. Ad ovest, destra della terrazza, il sole calava, ogni giorno sempre più vicino.
L’autunno era ormai inoltrato, il Lillà completamente sfiorito.
Passò l’inverno, più caldo di quelli passati, non nevicò neppure una volta. Gli affari stagnavano, la solita pausa dei mesi freddi. Il mercato si sarebbe ripreso al ritorno delle belle giornate più miti.
Una volta alla settimana andavo a cena dai miei, ma la loro non era più casa mia. Non sentivo più mie quelle stanze, quei profumi. Vedere i miei genitori era piacevole, ma tiravo un sospiro lungo dopo aver corso le scale ed aperto la porta della mia mansarda.
Verso la fine di febbraio, la mattina, facendo colazione, presi l’abitudine di monitorare la pianta di Lillà. Avevo cercato di curarmene sistematicamente, annaffiandola con regolarità e potando le appendici più lunghe nei tempi di luna calante, come mi aveva suggerito la padrona di casa. Volevo scorgere fin dal primo giorno il progredire della prossima fioritura.
Vidi le prime gemme diventare grappoli, poi la pianta si inebriò e fu il pieno sbocciar di colori e profumi. All’inizio della primavera la terrazza divenne un tripudio sensoriale, mi dava un equilibrio interiore ed una centratura rispetto all’universo mai provati prima di allora.
Il ventiquattro di marzo compii venticinque anni, festeggiai con una pizzata tra amici, poi ci trasferimmo in un locale a Levante. Passai il resto della serata a colloquiare con una ragazza di bell’aspetto, conosciuta su presentazione di uno dei miei amici. Discorsi saltellanti, briosi, ci scoprimmo nello spazio di poche ore, ed entrambi percepimmo quell’alchimia che albeggia solo quando due anime sole riflettono la stessa luce.
Mi offrii di accompagnarla a casa, abitava nell’entroterra. All’imbocco dell’autostrada cambiò idea: “Portami da te”.
Facemmo l’amore a lungo, traendo un piacere estatico e calmo, come il caos delle passioni fugaci e leggere, ma intrise dalla complicità di chi si conosce da molto ed usato tempo. Non riuscii ad addormentarmi. Poco prima dell’alba mi alzai dal letto ed andai alla finestra del soggiorno, l’aprii e uscii sulla terrazza.
Dopo tanti tramonti era giusto concedersi un’alba e il mattino successivo all’amore pareva dipinto a misura e compimento del piacere.
Un bacio sfiorato sulla spalla, si era alzata anche lei. Mi abbracciò da dietro intrecciando le dita sul mio petto e si appoggiò con la guancia contro la mia, ancora ispida di barba.
Sorse il sole, come un pulcino dal guscio uscì dal mare fradicio, poi si asciugò nel sereno, all’inizio dell’arco di quel giorno.
Fu ancora amore, sul divano esterno, sotto al Lillà.
Mi resi conto che in tutta la serata e la notte precedente avevo conosciuto tutta la sua pelle e soppesato compiacente le sue emozioni, fuse con le mie nell’istmo di sogno della perfetta identità, eppure non mi sovveniva il suo nome.
Lo percepivo fuggevole, un’eco lontana venuta dal mare, lo sentivo come conosciuto da lungo tempo, sicuro per i miei sensi come fosse un profumo già amico, di casa.
Glielo chiesi,con il timore di chi si appresta ad un ricordo.Mi rispose, con un bacio sussurrato a fior delle mie labbra: “Serenella"
Roberto Gennaro - Le fate tramandano
Venticinque anni, l’età giusta per staccarsi dall’unità familiare, dalle coccole di mamma, dai tempi di papà. Il lavoro andava piuttosto bene, le provvigioni sulla vendita e sulla locazione degli immobili in quei tempi di fervido mercato mi consentivano una solida tranquillità economica. In cinque anni di case ne avevo girate un sacco, e mentre le visitavo per il mandato o quando, successivamente, accompagnavo un potenziale acquirente, mi veniva naturale proiettare una mia ambientazione domestica in quei luoghi. Mi immedesimavo in un io a misura di quegli ambienti, come se fossero proprio quelli deputati ad accogliere il mio futuro nido. Il paragone con la vita vissuta con i genitori era altrettanto inevitabile, e fino al giorno galeotto in cui visitai la mansarda di vicolo Givello l’agio familiare l’ebbe vinta.
Accompagnavo una coppia di studenti della facoltà di Architettura, erano i primi di settembre e il loro vecchio padrone di casa li aveva cacciati per riaffittare l’appartamento ad un cugino della moglie. Pagavano la pigione in nero, senza un contratto da far valere le parole contavano ben poco. Avevano preferito non inveire contro di lui né piangersi addosso, risolvendosi a trovare al più presto, prima dell’inizio delle lezioni autunnali, un luogo in cui trasferirsi, magari comodo alla sede della facoltà. Avevo ricevuto il mandato per locare la mansarda del civico 5 di via Givello da una signora anziana che vi aveva abitato per cinquantasei anni. La salute e le gambe malferme non le consentivano di affrontare i lunghi e stretti rampanti delle scale più di una volta al giorno, e spesso era costretta a farsi portare la spesa a domicilio. Pressata dai figli, si era risolta a trasferirsi vicino alla dimora della più grande, un appartamento a piano terra in riviera, comodo a mezzi e servizi.
C’era stato un principio di battibecco tra noi: le avevo prospettato l’idea di vendere l’immobile per trarne benefici maggiori e più rapidi. Peraltro, ciò facendo, avrei ottenuto una provvigione più cospicua. Aveva replicato seccamente che la casa, eredità di sua nonna, non era vendibile finché lei fosse stata in vita. Successivamente i figli avrebbero disposto come più confaceva loro. Accettai il mandato per la locazione, fissai il mio compenso a trattative completate e le dissi che l’avrei chiamata quanto prima per portare potenziali affittuari a vedere la casa.
Pochi giorni dopo mi trovai con i due universitari davanti al vecchio portone dell’edificio, verniciato con uno smalto verde brillante che palesava l’insufficiente carteggiatura del sottostante antico rivestimento. Suonai alla signora, avvertita in precedenza, e salimmo quegli interminabili gradini in ardesia. Erano talmente consumati dall’usura da essere arrotondati sulla testa della pedata. In discesa si sarebbe dovuto prestare molta attenzione a non scivolare e mentre mi arrampicavo mi figuravo la proprietaria che affrontava quel cimento da così tanti anni, ogni santo giorno.
La mansarda era costituita da un soggiorno con cucina, una camera matrimoniale, una cameretta più piccola ed un minuscolo bagno. L’ambiente era ordinato e profumato, quell’odore di candeggina e sapone di Marsiglia di cui sono intrisi i pavimenti in mattonelle di cemento dei palazzi più vecchi del centro storico.
Notai che il soggiorno era illuminato da una porta finestra, chiesi il permesso alla signora e l’aprii, scoprendo un abbaino versante su un’ampia terrazza. La vista sul mare dominò i miei sensi, rapiti e catturati dalla luce del sole che era quasi al suo apice, erano le 11.30. La terrazza era contenuta dalle mura degli edifici adiacenti. Sui due lati contrapposti, più alti del suo livello di un piano, si scorgevano le ardesie di copertura degli altri tetti.
Un osservatorio tra un nido di tegole, quasi fosse l’obiettivo di un regista alla ricerca dell’inquadratura perfetta sul fronte del porto e più in là, verso l’orizzonte. Sconcertato per quello scorcio visivo, la percezione successiva fu il rapido cambiamento olfattivo, un nuovo profumo che si sostituì a quello delle cose pulite. Intenso, ma delicato. Sfiorava i sensi, avvicinandosi lento e poi scuotendoli violentemente. Attirava l’attenzione, distratta dalla vista sul mare. Direzionai il mio naso verso la fonte di quel profumo. Nell’angolo sinistro della ringhiera della terrazza vidi una pertica ed un tralcio sul quale era abbracciata una pianta che pareva rampicante, dai fiori violacei, un poco avvizziti. S’inerpicava affondando le radici in una grossa conca zincata riempita di terriccio, per metà incastrata nel solaio della terrazza.
Cercai nei gangli della memoria un nome per quella pianta, alle elementari avevamo organizzato un erbario e…sì! “Glicine!!” esclamai convinto, voltandomi verso la signora ed i ragazzi. Lei scoppiò in una risata ragazzina, e fece “Oh mondo, oh mondo!!” rovesciando il suo sorriso nella mia vergogna. Avevo toppato alla grande, lo riconobbi a me stesso e risi a mia volta, per contagio. “Giovane ragazzo di città!” interruppe la signora, “Quello non è glicine, anche se fa parte di quella famiglia di piante” continuò. “Probabilmente sei stato tratto in inganno dalla pertica”, cercò di giustificarmi, e mi spiegò che a differenza del glicine quella non era una pianta rampicante, era stata legata al tralcio da sua nonna che l’aveva trapiantata in quel luogo e di cui si era presa cura ogni giorno, per tutta la vita. Lei stessa l’aveva ereditata e se ne era presa regolarmente cura per tutti quegli anni. La potava periodicamente perché non si espandesse lateralmente offuscando la vista sul mare e non superasse il livello del tetto adiacente. La ringraziai per la spiegazione e a quel punto tanto valeva chiederle quale fosse il nome di quella pianta dal profumo di miele. “È Lillà, giovanotto. Syringa Vulgaris, o più semplicemente Lillà”. Compiaciuto dall’identificazione, il pensiero ritornò sulle sensazioni provate su quella terrazza. I clienti mi fecero cenno di scendere, salutammo la signora e rientrammo in agenzia. Mi dissero che l’appartamento era vecchio e scomodo. Non vollero sapere nemmeno la richiesta di pigione, li portai a vedere un altro appartamento del mio portafoglio trattative e concludemmo su quest’ultimo.
La sera, rientrando dai miei, mi figurai il tramonto visto da quella terrazza. Cambiai la mia vita nello spazio di pochi minuti, presi la decisione che tanto avevo rimandato e pochi giorni dopo affrontai il trasloco nella nuova mansarda. Trasportai solo le necessità personali, i mobili sarebbero rimasti in luogo, la proprietaria non aveva intenzione di tenerseli. Forse, nella sua concezione, essi erano casa quanto i muri dell’abitazione. Concludemmo il contratto, triennale. Dopo aver firmato la signora cavò dalla borsa due mazzi di chiavi, me le porse e sorrise. Non una risata come quella di simil derisione dovuta al misunderstanding sul nome della pianta, che ancora ricordavo. Questo era un sorriso compiacente, come quelli che le persone fanno quando sanno di aver agito seguendo il karma, sulla rotta del sentiero tracciato da un dito del destino nelle vicende umane. “Abbia cura del lillà” si premurò di dirmi, “è un esemplare molto antico e dà profumo e gioia nella misura in cui riceve”.
Faticai non poco ad abituarmi alla vita da single. Dopo un periodo di rodaggio raggiunsi ritmi di vita accettabili e mi organizzai in modo da non dover praticare le scale troppe volte in un giorno solo. Imparai a scenderle al volo, la paura di scivolare passò una volta constatata la misura delle alzate ed adeguato il ritmo di discesa. Comprai un divano da esterni, lo incastrai nel lato sinistro della terrazza, contro la pianta di Lillà, i cui petali sfiorivano lentamente decorando l’ecru del rivestimento in tessuto. La sera, fino a quando le temperature l’avevano concesso, ero solito sedermi sul divano a leggere uno dei libri della mia riserva. Ad ovest, destra della terrazza, il sole calava, ogni giorno sempre più vicino.
L’autunno era ormai inoltrato, il Lillà completamente sfiorito.
Passò l’inverno, più caldo di quelli passati, non nevicò neppure una volta. Gli affari stagnavano, la solita pausa dei mesi freddi. Il mercato si sarebbe ripreso al ritorno delle belle giornate più miti.
Una volta alla settimana andavo a cena dai miei, ma la loro non era più casa mia. Non sentivo più mie quelle stanze, quei profumi. Vedere i miei genitori era piacevole, ma tiravo un sospiro lungo dopo aver corso le scale ed aperto la porta della mia mansarda.
Verso la fine di febbraio, la mattina, facendo colazione, presi l’abitudine di monitorare la pianta di Lillà. Avevo cercato di curarmene sistematicamente, annaffiandola con regolarità e potando le appendici più lunghe nei tempi di luna calante, come mi aveva suggerito la padrona di casa. Volevo scorgere fin dal primo giorno il progredire della prossima fioritura.
Vidi le prime gemme diventare grappoli, poi la pianta si inebriò e fu il pieno sbocciar di colori e profumi. All’inizio della primavera la terrazza divenne un tripudio sensoriale, mi dava un equilibrio interiore ed una centratura rispetto all’universo mai provati prima di allora.
Il ventiquattro di marzo compii venticinque anni, festeggiai con una pizzata tra amici, poi ci trasferimmo in un locale a Levante. Passai il resto della serata a colloquiare con una ragazza di bell’aspetto, conosciuta su presentazione di uno dei miei amici. Discorsi saltellanti, briosi, ci scoprimmo nello spazio di poche ore, ed entrambi percepimmo quell’alchimia che albeggia solo quando due anime sole riflettono la stessa luce.
Mi offrii di accompagnarla a casa, abitava nell’entroterra. All’imbocco dell’autostrada cambiò idea: “Portami da te”.
Facemmo l’amore a lungo, traendo un piacere estatico e calmo, come il caos delle passioni fugaci e leggere, ma intrise dalla complicità di chi si conosce da molto ed usato tempo. Non riuscii ad addormentarmi. Poco prima dell’alba mi alzai dal letto ed andai alla finestra del soggiorno, l’aprii e uscii sulla terrazza.
Dopo tanti tramonti era giusto concedersi un’alba e il mattino successivo all’amore pareva dipinto a misura e compimento del piacere.
Un bacio sfiorato sulla spalla, si era alzata anche lei. Mi abbracciò da dietro intrecciando le dita sul mio petto e si appoggiò con la guancia contro la mia, ancora ispida di barba.
Sorse il sole, come un pulcino dal guscio uscì dal mare fradicio, poi si asciugò nel sereno, all’inizio dell’arco di quel giorno.
Fu ancora amore, sul divano esterno, sotto al Lillà.
Mi resi conto che in tutta la serata e la notte precedente avevo conosciuto tutta la sua pelle e soppesato compiacente le sue emozioni, fuse con le mie nell’istmo di sogno della perfetta identità, eppure non mi sovveniva il suo nome.
Lo percepivo fuggevole, un’eco lontana venuta dal mare, lo sentivo come conosciuto da lungo tempo, sicuro per i miei sensi come fosse un profumo già amico, di casa.
Glielo chiesi,con il timore di chi si appresta ad un ricordo.Mi rispose, con un bacio sussurrato a fior delle mie labbra: “Serenella"
20 gennaio 2005
Gerardo Pedicini - Quel lontano mattino del 18 giugno 1918
Premio letterario 'Provincia cronica' prima edizione
Gerardo Pedicini - Quel lontano mattino del 18 giugno 1918
Dopo un continuo metti e togli, finì per scegliere una vesticciuola di cotone a righini bianchi e blu. Le linee orizzontali del carré la facevano apparire più in carne di quanto in verità non fosse. Per accentuare le rotondità dei fianchi, si strinse a più non posso la cinta in vita. Dopo essersi in lungo e in largo ammirata nello specchio, tutta contenta si disse: «Ora sì. Può andare.»
Appena la vide spuntare sulle scale, Emilio le disse:
«Dove credi di andare vestita in pompa magna?»
«A Benevento! Perché non si vede?» gli fece subito eco lei; e, per evitarsi nuove punzecchiature, salì sulla carrozzella, sistemandosi all’ombra del mantice. Il viso le ardeva come fuoco.
Alla partenza mancava solo Alessandro. Era ancora su, in cucina, con la mamma. Finalmente apparve sulle scale ma non si decideva a scendere. Da giù Emilio gli disse: «Che aspetti? È tardi.» Quando fu sulla soglia del portone, Alessandro si fermò a fissare ogni angolo del cortile. Era sul punto di piangere. Emilio gli andò vicino, e: «Su, su, dai. Eugenio aspetta da un’ora.» Alessandro alzò lo sguardo verso la finestra della cucina. Era chiusa. Mamma Maria Giovanna non se l’era sentita di affacciarsi.
La carrozzella incominciò lentamente a muoversi. Ad ogni intoppo delle ruote, il pianale traballava. Andò avanti così finché non si fu sulla provinciale. Qui, le ruote presero a scivolare leggere sulla carreggiata alzando rasenti nuvolette di polvere che subito scomparivano nell’aria di vetro di quel lontano mattino del 18 giugno 1918.
Si filava tra una distesa di campi di grano, macchiati qui e là da terrazze di viti e da fitti querceti che salivano verso la montagna. Nella piana, dopo la pioggia del giorno prima, il verde splendente dei pioppi si stringeva intorno alla linea serpeggiante del fiume e sembrava sovrastare la marea di granturco, interrotta dai tetti di sperdute masserie.
Fino al bivio di Torrecuso si andò avanti col vento che scendeva dalla montagna. Subito dopo la biforcazione, la strada sprofondò tra due filari di platani. Attraverso il fitto fogliame il sole proiettava chiazze di luci e ombre e, ad ogni tratto, il manto dei cavalli ne usciva variamente pezzato. Se non fosse stato per qualche uggiolio lontano e per le lucertole che se ne stavano asserragliate tra gli incavi delle pietre placide e sonnacchiose a godersi il tepore dell’aria mattutina, pareva proprio muoversi in una bolla d’aria.
Benevento era ancora lontana. Per quanto Assuntina si industriasse a cercarla con gli occhi, non riusciva proprio a individuarla nella fitta trama di alberi e di colli che si apriva davanti a lei. Sembrava che si fosse volatilizzata.
Si continuava a correre nel silenzio della campagna. Usciti dallo slargo dell’abbeveratoio, le ruote ripresero a martellare il fondo stradale dissestato e il dondolante pianale iniziò nuovamente ad alzare lamentosi scricchiolii, finché non si arrivò al ponte. La pioggia dei giorni passati aveva di gran lunga ingrossato il fiume. L’acqua aveva superato gli argini.
La giovane si sporse per meglio guardare le giravolte della corrente prima che andassero a infrangersi sui piloni. Poco mancò che non precipitasse giù. Non sarebbe stato un bel salto! Avvinghiata al ferro del bracciolo, strinse istintivamente le palpebre. Le riaprì soltanto quando si attenuò lo sferruzzare degli zoccoli sul pietrisco della strada. Era dall’altra parte del ponte, sull’erta della collina che digradava verso Benevento. Tirò un sospiro di sollievo. Era fatta. L’aveva scampata. Sprofondare in quel vortice oscuro, che gorgogliava di livida spuma, per poi andare a sfracellarsi sulla muraglia dei piloni, non sarebbe stata una bella esperienza. Ancora le venivano i brividi al solo pensarci.
Arrivati al casamento della Strega, Eugenio fermò la carrozzella dietro un vicolo all’ombra. Assuntina e i fratelli attraversarono la strada ed entrarono nella stazione. C’era da lustrarsi gli occhi. Un via vai continuo. Pareva fatto apposta per far venire il capogiro. Ci si poteva anche perdere in mezzo a tutto quel trambusto. E, per non perdersi, Assuntina si tenne accosto ad Emilio, facendosene scudo. Poco distante, Alessandro si era fermato a parlare con un giovane soldato. Lei ascoltava, e taceva. Non stava in sé dal desiderio di muoversi. Voleva uscire dalla stazione, andare a passeggiare lungo i vialoni alberati. Invece doveva stare lì a sorbirsi tutto quello che il soldato diceva, senza mai toglierle gli occhi di dosso. Almeno la smettesse di fissarla. Emilio invece parlava con il comandante dei carabinieri di Vitulano. Quando veniva in paese, non mancava mai di venire, per servizio, a casa dal padre sindaco, quando non lo trovava in municipio. «Alessandro, vieni: c’è il maresciallo Mastrocinque,» disse Emilio al fratello. «Il maresciallo è di scorta al convoglio fino a Roma.» «Ci faremo compagnia,» disse il maresciallo ad Alessandro che, di botto, era diventato muto. «Viaggerai con me nella carrozza riservata ai carabinieri.» Li informò che la partenza era fissata per le quattro. Mancavano ancora all’appello le compagnie dei presidi di Montesarchio, S. Giorgio del Sannio e Frasso Telesino. Sarebbero arrivate alle tre, dopo il rancio. «Avete tempo per una passeggiata in città,» aggiunse e, rivolto alla ragazza: «Alla piccola Assuntina farà senz’altro piacere.» La giovane non stava in sé dalla gioia. Del resto, altro non c’era da fare. Poteva essere anche un utile diversivo da raccontare a mamma Maria Giovanna: le avrebbe alleviato il dispiacere della partenza di Alessandro.
Usciti dalla stazione, si misero a marciare lungo il viale. Alla fine del lungo e alberato corridoio di alberi, Assuntina vide spuntare dietro le ultime case un rosone di una chiesa. Era la cattedrale. A guardarla, c’era da perdere la testa. La facciata era grandissima e la sola torre campanaria poteva stare al posto della intera area della chiesa di S. Rocco. Ma ancor più della cattedrale, a sbalordirla fu la piazza a lato sinistro della chiesa. Intorno alla fontana, sistemate in bella evidenza c’erano centinaia di banchi del mercato. Pieni, zeppi di ogni ben di dio. Occupavano l’intera area e si prolungavano lungo la via che, in leggero pendio, scendeva verso la chiesa della Madonna delle Grazie. Sulle bancarelle c’era di tutto. Piatti, pentole di rame, cesti di vimini, stoffe, gomitoli di seta, lana grezza da cardare e, finanche, interi corredi da 100 per le spose. Si fermò alla bancarella dove erano esposte delle tovaglie di Fiandra. Alzando gli occhi, si accorse che dei giovani se la mangiavano con gli occhi. Aveva fatto colpo! Come avrebbe voluto essere insieme alle compagne che, a quell’ora, erano dalla maestra Apollonia a imparare il ricamo, e raccontare loro per filo e per segno tutto quello che le era capitato fin dal mattino! Se fosse comparsa loro improvvisamente davanti, forse nemmeno le compagne l’avrebbero riconosciuta. E infatti non la riconobbero nella foto che Emilio andò a ritirare dal fotografo la settimana dopo.
A tradire la sua giovane età, nonostante il suo stringi stringi in vita e arricciature sul petto, erano i capelli. Le cadevano a cascata sulle spalle come a una bambola e, come una bambola, portava le scarpe senza tacco. Brillavano di lacca che era un piacere.
Chi la vide passeggiare quel mattino in città, la prese per una dodicenne. Una dodicenne che si era gonfiato il pettazzolo a più non posso. «Dio mio, che tempi! Puzza ancora di latte! Buona al più per il punto a giorno,» biascicarono a denti stretti alcune vecchiette passandole davanti.
A sentirle, ad Assuntina i capelli le si rizzarono in testa. E, senza nemmeno chiedersi perché, incrociò le braccia per nascondere gli sbuffi del vestito sul petto. Si sentiva il viso bruciare dalla vergogna. Allora gli sguardi degli aponi impazziti sul corso non erano stati attirati dal suo odore di miele ma per come si era conciata? Fino ad allora se li era goduti di sottecchi ogni volta che si era fermata a specchiarsi nelle vetrine. Lo faceva a bella posta a fermarsi. Dietro di lei sentiva gli sguardi appiccicati addosso come carta moschicida. E aveva viva la sensazione che le sue due melette le si fossero gonfiate per miracolo sotto il carré, diventate improvvisamente mature. Per quelle bizzoche invece non era altro che una che puzzava ancora di latte! Le venne un moto di stizza che non riuscì a trattenere. E per tutta risposta spinse i fratelli ad entrare nel negozio del fotografo Intorcia che era sul corso.
In verità dal fotografo prima o poi ci sarebbero dovuti andare. Mamma Maria Giovanna aveva espresso il desiderio di avere il ritratto del figlio Alessandro. In attesa del suo ritorno, l’avrebbe infilato tra la cornice e lo specchio del comò, come aveva fatto con quello di Francesco.
Una volta dal fotografo, non ci volle molto ad Emilio per capire. Assuntina aveva messo un muso lungo come una vita. Sembrava che stesse lì per lì per scoppiare a piangere. E prima ancora che il vecchietto li licenziasse, Emilio gli disse che bisognava fare il ritratto anche alla sorella. La proposta fu accolta con un lampo di gioia dal fotografo che, subito aggiunse che, per quel fiore di gioventù, il fondale adoperato per Alessandro non andava bene: ce ne voleva un altro, buono solo per lei. Restò alcuni minuti col mento sospeso in aria. Che ci fosse da pensare poi non si capiva. In quella nuda stanzetta di posa non c’era proprio da scialare. Ma a guardare bene, in un angolo, arrotolato, c’era un rotolo. Il fotografo lo trascinò a centro della stanza e incominciò a srotolarlo lentamente. A poco a poco, apparve una terrazza affacciata sul mare. Sotto la luce che pioveva dal lucernario, la balaustra di ferro pareva vera, e vera la lumeggiante distesa d’acqua. Il cielo si confondeva con la coloritura violacea del mare. Attraverso i ferri, le increspature delle onde erano di un verde scaglioso che si prolungava fin sotto la linea della rena. «Questo, andrà senz’altro bene,» disse e, aiutato da Emilio, lo appese al muro. E, sotto la direzione del vecchio Intorcia, Assuntina si mise in posa. Ancora con negli occhi il lampo di magnesio Assuntina ritornò con i fratelli in pieno sole, in quel caldo senza vento che li accompagnò per tutto il tempo che girarono in lungo e in largo per Benevento.
Arrivarono alla rocca, e ridiscesero il corso per ben due volte. Il tempo non passava mai. Decisero di andare a sedersi sotto i portici del bar Pastore. La piazza era deserta. Il sole arrostiva il selciato, e dai lastroni di pietra il calore saliva fino a loro. Assuntina avrebbe desiderato consumare, in un baleno, il gelato e scendere poi verso il fiume. Ma il cameriere non si decideva mai a venire. Finalmente si presentò. Aveva un grembiule schizzato di punture di caffè. Presa l’ordinazione, scomparve e si presentò subito dopo con la guantiera. C’erano solo le tazzine di caffè per Emilio ed Alessandro. Per il gelato, Assuntina dovette attendere di veder ricomparire il tanto sospirato grembiule gallonato. Fu un gelato da favola. La ragazza se lo mise a gustare lentamente. Emilio le disse di darsi da fare, che l’ora della partenza era vicina.
Trovarono la stazione pavesata a festa. Bandiere dappertutto, e una marea di soldati; grappoli di mogli, madri, figli che si tenevano stretti stretti per non perdersi. Dalle entrate laterali continuavano a spuntare sempre nuovi drappelli. La banchina era diventata una piazza d’armi. Sul primo binario la locomotiva sbuffava come un mantice. Nel cielo si alzavano colonne di fumo grigio e denso. A tratti, lunghi fischi foravano l’aria e si rincorrevano da un punto all’altro del marciapiedi. Spinto dal vento il fumo si distendeva nel cielo come una coperta. Per paura di smarrirsi in tutto quel trambusto, Assuntina si aggrappò alla mantellina di Alessandro, e si incollò strettamente a lui affondando il naso nella stoffa ruvida: emanava un forte odore di liscivia, appena appena attenuato dai fiori di saponetta che, una volta secchi e racchiusi in sacchettini di stoffa, mamma Maria Giovanna usava mettere nell’armadio per profumare le lenzuola.
Ci fu uno strappo. Alessandro non era più con lei. Era dietro il finestrino abbassato e sventolava il fazzolettino di batista con le iniziali che lei vi aveva ricamato. Le venne da piangere. Si guardò intorno smarrita. Era come annegata negli sbuffi di fumo che parevano provenire da profondità remote. Per un attimo ebbe paura di essere sola, ma, da dietro, le arrivò la mano di Emilio. La strinse con forza. Emilio fece cenno ad Alessandro di venire a salutare un’ultima volta la sorella. Alessandro se la strinse forte forte al petto, baciandola sulla fronte. Quel bacio e quell’abbraccio le restarono impressi nella mente per tutto il tempo che ci volle ad Alessandro di ritornare dal fronte.
D’un colpo, l’aria si fece irrespirabile. La stazione era diventata una posta infernale. I sibili della locomotiva si erano fatti sempre più stridenti e penetranti. Si ripetevano ad intervalli regolari, oscuri e incomprensibili. A uno più lungo e lamentoso degli altri, seguì un irreale silenzio che fu rotto dalle note della marcia reale. La banda militare continuò a suonare finché il bilanciere iniziò lentamente a ruotare e il treno, sotto la spinta degli stantuffi, incominciò a muoversi. Si portò via nel vento la mano di Alessandro che sventolava il fazzoletto diventato uno straccetto grigio e spento tra le dita. Al rientro a casa, il compito di ragguagliare la madre toccò ad Emilio. Quanto a lei era così stanca che, come si tolse le scarpe, tirò un sospiro di sollievo e si abbandonò sulla sedia di paglia della cucina che era vicino al camino. Mamma Maria Giovanna ascoltò senza mai fare domande. Alla fine, si alzò e prese ad andare avanti e indietro nelle stanze vuote come una sonnambula. Non faceva altro da quando, dopo la disfatta di Caporetto, era arrivata la notizia che Francesco era stato dichiarato disperso. Si sedette a fianco del letto del figlio. Vi restò una notte intera. Il mattino dopo uscì dalla stanza con i capelli che si erano tinti di bianco.
Gerardo Pedicini - Quel lontano mattino del 18 giugno 1918
Dopo un continuo metti e togli, finì per scegliere una vesticciuola di cotone a righini bianchi e blu. Le linee orizzontali del carré la facevano apparire più in carne di quanto in verità non fosse. Per accentuare le rotondità dei fianchi, si strinse a più non posso la cinta in vita. Dopo essersi in lungo e in largo ammirata nello specchio, tutta contenta si disse: «Ora sì. Può andare.»
Appena la vide spuntare sulle scale, Emilio le disse:
«Dove credi di andare vestita in pompa magna?»
«A Benevento! Perché non si vede?» gli fece subito eco lei; e, per evitarsi nuove punzecchiature, salì sulla carrozzella, sistemandosi all’ombra del mantice. Il viso le ardeva come fuoco.
Alla partenza mancava solo Alessandro. Era ancora su, in cucina, con la mamma. Finalmente apparve sulle scale ma non si decideva a scendere. Da giù Emilio gli disse: «Che aspetti? È tardi.» Quando fu sulla soglia del portone, Alessandro si fermò a fissare ogni angolo del cortile. Era sul punto di piangere. Emilio gli andò vicino, e: «Su, su, dai. Eugenio aspetta da un’ora.» Alessandro alzò lo sguardo verso la finestra della cucina. Era chiusa. Mamma Maria Giovanna non se l’era sentita di affacciarsi.
La carrozzella incominciò lentamente a muoversi. Ad ogni intoppo delle ruote, il pianale traballava. Andò avanti così finché non si fu sulla provinciale. Qui, le ruote presero a scivolare leggere sulla carreggiata alzando rasenti nuvolette di polvere che subito scomparivano nell’aria di vetro di quel lontano mattino del 18 giugno 1918.
Si filava tra una distesa di campi di grano, macchiati qui e là da terrazze di viti e da fitti querceti che salivano verso la montagna. Nella piana, dopo la pioggia del giorno prima, il verde splendente dei pioppi si stringeva intorno alla linea serpeggiante del fiume e sembrava sovrastare la marea di granturco, interrotta dai tetti di sperdute masserie.
Fino al bivio di Torrecuso si andò avanti col vento che scendeva dalla montagna. Subito dopo la biforcazione, la strada sprofondò tra due filari di platani. Attraverso il fitto fogliame il sole proiettava chiazze di luci e ombre e, ad ogni tratto, il manto dei cavalli ne usciva variamente pezzato. Se non fosse stato per qualche uggiolio lontano e per le lucertole che se ne stavano asserragliate tra gli incavi delle pietre placide e sonnacchiose a godersi il tepore dell’aria mattutina, pareva proprio muoversi in una bolla d’aria.
Benevento era ancora lontana. Per quanto Assuntina si industriasse a cercarla con gli occhi, non riusciva proprio a individuarla nella fitta trama di alberi e di colli che si apriva davanti a lei. Sembrava che si fosse volatilizzata.
Si continuava a correre nel silenzio della campagna. Usciti dallo slargo dell’abbeveratoio, le ruote ripresero a martellare il fondo stradale dissestato e il dondolante pianale iniziò nuovamente ad alzare lamentosi scricchiolii, finché non si arrivò al ponte. La pioggia dei giorni passati aveva di gran lunga ingrossato il fiume. L’acqua aveva superato gli argini.
La giovane si sporse per meglio guardare le giravolte della corrente prima che andassero a infrangersi sui piloni. Poco mancò che non precipitasse giù. Non sarebbe stato un bel salto! Avvinghiata al ferro del bracciolo, strinse istintivamente le palpebre. Le riaprì soltanto quando si attenuò lo sferruzzare degli zoccoli sul pietrisco della strada. Era dall’altra parte del ponte, sull’erta della collina che digradava verso Benevento. Tirò un sospiro di sollievo. Era fatta. L’aveva scampata. Sprofondare in quel vortice oscuro, che gorgogliava di livida spuma, per poi andare a sfracellarsi sulla muraglia dei piloni, non sarebbe stata una bella esperienza. Ancora le venivano i brividi al solo pensarci.
Arrivati al casamento della Strega, Eugenio fermò la carrozzella dietro un vicolo all’ombra. Assuntina e i fratelli attraversarono la strada ed entrarono nella stazione. C’era da lustrarsi gli occhi. Un via vai continuo. Pareva fatto apposta per far venire il capogiro. Ci si poteva anche perdere in mezzo a tutto quel trambusto. E, per non perdersi, Assuntina si tenne accosto ad Emilio, facendosene scudo. Poco distante, Alessandro si era fermato a parlare con un giovane soldato. Lei ascoltava, e taceva. Non stava in sé dal desiderio di muoversi. Voleva uscire dalla stazione, andare a passeggiare lungo i vialoni alberati. Invece doveva stare lì a sorbirsi tutto quello che il soldato diceva, senza mai toglierle gli occhi di dosso. Almeno la smettesse di fissarla. Emilio invece parlava con il comandante dei carabinieri di Vitulano. Quando veniva in paese, non mancava mai di venire, per servizio, a casa dal padre sindaco, quando non lo trovava in municipio. «Alessandro, vieni: c’è il maresciallo Mastrocinque,» disse Emilio al fratello. «Il maresciallo è di scorta al convoglio fino a Roma.» «Ci faremo compagnia,» disse il maresciallo ad Alessandro che, di botto, era diventato muto. «Viaggerai con me nella carrozza riservata ai carabinieri.» Li informò che la partenza era fissata per le quattro. Mancavano ancora all’appello le compagnie dei presidi di Montesarchio, S. Giorgio del Sannio e Frasso Telesino. Sarebbero arrivate alle tre, dopo il rancio. «Avete tempo per una passeggiata in città,» aggiunse e, rivolto alla ragazza: «Alla piccola Assuntina farà senz’altro piacere.» La giovane non stava in sé dalla gioia. Del resto, altro non c’era da fare. Poteva essere anche un utile diversivo da raccontare a mamma Maria Giovanna: le avrebbe alleviato il dispiacere della partenza di Alessandro.
Usciti dalla stazione, si misero a marciare lungo il viale. Alla fine del lungo e alberato corridoio di alberi, Assuntina vide spuntare dietro le ultime case un rosone di una chiesa. Era la cattedrale. A guardarla, c’era da perdere la testa. La facciata era grandissima e la sola torre campanaria poteva stare al posto della intera area della chiesa di S. Rocco. Ma ancor più della cattedrale, a sbalordirla fu la piazza a lato sinistro della chiesa. Intorno alla fontana, sistemate in bella evidenza c’erano centinaia di banchi del mercato. Pieni, zeppi di ogni ben di dio. Occupavano l’intera area e si prolungavano lungo la via che, in leggero pendio, scendeva verso la chiesa della Madonna delle Grazie. Sulle bancarelle c’era di tutto. Piatti, pentole di rame, cesti di vimini, stoffe, gomitoli di seta, lana grezza da cardare e, finanche, interi corredi da 100 per le spose. Si fermò alla bancarella dove erano esposte delle tovaglie di Fiandra. Alzando gli occhi, si accorse che dei giovani se la mangiavano con gli occhi. Aveva fatto colpo! Come avrebbe voluto essere insieme alle compagne che, a quell’ora, erano dalla maestra Apollonia a imparare il ricamo, e raccontare loro per filo e per segno tutto quello che le era capitato fin dal mattino! Se fosse comparsa loro improvvisamente davanti, forse nemmeno le compagne l’avrebbero riconosciuta. E infatti non la riconobbero nella foto che Emilio andò a ritirare dal fotografo la settimana dopo.
A tradire la sua giovane età, nonostante il suo stringi stringi in vita e arricciature sul petto, erano i capelli. Le cadevano a cascata sulle spalle come a una bambola e, come una bambola, portava le scarpe senza tacco. Brillavano di lacca che era un piacere.
Chi la vide passeggiare quel mattino in città, la prese per una dodicenne. Una dodicenne che si era gonfiato il pettazzolo a più non posso. «Dio mio, che tempi! Puzza ancora di latte! Buona al più per il punto a giorno,» biascicarono a denti stretti alcune vecchiette passandole davanti.
A sentirle, ad Assuntina i capelli le si rizzarono in testa. E, senza nemmeno chiedersi perché, incrociò le braccia per nascondere gli sbuffi del vestito sul petto. Si sentiva il viso bruciare dalla vergogna. Allora gli sguardi degli aponi impazziti sul corso non erano stati attirati dal suo odore di miele ma per come si era conciata? Fino ad allora se li era goduti di sottecchi ogni volta che si era fermata a specchiarsi nelle vetrine. Lo faceva a bella posta a fermarsi. Dietro di lei sentiva gli sguardi appiccicati addosso come carta moschicida. E aveva viva la sensazione che le sue due melette le si fossero gonfiate per miracolo sotto il carré, diventate improvvisamente mature. Per quelle bizzoche invece non era altro che una che puzzava ancora di latte! Le venne un moto di stizza che non riuscì a trattenere. E per tutta risposta spinse i fratelli ad entrare nel negozio del fotografo Intorcia che era sul corso.
In verità dal fotografo prima o poi ci sarebbero dovuti andare. Mamma Maria Giovanna aveva espresso il desiderio di avere il ritratto del figlio Alessandro. In attesa del suo ritorno, l’avrebbe infilato tra la cornice e lo specchio del comò, come aveva fatto con quello di Francesco.
Una volta dal fotografo, non ci volle molto ad Emilio per capire. Assuntina aveva messo un muso lungo come una vita. Sembrava che stesse lì per lì per scoppiare a piangere. E prima ancora che il vecchietto li licenziasse, Emilio gli disse che bisognava fare il ritratto anche alla sorella. La proposta fu accolta con un lampo di gioia dal fotografo che, subito aggiunse che, per quel fiore di gioventù, il fondale adoperato per Alessandro non andava bene: ce ne voleva un altro, buono solo per lei. Restò alcuni minuti col mento sospeso in aria. Che ci fosse da pensare poi non si capiva. In quella nuda stanzetta di posa non c’era proprio da scialare. Ma a guardare bene, in un angolo, arrotolato, c’era un rotolo. Il fotografo lo trascinò a centro della stanza e incominciò a srotolarlo lentamente. A poco a poco, apparve una terrazza affacciata sul mare. Sotto la luce che pioveva dal lucernario, la balaustra di ferro pareva vera, e vera la lumeggiante distesa d’acqua. Il cielo si confondeva con la coloritura violacea del mare. Attraverso i ferri, le increspature delle onde erano di un verde scaglioso che si prolungava fin sotto la linea della rena. «Questo, andrà senz’altro bene,» disse e, aiutato da Emilio, lo appese al muro. E, sotto la direzione del vecchio Intorcia, Assuntina si mise in posa. Ancora con negli occhi il lampo di magnesio Assuntina ritornò con i fratelli in pieno sole, in quel caldo senza vento che li accompagnò per tutto il tempo che girarono in lungo e in largo per Benevento.
Arrivarono alla rocca, e ridiscesero il corso per ben due volte. Il tempo non passava mai. Decisero di andare a sedersi sotto i portici del bar Pastore. La piazza era deserta. Il sole arrostiva il selciato, e dai lastroni di pietra il calore saliva fino a loro. Assuntina avrebbe desiderato consumare, in un baleno, il gelato e scendere poi verso il fiume. Ma il cameriere non si decideva mai a venire. Finalmente si presentò. Aveva un grembiule schizzato di punture di caffè. Presa l’ordinazione, scomparve e si presentò subito dopo con la guantiera. C’erano solo le tazzine di caffè per Emilio ed Alessandro. Per il gelato, Assuntina dovette attendere di veder ricomparire il tanto sospirato grembiule gallonato. Fu un gelato da favola. La ragazza se lo mise a gustare lentamente. Emilio le disse di darsi da fare, che l’ora della partenza era vicina.
Trovarono la stazione pavesata a festa. Bandiere dappertutto, e una marea di soldati; grappoli di mogli, madri, figli che si tenevano stretti stretti per non perdersi. Dalle entrate laterali continuavano a spuntare sempre nuovi drappelli. La banchina era diventata una piazza d’armi. Sul primo binario la locomotiva sbuffava come un mantice. Nel cielo si alzavano colonne di fumo grigio e denso. A tratti, lunghi fischi foravano l’aria e si rincorrevano da un punto all’altro del marciapiedi. Spinto dal vento il fumo si distendeva nel cielo come una coperta. Per paura di smarrirsi in tutto quel trambusto, Assuntina si aggrappò alla mantellina di Alessandro, e si incollò strettamente a lui affondando il naso nella stoffa ruvida: emanava un forte odore di liscivia, appena appena attenuato dai fiori di saponetta che, una volta secchi e racchiusi in sacchettini di stoffa, mamma Maria Giovanna usava mettere nell’armadio per profumare le lenzuola.
Ci fu uno strappo. Alessandro non era più con lei. Era dietro il finestrino abbassato e sventolava il fazzolettino di batista con le iniziali che lei vi aveva ricamato. Le venne da piangere. Si guardò intorno smarrita. Era come annegata negli sbuffi di fumo che parevano provenire da profondità remote. Per un attimo ebbe paura di essere sola, ma, da dietro, le arrivò la mano di Emilio. La strinse con forza. Emilio fece cenno ad Alessandro di venire a salutare un’ultima volta la sorella. Alessandro se la strinse forte forte al petto, baciandola sulla fronte. Quel bacio e quell’abbraccio le restarono impressi nella mente per tutto il tempo che ci volle ad Alessandro di ritornare dal fronte.
D’un colpo, l’aria si fece irrespirabile. La stazione era diventata una posta infernale. I sibili della locomotiva si erano fatti sempre più stridenti e penetranti. Si ripetevano ad intervalli regolari, oscuri e incomprensibili. A uno più lungo e lamentoso degli altri, seguì un irreale silenzio che fu rotto dalle note della marcia reale. La banda militare continuò a suonare finché il bilanciere iniziò lentamente a ruotare e il treno, sotto la spinta degli stantuffi, incominciò a muoversi. Si portò via nel vento la mano di Alessandro che sventolava il fazzoletto diventato uno straccetto grigio e spento tra le dita. Al rientro a casa, il compito di ragguagliare la madre toccò ad Emilio. Quanto a lei era così stanca che, come si tolse le scarpe, tirò un sospiro di sollievo e si abbandonò sulla sedia di paglia della cucina che era vicino al camino. Mamma Maria Giovanna ascoltò senza mai fare domande. Alla fine, si alzò e prese ad andare avanti e indietro nelle stanze vuote come una sonnambula. Non faceva altro da quando, dopo la disfatta di Caporetto, era arrivata la notizia che Francesco era stato dichiarato disperso. Si sedette a fianco del letto del figlio. Vi restò una notte intera. Il mattino dopo uscì dalla stanza con i capelli che si erano tinti di bianco.
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