29 aprile 2013

Quei dettagli che fanno la differenza. Videointervista a Il Triangolo

In occasione dell'apertura del concerto dei Ministri al Phenomenon di Fontaneto d'Agogna abbiamo intervistato Il Triangolo. Con la band di Luino abbiamo chiacchierato di un anno di vita del disco Tutte le canzoni, del nuovo album in cantiere per l'autunno (che vedrà sonorità un po' meno beat e più folk), del progetto su MausicRaiser a coronamento di un ciclo molto positivo e di Carlo Pastore "ospite nascosto" nel brano La primavera. 
L'intervista è proseguita con qualche consiglio musicale (Giuradei, Selton, Managment del dolore post operatorio) prima di un live di grande effetto e di un concerto dei Ministri che il Triangolo ha seguito dal cuore del pogo.
Intervista di Roberto Conti



Un allegro disco sulla nostalgia: ecco i Selton con un disco per "staccare la spina"


I Selton, band folk rock brasiliana trapiantata a Milano, portano nelle mie orecchie una ventata di spensieratezza proprio quando siamo alle porte della stagione che dovrebbe essere propizia a questo stato d'animo e invece si trascina in un'interminabile coda piovosa. 
Il modo scanzonato di fare musica di questi quattro ragazzi a tratti mi fa venire in mente band Anni Sessanta d'oltreoceano, California in particolare. Il tema della nostalgia (saudade) per qualcuno o per la propria terra viene raccontato in musica con estrema leggerezza: Saudade è infatti il titolo del terzo album dei Selton, che arriva dopo Banana à milanesa, in cui hanno reinterpretato classici della tradizione milanese come Jannacci e Cochi&Renato, e dopo l'omonimo Selton, secondo disco della band.
Si sono formati come gruppo nel 2005 a Barcellona dove sono stati notati dal programma televisivo Italo-Spagnolo di Fabio Volo che ha aperto loro le porte dell'Italia dove riescono a destreggiarsi con disinvoltura dal club semivuoto al grande festival, fino alle ospitate televisive. Dalla loro musica traspare come detto spensieratezza, ma anche colore e gioia di vivere, forse un paradosso visto che la nostalgia è il leit motiv del disco. La malinconia che un amore concluso ci lascia sulla pelle viene portata via dalle onde di un oceano che lascia una spuma contagiosa.
Le dieci tracce alternano italiano, inglese e portoghese: un amore un po' alcolico sguazza tra vino e whiskey con autoironia in Piccola sbronza a cui ha partecipato anche Dente; questo brano propone riflessioni su coloro che amiamo e su come a volte ci facciano del male anche involontariamente. Vi avverto, Piccola sbronza ha un pericoloso tasso di memorizzazione immediata.
Il cantautorato italiano si mescola a suoni elettronici, cori e doppie voci nel brano Un ricordo per me. In Across the sea si respira un'atmosfera da spiaggia. Qui Nem Gilò-Saudade, con la partecipazione di Arto Lindsay, è un altro brano in piena atmosfera carioca.
Eu nasci no meio de um Monte de gente, cantata in italiano e portoghese, inizia piano per poi svilupparsi con riusciti coretti che ci fanno sentire ancora bambini. Infine cito Ghost song in cui sembra di sentire quei vecchi jingle che si usavano negli USA negli anni '50, per certe bevande in particolare... indovinate quali?!.
Se si mettono da parte per il tempo necessario i personali gusti musicali, questo è un disco adattissimo a staccare la spina e ad abbandonare per strada problemi e ansie (e non è poco), possibilmente a bordo di un maggiolone vintage decapottabile con tavola da surf ben in vista. Alessandra Terrone

Neverland e le sue 10 ore di musica: da Fiumani a Benvegnù, dai Pan del diavolo ad Alessandro Fiori

A causa della crisi quest’anno in Italia la programmazione musicale dal vivo è abbastanza povera, e neanche i locali più importanti organizzano qualcosa per cambiare questa prospettiva. Poi, tutto ad un tratto, il Bloom di Mezzago (MB), il locale famoso per aver portato in Italia i Nirvana, propone in una sola serata dieci ore complessive di musica indie di altissimo livello. Senza troppa pubblicità e senza troppo clamore, il Neverland festival di sabato 27 aprile 2013 ha portato in Brianza nomi abbastanza grossi e sicuramente piacevoli. Si parte nel pomeriggio con gli emergenti: Paletti (progetto solista del cantante dei The R’s), gli ottimi Albedo, i bergamaschi Karenina (in rappresentanza di una realtà musicale geograficamente vicina al Bloom), e i Sakee sed, la cui ascesa sta prendendo una piega insolitamente rapida. In serata si esibiscono Alessandro Fiori (in acustico), Diaframma (sul palco elettrico), Giancarlo Onorato con Paolo Benvegnù (in acustico) e Pan del diavolo come gruppo di punta sul palco elettrico. Come degna conclusione della serata, dirige le danze il dj set di Davide Facchini di Radio popolare. C’è da fare un applauso agli organizzatori per la coraggiosa programmazione della serata in tempi di crisi, sfidando le probabili defezioni a causa di maltempo, scarsa promozione e già noti limiti tecnici del Bloom (è scomodo da raggiungere per chi non è della zona, è piccolo, lo spazio per i live in acustico è inadeguato mentre nella sala al piano terra l’acustica non è buona, insomma una bella sfida organizzativa). Un punto a favore è sicuramente il prezzo del biglietto: dieci euro spesi benissimo. A sfavore i prezzi delle bevande (oltretutto gravati da un euro di cauzione sui bicchieri) e soprattutto il comparto ristorazione. Il Bloom ha allestito un enorme gazebo esterno con cena esclusivamente a base di panino con salamella grigliata e l’unica scelta del menu era se aggiungere anche i peperoni oppure no. A parte la mancanza di attenzione per esigenze alimentari particolari, sembra assurdo pagare 3,50 euro un panino che si mangiava letteralmente in due bocconi. 4 euro se al mini panino con mini salamella si aggiungeva anche un peperone. Uno, di numero. Ma evidentemente, in qualche modo, il Bloom doveva rientrare coi costi, e quindi gli si perdona anche questa, specie se all’interno dell’area ristorazione si può trovare un Federico Fiumani in formissima e disponibile a foto e discorsi esistenziali. In effetti, dato il target del locale, l’esibizione di Fiumani coi suoi Diaframma è quella che merita due parole in più. Entrato da anni in uno strano limbo nel quale è idolo degli addetti ai lavori ma ignorato dal grande pubblico, il toscano propone ormai uno spettacolo autocelebrativo nel quale non esiste parete divisoria tra lui e l’altra parte della barricata. Soundcheck effettuato con il pubblico già in sala e dialogo continuo con le prime file e col fonico (memorabile la richiesta, quasi seria, di poter avere sul palco un po’ di cocaina da pippare, quando il fonico lo avverte che è ora di iniziare a suonare). Ma anche tante perle naif verso fine concerto, tra cui: mollare la chitarra a canzone in corso per tirar fuori un fazzoletto di stoffa e soffiarsi il naso, improvvisare la scaletta accennando Anarchy in the U.K. dei Sex pistols ed Eroi nel vento degli amici Litfiba per coprire venti minuti finali non previsti, ma soprattutto interrompere bruscamente Marta dopo la prima strofa sentenziando: “Basta, questa viene troppo di merda”. E c’è il sospetto che dietro questi atteggiamenti di anti-divo ci sia qualcosa di sapientemente calcolato, perché gli ottimi bassista e batterista seguono senza tentennamenti ogni follia e colpo di testa del leader della band. Perfino l’esibizione acustica di Alessandro Fiori con le sue canzoni che parlano della cacca sbiadisce con Fiumani sul palco.
Giancarlo Onorato e Paolo Benvegnù presentano invece un curioso progetto ricco di cover insolite: Lou Reed, Velvet underground, Stranglers, Tom Waits e addirittura Nine inch nails e Radiohead (con riarrangiamenti geniali in acustico). Gran finale affidato ai siciliani Pan del diavolo, con il loro show elettroacustico infuocato. Ottima la partecipazione del pubblico ma scaletta troppo tirata e troppo lunga: per il loro genere, quaranta minuti sarebbero più che sufficienti. Due parole sulla scelta tecnica di alternare le esibizioni in acustico a quelle elettriche: funzionerebbe meglio se il locale fosse strutturato meglio. Per i live acustici è stata riadattata la sala cinema al piano superiore, con ambiente chiuso ed insonorizzato e posti esclusivamente a sedere. Ma questa è difficilmente raggiungibile ad esibizione già in corso e quindi come pubblico non è pensabile alternarsi tra le varie esibizioni. Di fatto, chi rimane giù al bar e al palco principale si perde le esibizioni acustiche, e chi è nella sala cinema si tiene ben stretto il posto. In conclusione, pur rimanendo intatta l’impressione di un’ottima serata con una lodevole programmazione, è inevitabile pensare a quanto potrebbe essere più soddisfacente un festival del genere in un ambiente meglio attrezzato. O forse la magia di Neverland è possibile proprio grazie al fascino antico del Bloom. Marco Maresca

28 aprile 2013

Koinè - Come pietre - Rec. in 10 parole
















Come pietre (Alka record label) è il secondo full-lenght album per i Koiné. Nove tracce introspettive che parlano dell'impossibilità di esprimere liberamente emozioni e sentimenti.

Recensione in 10 parole: perdita (purtroppo questa recensione inizia con le doverose condoglianze alla band per la scomparsa del loro chitarrista Gabriele Guerzoni, una notizia terribile che ci è stata comunicata in questi giorni dalla loro etichetta discografica Alka), rock melodico (con melodie funzionali ad esprimere tutte le emozioni sommerse), voce (molto particolare, imperfetta ma espressiva), Ninfa (il mio brano preferito), Se telefonando (un'ottima rielaborazione del brano di Mina, i cui contenuti sono in linea con il tema dell'album), passione, imperfezioni, potenzialità (ancora da scoprire pienamente). Marco Maresca

Voto: **/

Tracklist:
1. Come pietre
2. Ninfa
3. Freddo fuori
4. Brutalmente
5. La ballata dei panni sporchi
6. Segui la notte
7. Se telefonando
8. Polvere
9. Un attimo

26 aprile 2013

The computers: Love Triangles, Hate Squares è il nuovo attesissimo disco


Secondo lavoro in uscita il prossimo 29 aprile per la band britannica The Computers. Anticipato dal singolo Disco sucks, il nuovo album del gruppo di Exter si intitola Love Triangles Hate Squares,  etichetta One Little Indian/Self. Recentissimo un altro anticipo dell'album con un divertente video del brano che dà il titolo al disco in cui la band si trasforma in Freddie Mercury, Buddy Holly, John Lennon, Johnny Cash ed Elvis.
“Cosa sarebbe successo se Lennon non avesse mai incontrato McCartney, se Johnny Cash non fosse mai entrato nei Sun Studios, se Buddy Holly non fosse salito su quell'aereo?”. Il brano nasce da queste riflessioni. Ogni decisione presa influisce in modo più o meno determinante sulle nostre vite. Love Triangles Hate Squares parla di routine che annoia, di occasioni mancate, di una vita ripetitiva e senza senso.
Con il nuovo disco i The Computers propongono una ulteriore evoluzione nel sound che, seppur non abbandonando le radici punk, si apre alla melodia, al soul con una deriva verso il blues e il pop, sublimando l'amore del gruppo per il rock and roll.
Personalmente ho trovato molte similitudini con varie punk e rock band del passato vicino e lontano.
In Selina Chinese è nettissimo e deciso il riferimento musicale a Jerry Lee Lewis ed al suo stile impetuoso di suonare il piano. Apprezzabilissima l'idea di omaggiare in questo modo un artista   come Lewis troppo spesso sottovalutato o giudicato per motivazioni che esulano dalla musica.
Nell'album si va dall'inevitabile rockabilly di Bring me the head of a hipster, al soul-pop accompagnato da tastiere in Nothing to say. Single beds sembra arrivare dal passato, ma poi ti riporta qui col suo rock. Fino ad arrivare al grido di Cruel.
Per chi fosse interessato, la band sarà in tour nel Regno Unito a maggio.
E poiché tutto prima o poi torna di moda o anche non passa mai di moda (prova ne è la dilagante passione per le serate swing e per balli degli anni 30-40-50, boogie, jive, rock'n'roll, ma soprattutto il lindy hop che è la nuova “social dance”), il vintage rock'n'roll dei The Computers è più che mai attuale. Anche se non si è rockabilly dentro, meritano almeno un ascolto. Alessandra Terrone

Raudo dei Gazebo Penguins è un bel disco punk


Che bello il disco nuovo dei Gazebo Penguins! Ancora grazie a To Lose la Track il trio di Correggio sforna un discone ricco di iniziative, tutto da gustare. Più pestone del precedente full-lenght Legna e sicuramente più punk di ciò che apparì negli split con I Cani, Verme e Do Nascimiento, Raudo diverte dalla prima all’ultima canzone. Dieci episodi dieci caratterizzati da liriche ragionatissime ma irriverentemente danzerecce, cori altissimi e, di conseguenza, esultanze a non finire. Non si sa da dove iniziare: Finito il caffè (“singolone” dell’album con tanto di video), Casa dei miei e Difetto aprono le danze e, lo ammetto, le ho ascoltate tutte e tre due volte prima di passare alla quarta canzone, Domani è gennaio, che si apre con un’introduzione ragionata, nervosa e molto Detroit. La città. Crossover verso la metà a spezzare il ritmo e il fiato e poi ancora sperimentazione con Ogni scelta è in perdita.
Correggio è la canzone che ogni gruppo vorrebbe scrivere: un manifesto alle proprie origini, un omaggio all’adolescenza di un ragazzo che ascolta rock negli ’90 in un paese che non è né la funambolica Milano, né la dura Torino, nè la vicina e punkissima Bologna degli anni ’90. Io a quindici anni ascoltavo a manetta i Presidents of the Usa, e un po’ i Gazebo me li ricordano. In tre, a pestare duro mentre tutto va a rotoli. Trasloco è strappalacrime: “Riguarderemo le foto dei tuoi quando qualcuno aveva cura di noi. Riverniciamo tutto, ricomperiamo il bagno ubriachi della proprietà”. Punk rock melodico, poi, con Mio nonno. Si chiude con Non morirò e la riflessiva Piuttosto bene, che con chitarre tiratissime e un lentone psichedelico ammette, dopo tutta questa fatica “Oggi mi sento piuttosto bene”. Oggi. Per fortuna oggi mi sono ascoltato l’ultimo dei Gazebo Penguins. Penso lo farò anche domani. Perché è un album che parla di mobili, caffè e amore mentre, lo ripeto, va tutto a rotoli. E ricordatevi che i Pinguini non sono Cani e che un Raudo era più debole di uno Zeus, ma molto più forte di un Cicciolo. Non c’era gara. Andrea Vecchio

25 aprile 2013

Caso - La linea che sta al centro - Rec. in 10 parole















Interessante prova cantautorale per Caso. La linea che sta al centro è stato registrato e mixato nel gennaio 2013 al T.U.P. Studio di Brescia da Pierluigi Ballarin e masterizzato da Jo (Aucan) al Tapewave Mastering di Brescia. Caso predilige l'elaborazione testuale alla ricerca sonora, che risulta    un accompagnamento talvolta un po' semplice alle parole, assolute protagoniste di questo interessante progetto musicale, nella migliore tradizione del cantautorato rock italiano.


Recensione in 10 parole: acustico (perché prevale questo mood in tutto il disco), elettrico a tratti (Caso si cimenta anche in qualche sperimentazione Elettrica), impegnato (i testi parlano di difficoltà della vita come in Poco memorabile o Andata o ritorno), ironico (come in Un anno terribile o Orsa minore), minimale (perché non ci sono troppi fronzoli strumentali e quindi è molto diretto), cantautorale (perché l’anima di Caso si esprime tutta attraverso le parole), decisamente pop/folk lo-fi (perché La linea che sta al centro è pervaso interamente da questo mood), eterogeneo (perché pur rimanendo nella sfera pop, il disco è molto vario), sentito (ascoltando la voce di Caso, si percepisce che è un lavoro in cui l’autore ci ha messo il cuore) ed infine emozionante (perché chi si ritrova nelle parole di Caso non può non emozionarsi e ritrovarsi in un profondo senso di empatia). Marco Colombo

Voto: ***


Track list:
1. Parete nord
2. Fino agli alberi sottili
3. Un anno terribile
4. Poco memorabile
5. Motore
6. Più forte più ferocemente
7. A pennarello blu
8. Andata e ritorno
9. Orsa minore
10. Senza luna

24 aprile 2013

Dust e The churchill oufit uniscono le forze per Two nights sixty miles

I Dust ci stupiscono ancora una volta con un EP prodotto in collaborazione con i The churchill oufit, dal titolo evocativo Two nights, sixty miles scritto e registrato insieme, prodotto da Fausto Zanardelli e Matteo Cantaluppi e disponibile su http://www.thechurchilloutfit.com/ dal 1 aprile scorso.
Due band che uniscono le loro forze ed ecco uscire un prodotto davvero ben fatto dal suono internazionale. Anche la produzione e gli arrangiamenti sono davvero di livello, simili ad una produzione americana. I Dust li conoscevamo già, avendo recensito il loro primo EP. I The churchill outfit, bresciani, hanno invece all’attivo un omonimo album. L'album di questo "supergruppo" è caratterizzato da sonorità sorprendenti e grintose: la voce del cantante dei Dust è eccezionalmente profonda e di abbina alla perfezione ad un suono che si avvicina al meglio della scena indie rock internazionale. Il disco si compone di due pezzi inediti, uno per band, ovvero Parking lots dei Dust e Took my moon dei The churchill oufit, e di un'ampia parte scritta a "undici" undici mani e arrangiata in studio: Dixie, The Shortcut e la bellissima folleggiante Trees dimostrano una sintonia perfetta che siamo curiosi di sentire anche dal vivo. Marco Colombo

Sadside project - Winter whale war - Rec. in 10 parole














Abbiamo avuto il piacere di ascoltare l’ultimo album degli Sadside project, davvero interessante come lavoro, produzione a tre per Bomba Dischi/Audioglobe/Rough Trade.
Winter whales war, registrato allo Studio Nero di Roma da Giancarlo Barbati (Muro del Canto), vede la partecipazione di Roberta Sammarelli dei Verdena, Adriano Viterbini dei Bud Spencer Blues Explosion, Alberto Mariotti e Wassilij Kropotkin dei King of the Opera.

Recensione in 10 parole: psichedelico (le canzoni di questo disco sono davvero molto “da viaggio”), diretto (come nel brano The same old story, un pezzone immediato, che ti colpisce dritto in faccia), romantico (come nella bellissima 1959 The Last Prom che ci ricorda tempi musicali stile anni 50’ oramai passati), maledettamente rock (come in Edward teach better know) maledettamente blues (come in Nothing to lose blues), poetico (nel brano di chiusura che dà anche titolo all’album i Sadside project mettono in musica le poesie di Walt Whitman), melodico (in Molly si raggiunge l’apice creativo di quest’opera), folk (My favorite color) ed infine originale (perché pur mischiando diversi generi riesce ad essere tale). Marco Colombo

Voto: ***

Track list:

1. The same old story
2. My favorite color
3. 1959 (the last prom)
4. This is halloween
5. Edward Teach also known as Blackbeard
6. Nothing to lose blues
7. Hold fast
8. Molly
9. Sloop John B
10. Winter Whales War




Cafè noir - Non oggi - Rec. in 10 parole















I Cafè noir sono di Roma e suonano insieme dal 2006. Sono in tre ed hanno all’attivo oltre a questo nuovo ep, un altro ep dal titolo Il coltello del vile accolto favorevolmente da pubblico e critica.
Hanno suonato nei più importanti locali della Capitale. La formazione è composta da voce, basso, batteria e due chitarre.

Recensione in 10 parole: “Massimo Volumiano” (il paragone è molto forte visto che assomigliano molto come sonorità al gruppo di Emidio Clementi), parlato (poiché i testi sono parlati e non cantati), cupo (i suoni e le atmosfere sono decisamente dark), introspettivo (non solo nella composizione ma anche nei testi), strumentale (prevale certamente questa componente), distorto (le chitarre hanno un mood molto sporco ma penetrante), noise (in alcuni pezzi sembra prevalere questo genere), ipnotico (sicuramente le atmosfere dei Cafè noir sono degne delle migliori serate passate in locali fumosi con luci basse e suoni coinvolgenti), suonato (non nel senso di strano ma nel senso che si sente che le chitarre, la voce, il basso sono quasi in presa diretta) ed infine però poco originale (perché se è vero che è ben suonato e prodotto ,a me ha ricordato troppo i Massimo Volume. Marco Colombo

Voto: **
Track list: 
01. Gianni
02. Il bombardamento di Patos
03. Brent
04. Sabbia
05. Qualcosa di personale

The Doormen - Black clouds - Rec. in 10 parole















Dopo l'EP del 2009 e il disco d'esordio del 2011, e dopo aver aperto i concerti di artisti importanti quali Subsonica, Ash, The Vaselines e Blood red shoes, tornano i The Doormen con il british sound del loro secondo album, Black clouds, a distribuzione Audioglobe.

Recensione in 10 parole: inglese (il cantato), british indie rock, Interpol, Editors, spesso meglio degli originali (come nel brano Father's feelings). Marco Maresca

Voto: ***

Tracklist:
1. Bright blue star
2. My wrong world
3. Father's feelings
4. I'm in the sunset
5. We are the doormen
6. Staring at the ceiling
7. Her power
8. Silent suicide
9. Strange life
10. Snowy day

Granprogetto - La cena del bestione - Rec. in 10 parole














I pratesi Granprogetto esordiscono con un album, La cena del bestione (Millessei dischi / Audioglobe), che mette in luce le loro abilità di power trio ricco di contaminazioni ma dalla forte personalità.

Recensione in 10 parole: lisergici (i testi), folli (i titoli dei brani), alto volume (è così che va ascoltato questo disco), psichedelia, country, idee chiare, code strumentali (spesso avvincenti). Marco Maresca

Voto: ***/

Tracklist:
1. Allo zoo
2. Frateferroviere
3. Cazzurillo
4. Eccolo, fermi
5. Roy Scheider
6. Si falsifica tutto
7. Pianta grassa
8. Parti ma resti nella comunità europea
9. Un esperimento
10. Costo recupero informazioni
11. Arrivare o arrivarci
12. Un po' per noi [winter version]
13. Kronoporta spaziale

Gli Ebrei - Disegnami - Rec. in 10 parole















A tre anni dal loro esordio datato ed intitolato 2010 tornano gli Ebrei con un mini-ep di sole sei canzoni da due minuti l’una, Disagiami. Testi criptici e disillusi cantati in italiano, che non si rispecchiano in un genere musicale preciso e di traccia in traccia guardano al lo-fi, alla psichedelia quanto al punk di Dead Kennedies, Wire e dei At the drive-in, solo per citare qualche esempio. Ritmiche ipnotiche e forsennate intervallate da dissonanze e che fanno da tappeto alla voce "malata" e un po’ stridente di Matteo Carnaroli.

Recensione in 10 parole: ipnotico, ispirato, sperimentale (Disagiami), dissonante (La scatola nera), sonorità varie: dalla new wave (Opportunità) al punk (Strage di Pasqua e I miei vicini), matrice lo-fi, musica di impatto, originale a tratti ma anche con passaggi di eccessiva ispirazione. Marco Pagliari

Voto: ***

Tracklist:
1. Opportunità
2. Disagiami
3. Strage di Pasqua
4. La scatola nera
5. Strumentale
6. I miei vicini

23 aprile 2013

Gli Altri: non basta un'intuizione felice per fare un disco convincente


Gli Altri con Fondamenta, strutture, argini propongono una sorta di concept sulla mutazione degli spazi, del territorio, dei modi di pensare e di vivere, l’individualismo. Al di là di questa buona idea, la forma musicale, un punk-hardcore troppo tirato ed urlato, non mi ha convinto pienamente.
 Il disco si divide tra brani strumentali, brani di puro hardcore, chitarre punk e acustiche, urla e cantato "tradizionale". L’incipit è affidato a Oltre il rumore, miscuglio di suoni e rumori caotici da dove emergono le urla di Gabriele Lugaro. Le tracce scorrono, l’orecchio si abitua ai suoni taglienti che gradualmente si addolciscono fino a 06:33, brano strumentale che trasmette un’angoscia che ti prende lo stomaco. E’ un brano avvolgente, il contrasto tra il background hardcore e le scale della chitarra lo rende particolarmente piacevole all’ascolto. Forse la migliore traccia del disco.
Nel complesso l'album appare musicalmente valido: tracce più melodiche si alternano e si fondono nell’hardcore. Cosa invece proprio non mi piace? L'eccessiva ripetitività di alcuni arrangiamenti e le urla, stile vocale che troppo spesso pare fastidioso rumore.
Cosa mi piace? I brani strumentali, l’alternanza dei suoni punk/rock con l’hardcore (prevalentemente le parti punk/rock, a dire il vero), la voce di Lugaro quando canta "normalmente", la grafica del booklet con il gasometro di Istanbul e il mare di Marmara. Mario Baldassarre


18 aprile 2013

Uno split in vinile per Loma Prieta e Raein


Cinque tracce per i Loma Prieta di San Francisco ed una per i Raein di Forlì. Questo split su vinile 7” esce per la Deathwish, etichetta gestita e fondata dal famosissimo grafico Jacob Bannon e, per fortuna, rappresenta una netta svolta musicale e non solo, dopo (troppi) mesi passati a produrre gruppi a mio parere (troppo) sopravvalutati come Birds in Row, Harm’s Way e, soprattutto, Touchè Amorè. I californiani ci riportano agli sfarzi ed alle follie della Richmond che conosciamo tutti di fine anni ’90, mentre i Raein confermano ancora una volta che non c’è nulla da fare: rappresentano al giorno d’oggi ciò che di meglio l’old school possa proporre qualora si parli di cultura, attitudine e rock.
Entrando nel dettaglio, i Loma Prieta suonano belli veloci ed essenziali, stimolando headbanging a non finire. Vero thrash nuova scuola. Chi si ricorda gli An Albatross? Ecco. Una vera manata, da far rimanere a bocca aperta. Immemorial, Poverty Map e Mansion fire sono tre fulmini a ciel sereno, stremanti per follia e vigore. Non c’è pietà nemmeno riproponendo una fragorosa versione della blackflaggiana Spray Paint , che ci viene ripropinata in maniera veramente noise. Dove per noise si intende The flight of the wounded locust, per dare dei riferimenti.
I Raein, con Amore & guerra, riprendono il filo del discorso intrapreso con il loro precedente lavoro, il full-lenght Sulla linea dell'orizzonte fra questa mia vita e quella di tutti gli altri. Concentrano in tre minuti e mezzo tutto ciò che li ha rappresentati in questi quasi dodici anni di vita. I testi sono in italiano ma ciò che sta sotto, alle radici di tutto, ci riporta ai loro primi lavori: quelli su Life of Hate ed Ape Must Kill no Ape. Non si smette mai di fare cori, ci si immedesima sin dalle prime note nell’atmosfera fiabesca che i cinque romagnoli descrivono. È una festa che dura un attimo ma che ti lascia sentimenti ed emozioni che difficilmente si trovano in altre situazioni musicali. Finalmente un bel disco punk, insomma. Andrea Vecchio

17 aprile 2013

This harmony, un atto conclusivo degno di nota


I This harmony sono un curioso esperimento musicale nato da quattro ragazzi umbri nel 2002. Basso, chitarra e batteria di derivazione indie rock ai quali si aggiunge un violino come voce narrante, per canzoni che affidano la loro narrazione non alle parole ma alla musica stessa. Un misto tra indie rock e musica classica, fortemente coinvolgente, che ha fatto sì che il quartetto, originario dell'Umbria, calcasse i palchi di Italia, Svizzera e Francia per più di dieci anni. I This harmony sono anche autori di numerose melodie utilizzate in vari programmi Rai, per molte sigle e spot.
Qualche mese fa, la band umbra ha realizzato un nuovo album, intitolato 1789, destinato ad essere il capitolo finale del progetto. Un lavoro conclusivo col quale il quartetto si congeda dal suo pubblico, vecchio e nuovo, mostrando comunque cura e dedizione, ed un inno al cambiamento. Una volta tracciata la parabola di questo nuovo lavoro, infatti, la band si è resa conto di come questo cambiamento coincidesse con la fine della propria storia: la loro rivoluzione è stata la loro fine.
Registrato all'interno di un teatro romagnolo, l'album è una strana commistione di indie rock costruito su sognanti fraseggi di chitarra da shoegaze dei primi anni '90 e di musica classica, con un violino che gran parte delle volte è proprio il punto focale dello sviluppo dei brani, e infatti in certi passaggi è tenuto abbastanza alto nel mix, più degli altri strumenti. A tenere le redini, una batteria dai colpi soffusi che spesso suggerisce i tempi ma a volte (come nell'iniziale 1789 e nella prima metà di Freeman) si sa anche imporre. Oltre ai quattro componenti originari del gruppo, alle prese coi rispettivi strumenti, troviamo anche due ospiti: David Barbatosta alla tromba e Andrea Angeloni al trombone. 1789 è una raccolta di undici tracce delicate, vibranti, sussurrate, equilibrate, armoniose. Un disco da ascoltare quando ci si vuole lasciare trasportare da un'altra parte. Qualunque sia il motivo dello scioglimento della band, ciò che rimane è un atto conclusivo degno di nota. Un ottimo modo di dare un addio. Marco Maresca

Tracklist:
1. 1789
2. Lumière
3. V
4. Terra!
5. Orchestra
6. Natura
7. Carillon
8. Krise
9. We wished
10. Freeman
11. Fin

16 aprile 2013

Max Gazzè, il versatile poeta che passa dal romanticismo al pezzo che è già coro da stadio

Il nuovo disco di Max Gazzè ha un effetto che rispecchia la personalità istrionica dello stesso autore: lo ascolti e ti piace per l’orecchiabilità versatile dei brani, lo riascolti e ti sembra modesto, poi lo ascolti ancora scoprendo i dettagli celati, e ti sorprendi. Sì perché Gazzè è un fuoriclasse, uno dei pochi cantautori italiani che, al saper fare (un bel disco, in questo caso), unisce il saper essere. Ogni disco è un nuovo capitolo da cui trarre spunti di riflessione sullo stato di salute artistica, e non solo, di un cantante e Sotto casa è pregno di argomenti e temi interessanti, dove ognuno di noi può ritrovarsi in almeno uno di essi, o anche più di uno.
Con i suoi quarantacinque anni d’età, quasi vent’anni di carriera e otto album all’attivo, Gazzè  rimane il cantautore estroso di sempre, che sa passare dalle canzonette simpatiche ai versi romantici con estrema disinvoltura, ma che è anche capace di proporre argomenti finora inediti; quali?, scopriamoli lasciamo parlare il disco e partendo proprio dal brano che gli dà il titolo, Sotto casa, appunto, la canzone con cui Max si è esibito all’ultimo Festival di Sanremo (che ha passato il turno nello scontro con I tuoi meledettissimi impegni) e che sta risuonando in questi giorni nelle radio, una canzone ironica ma che offre interessanti punti di riflessione. E’ nata dopo un avvenimento reale, mentre un giorno Max e il fratello (storico ed inseparabile coautore dei brani) stavano lavorando al disco, due ragazzi hanno bussato alla porta, erano due Testimoni di Geova e i due Gazzè hanno, prima, deciso di ascoltare quello che avevano da dire, dopo, hanno provato ad immaginare quello che sarebbe successo se nessuno avesse aperto loro la porta. E così che ha avuto origine Sotto casa, un monologo fuori la porta che rappresenta una riflessione sulla chiusura tra il mondo laico e quello credente, ma, anche, un invito al dialogo tra religioni e fedi diverse, un tema attualissimo. E’ un invito di Gazzè ad aprire le porte, a lasciarsi catechizzare dalla gentilezza delle persone che hanno qualcosa da dire (“possa la bontà del vostro cuore riscoprire che la verità si cela spesso dentro una persona sola”) a non rimanere barricati dietro l’uscio per il timore di chissà quale pregiudizio o verità da scoprire. Le parole del brano sono ben rese dalle immagini del videoclip, in cui Max compare provocatorio e bizzarro ma consono al suo modo d’essere ironico, una vera chicca cinematografica a cui ha preso parte anche il figlio.
Insomma, da affermazioni quali “ma andate a cagare voi e le vostre bugie […] siamo uomini troppo distratti da cose che riguardano vite e fantasmi futuri” di La favola di Adamo ed Eva a “ficcatevelo in testa: non si viene al mondo tanto per godere, ma soltanto perché un Bene superiore ci ha creati” di Sotto casa qualcosa è cambiato, alla base del cambiamento c’è una profonda spiritualità, un nuovo tema molto caro che Max oggi sente maggiormente, tanto da diventare presente nella sua vita e quasi tangibile nella sua musica; non credere in nulla implica impegno, quanto credere, con la differenza che la seconda condizione è un trampolino di lancio verso la speranza fiduciosa al cambiamento per chi segue il proprio istinto, e con cui andrebbero contagiati anche “tutti i poveretti che hanno perso il senso immenso della vita”, bravo Max.
Con questa ventata d’aria fresca tornano, anche, i vecchi temi tanto cari al cantautore romano: le varie facce dell’amore, quello che finisce, quello che resiste nel tempo, quello viziato dalla gelosia, quello violento e quello mitologico, il tutto reso maggiormente arioso da una novità: la presenza di una sezione d’archi nelle musiche in quasi tutti i brani che seguono.
L’amore che finisce è il tema portante di due testi: E tu vai via che, con semplicità disarmante e sintetica ma potente (“e tu vai via, mi fissi gli occhi come un cieco e poi vai via, strascico passi da ubriaco e tu vai via”), racconta il momento in cui la “lei” protagonista se ne va, e a “lui” non rimangono altro che le immagini languide di quando le cose andavano bene, e di Con chi sarai adesso, dove la fine dell’amore si mescola con l’amore geloso (“tu la tua gelosia maledetta che dall’amore si scappa quando ce l’hai dappertutto come l’assedio di un’ombra”), e in cui la scelta dell’uomo di porre fine alla storia è tormentata dal pensiero di lei con un altro uomo.
La tematica dell’amore che resiste nel tempo è presente in I tuoi maledettissimi impegni, che con Sotto casa è il punto di forza dell’intero album; con un giro melodico del ritornello, e con forti venature sentimentali, è un brano che ti entra nel cervello e te lo succhia come una cannuccia. Parla dello sconforto accorato di un uomo che non riesce a condividere, quanto e come desidera, il tempo con la sua amata perché lei è assorbita dalla sua miriade di impegni; non rimane al povero innamorato, ricco di fantasia, che elencare ipotetiche soluzioni, immaginarie, fantasiose e deliziose, per far sì che lui possa essere sempre con lei: “e non c’è una soluzione se non quella di rimpicciolirmi a dismisura fino al punto di traslocare nella borsa tua con gran disinvoltura […] o c’è una soluzione buona in più: potrei farti da fermaglio per capelli se per sbaglio ti venisse voglia di tenerli su”. E’ un romanticone Gazzè, diciamolo. Ma il romanticismo non sempre è caratteristica onnipresente nel rapporto tra uomo e donna, nemmeno nella musica, anzi, spesso viene proprio a mancare; è la realtà con cui ci scontriamo ascoltando Atto di forza, dove l’amore sfocia in violenza, ma la capacità compositiva ed interpretativa di Max fa passare quasi in secondo piano la descrizione dell’atto di abuso perché la musica e le parole ci trasportano in una dimensione eterea in cui la realtà, tremendamente tangibile e drammatica per la protagonista, si mescola con una dimensione puramente sensoriale e quasi onirica (“si attacca alla panchina, un vento di latta la frusta sulla schiena e aspetta la grandine come un ceffone […] fasci di gelo inchiodano gli alberi allo sfondo e quest’ingombro di nuvole in nero sfoga rovesci come minacce”).
La mia libertà e Quel cerino sono canzoni che racchiudono un senso assoluto, quello di osservare le cose che cambiano senza forzarle, farsi trasportare e lasciare che tutto sia, epurando l’essere umano dall’ambizione razionale di dare una dimensione ai sentimenti ed agli eventi secondo canoni oggettivi e deduttivi: “non trovi meno astratto che l’autonomia sentimentale sia abolita sempre dal concetto esatto per la quale un sintomo d’amore si misura in dosi come un recipiente?” dice Max nella prima, e “vento, lo trovi divertente quando la nebbia è un muro stare lì a non fare niente?” si interroga poi nella seconda. Osservare serenamente le cose che cambiano senza resistere: è la libertà che canta Gazzè.
E’ un album poliedrico questo, con diverse facce, o meglio, tratta diverse realtà mettendo in scena situazioni non certo abusate nella canzone italiana, L’amore di Lilith ne è un esempio. Tra tutti è il brano che mi convince di meno perché, nell’intento di dargli un’impronta psichedelica, si è esagerato negli effetti speciali e il risultato è una successione di suoni pasticciati e distorti che distraggono dal testo che, comunque, merita di essere ascoltato per le citazioni di diverse figure mitologiche, tra cui Lilith, che risollevano il brano conferendogli un non so che di affascinante: secondo gli antichi ebrei, Lilith è stata la prima moglie di Adamo precedente a Eva, e ripudiata dal marito perché disobbediente.
Concludo, non a caso, con i miei brani preferiti, Buon compleanno e Il nome delle stelle; poetici e scivolosi nei testi, melodici ed orecchiabili, non banali. Il primo è una dichiarazione d’amore che parte dal più semplice, ma anche il più personale, augurio, costruita su misura attorno e addosso alla donna amata, nella sua essenza e nella sua quotidianità: “il vantaggio di avere a disposizione almeno le prime ore del pomeriggio e passeggiare, sta nel tuo quasi astratto abituale dosaggio nelle cure che rivolgi al cane, e non rimane che lasciarti fare”. Il secondo è una lode e un atto di riconoscenza verso il creato, le stelle nello specifico, compagne fedeli di un uomo che, nei momenti di sconforto e solitudine, trova gioia alzando gli occhi al cielo stellato: “basterà l’odore della notte, e posso dare un nome a tutte le stelle che riaccendono i miei occhi quando sono tanto tristi, ma sempre così innamorati”.
Non occorre aggiungere altro, per riconoscere che Max Gazzè è uno dei migliori cantautori italiani in circolazione. E noi ne siamo fieri. Certo, c’è da riconoscere che un ascolto completo, dalla prima all’ultima traccia, rischia di annoiare ma, prese da sole, le canzoni di Sotto casa sono quasi tutte di livello alto. Bentornato Max. Sonia Stevanini

15 aprile 2013

Luci ed ombre del disco sanremese dei Marta sui tubi

Chi va a Sanremo, soprattutto se arriva dal sottobosco indipendente più ombroso, è come se vivesse un nuovo esordio, tanto grande è la fetta di pubblico nuovo che ti conosce e ti ascolta, spesso senza prima averti neanche sentito nominare....
Ai Marta sui tubi è successo esattamente questo. Ed è proprio per questo motivo che scegliere per il disco "delle masse" un allungo sperimentale, mi pare una mossa ardita e non particolarmente fruttuosa.
In questi anni, la band si è evoluta, arricchendo ed elaborando sonorità che - con il crescere del numero effettivo dei componenti - sono divenute pesanti orpellature che accompagnano l'intelaiatura chitarristica di Carmelo Pipitone, che costituiva l'agile e versatile fulcro dei brani degli esordi, che nei concerti lo si voglia o no, risultano ancora quelli più graditi.
Detto questo, una scelta più easy-listening e meno sperimentale sarebbe stata più oculata per Cinque, la luna e le spine, disco complesso ed articolato uscito per Bmg.
Ma entriamo nel vivo parlando dei brani. Partiamo da Dispari, incalzante pezzo sanremese con un'importante morale legata alla solitudine che serpeggia nascosta dietro le schermate dei social network. Unico neo: quel "Benvegnù" citato nella prima performance all'Ariston e scomparso dal testo: sacrilegio! Vorrei mi piace meno, con quel testo alla Francesco Renga, anche se perlomeno c'è la chitarra pipitoniana che mi gusta così tanto...
Desiderio personale: vorrei dei Marta sui tubi meno virtuosi, con un Gulino meno performante e più accorato.
Una breve intro strumentale introduce a Il primo volo che è un saliscendi di ritmo e melodia in cui un Gulino senza peccato sa creare un buon equilibrio. Vagabond home è invece una ballata folk cantata in inglese in cui piano e chitarra fanno da sfondo a questa “fotografia” descritta dai Marta sui tubi in un crescendo che porta a un finale suggestivo che forse somiglia a qualcosa che ho sentito in un vecchio album di Prince. Ci troviamo di fronte al primo pezzo in inglese dei Marta sui Tubi, se si esclude la cover di Tomorrow never knows dei Beatles in C’è gente che deve dormire: se tralasciamo la pronuncia, di questa canzone possiamo lodare l'intensità, con un finale in crescendo ben calibrato anche nella durata, a differenza di Polvere sui Maiali, che presenta una coda strumentale che mi permetterei solo se avessi messo code strumentali in tutti i dischi fatti finora, non nel sopracitato disco "delle masse". 
Maledettamente breve è fatta di rock che sul finale riporta nei ranghi con delicatezza, ma anche Grandine sa riempire di emozione.
Nel complesso il disco è convincente e di ottima qualità: i Marta sui tubi non hanno bisogno di dimostrare niente e Cinque è tutto da ascoltare, senza eccezioni, con buona pace di chi preferiva la band agli esordi.
Roberto Conti - Alessandra Terrone

14 aprile 2013

Andrea Carboni - Due [ ] - Rec. in 10 parole















Due [ ], con le due parentesi quadre ad indicare una sorta di abbraccio, è il secondo disco del cantautore italo-svizzero Andrea Carboni. L'album è distribuito da Audioglobe.

Recensione in 10 parole: sentimento, cura del dettaglio, voce (intensa, un po' nevrotica, sicuramente particolare), equilibrio (compositivo, vocale, strumentale), produzione (affidata a Paolo Mauri, il quale purtroppo gioca la carta dell'iperproduzione, dando vita ad un album troppo artificioso), Rodrigo D'Erasmo (direttamente dagli Afterhours, col suo violino e con alcuni arrangiamenti orchestrali degni di nota), live (sicuramente senza gli artifici applicati in studio, dal vivo questo album può rendere ancora di più). Marco Maresca

Voto: ***

Tracklist:
1. L'amore dopo domani
2. Lento
3. Vinceremo grazie
4. Dove sarai
5. Mille
6. La migliore che ci sia
7. Rango
8. Magari
9. Lei non sa chi sono io
10. (Magari)
11. Il male minore
12. Bam

Ecclettico, ma senza identità: il nuovo degli Strokes non convince


Is this it è stato un disco che, anche se non così innovativo, ha suscitato sicuramente clamore tra critica e pubblico per un sound spontaneo, ballabile e allo stesso tempo aggressivo. Dodici anni dopo e pubblicati altri tre album (il buon Room on fire e gli altri due finiti immediatamente nel dimenticatoio), gli Strokes tornano con Comeback machine cercando di dare prova della loro evoluzione artistica.
A differenza degli esordi, non si sente più il garage-rock che li ha a lungo caratterizzati (a parte nel singolo All the time e in chances), ma si assiste ad una ricerca affannosa e controversa di generi diversi tra loro che sono in voga in questi anni 2000. Ci riferiamo al post-punk (come ad esempio i Franz Ferdinand) e alla new-wave (Editors e MGMT), come se pur di tornare ad avere l’appeal di un tempo Casablancas e soci hanno voluto ripiegare sul sound di quelli che sono stati i loro precursori e che nel tempo hanno preso il sopravvento rispetto ai newyorkesi.
Lo stesso Julian Casablancas cerca uno stile diverso: meno rocker e più falsetto, come si sente in Tap out e in One way trigger. Le ritmiche di Fab Moretti, un tempo secche e monocordi, sono diventate più sincopate, quasi disco.
Per come suona il disco non sarebbe assolutamente male, però sono troppo evidenti i richiami alle idee altrui. One way trigger, ad esempio, sembra un pezzo dei MGMT, costruito su tastiere loop, un ritmo semi-ska e la voce che canta in falsetto (un po’ buffo a dire il vero).
Le cose migliorano con la Franz-ferdinand-iana Welcome to Japan, che comunque piace per la sua verve sospesa tra indie e dance, e con la quasi title-track 80’s Comedown machine, un pezzo costruito su un riff potente che sarebbe stato bene su Room on fire. Ecco, probabilmente ciò che attira di più del quinto lavoro dei newyorkesi sono proprio le chitarre, in particolare quella di Albert Hammond Jr., protagonista di assoli davvero notevoli (All in time e Tap out). Nel mezzo ci sono l’ipnotica elettronica 50 50, brutta quanto una delle ultime dei Bloc Party, e la plasticosa canzonetta stile anni ’80 Partners in crime, che si presenta come un mix malriuscito tra U2 e Duran Duran. A concludere un pseudo-omaggio ad Amy Winehouse (o forse una ghost track mancata di Anthony and the Johnsons?) Call it end, call it karma che ha veramente poco a cui vedere non solo con i nostri, ma con lo stesso disco.
Morale della favola: gli Strokes con Comedown machine confermano di avere diverse idee ma confuse e ne viene fuori un album che in sè non è malaccio, però manca totalmente di identità. Certo, Casablancas & co. non potevano continuare all’infinito col garage-rock al fumicotone di Is this it, ma è evidente che questa band non sia più in grado di suscitare quell’entusiasmo che c’era dieci anni fa. Purtroppo i “colpi” (così si traduce "strokes"!) di quella New York City che è sempre frutto di nuove mode si sono rivelati effimeri e il rock moderno si è identificato in altri personaggi. Marco Pagliari

12 aprile 2013

Paint it black, un ritorno davvero convincente


Recensisco l’ultimo disco dei Paint it black con l’umore altissimo: è venerdì pomeriggio, la bolletta del gas non è ancora arrivata e, infine, l’ultimo disco dei Paint it Black è una vera bomba.
Ci avevano lasciati senza dischi e senza praticamente tour per quattro anni e ne si sentiva la mancanza, caspita. Invisible esce per No Idea dopo le ultime pubblicazioni per Fat Wreck e Jade Tree e rappresenta alla grande il ritorno dei quattro ragazzoni di Philly. Invisible forse è l’album che racchiude più degli altri le radici della band: Kid Dynamite, Lifetime, Good Riddance. Entrando nel dettaglio, si tratta di un EP di dieci tracce.Si inizia con Greetings, Fellow insomniac, lunga e midwest al punto giusto. Daniel si diverte ad urlare sugli stacchi di batteria e si vede: ne esce una schizofrenica commistione tra la nuova e la vecchia scuola punk rock americana. L’urlo con cui comincia Headfirst ci riporta ai tempi di CVA e di Cannibal, dove venivano macinati chilometri di fastcore tra un singalong e l’altro. Realtà che, a mio parere, sono andate scemando un poco con i capitoli New Lexicon e Amnesia. Si ritorna a correre, quindi, con questa nuova uscita. Props for ventriloquism è una finale dei duecento ad ostacoli che strizza l’occhio ai bei tempi andati dei Kid Dynamite: coretti a ribadire, rullante sfondato e carica finale con tanto di rallentamento e coro wuo-oo-ooh tutti insieme, che non fa mai male. Little fists riprende le atmosfere corroboranti ed edonistiche di Amnesia, al limite del postpunk potremmo sostenere. Si ritorna a pittare subito dopo con D.F.B. , cheap shot che in poco più di trenta secondi racchiude velocità, irriverenza e delirio. L’ultimo brano, Invisible, si presenta invece più complesso, con un attacco alla Husker Du che sfocia in strofe lifetimeniane sino a portarci, manco a dirlo, allo staccone finale: preludio di basso e poi tutti sotto al palco, abbracciati e sudati come non mai. Brothers and sisters, bentornati Paint it black! Andrea Vecchio

10 aprile 2013

Esce L'Occasione di Corrado Meraviglia, un cantautore da tenere d'occhio


L’occasione, di Corrado Meraviglia, esce poco prima di Pasqua, quando un po’ tutti decidiamo sia finito l’inverno. Invece il cantautore savonese spiazza i più speranzosi, iniziando il suo ultimo lavoro, fuori su La Fame Dischi, con un bel po’ di pianoforte. Parole ben distinte e idee ben chiare.
“Attrezzati al meglio anche per morire senza disturbare”, invece, recita Vacanza, seconda traccia di questo lavoro che, con i suoi undici brani suonati in maniera raffinata e conturbante, ci proietta in una campanelliana Città del Sole che di soleggiato ha solamente chitarre e ritmi, magistralmente oscillanti tra atmosfere calypsoidali ed anfratti molto Minutemen. Perché le parole, trascinate e sofferte, si muovono con inesorabile malinconia tra un’armonia e l’altra, lasciandoci amareggiati ma ancora speranzosi. Sam ne è l’esempio lampante, e nemmeno con La bella stagione si riesce ad uscirne. Il titolo è solo un’illusione ed è meglio così: tra tastiere alla Get Up Kids e ridondanti colpi di rullante viene descritta un’esperienza vacanziera triste e felicemente normale, tanto che anche lui arriva alla conclusione che “per quest'anno non cambiare stessa spiaggia stesso male”. È un quadro bellissimo.
Scatole risulta troppo lunga, mentre Lampione riprende le atmosfere violentemente céliniane del primo brano. Post rock a tutto gas con Le mie manie, invece, testimonianza che Meraviglia di musica ne sappia, e di musica anche importante. Avete presente gli Slint di “Spiderland”? Bene, date un ascolto a Luccica e poi sappiatemi dire.
Insomma, è un disco denso ed interessante, questo L’occasione, diretto magistralmente da un artista che, nella sua bravura, non dimostra né superbia né propensione all’inseguire modi di suonare ed atteggiarsi ormai culto. Viene, d’altronde, dalla regione di Eugenio Montale, uno che raccontava cose semplici ed alle quali è sempre stato facile affezionarsi. Il mare, le vacanze. Andrea Vecchio

7 aprile 2013

Lumi di punk coi Minnies e il nuovo disco Ortografia

Seguo e conosco i Minnie's di Milano da quando, a Milano, i gruppi iniziarono a suonare del punk hardcore melodico. Da quando, cioè, pubblicarono lo split che uscì per la Riot di viale Monza con gli Happy Noise. Suonavano nei centri sociali, facevano già tour europei, promettevano "noi tra vent'anni saremo ancora qui". Promessa mantenuta. Lo split in questione uscì nel 2001, ma i loro primi lavori risalgono algi ultimi '90. Facendo due conti, quindi, ci siamo quasi.
Ortografia, il loro ultimo album, è in formato CD e LP per un totale di dieci tracce. L'etichetta per la quale esce è la umbra To Lose La Track.
Confermano di esserci ancora perchè dimostrano una coerenza paurosa per quanto riguarda stile, modo di suonare, timbro vocale. E' l'hardcore melodico indipendente italiano: ogni Paese ce l'ha ed il nostro ha come maggior rappresentante i Minnie's. Come ogni disco di hardcore melodico che si rispetti, la prima traccia dev'essere pompata a mille, e con Quanto costa una domanda abbiamo un breve riassunto di ciò che sarà l'intero lavoro. Stop'n'go a manetta, singalong assicurati e stacchi centratissimi. Il cantato è in italiano e, per produrre un lavoro così, bisogna averne fatta di strada: l'italiano, nel punkrock, non è così semplice. Riescono, per tutta la durata del disco, a non scadere in frasi banali, nei cori prolungati quando non si sa che cazzo dire per stare a tempo, in frasi scontate. Fiumi è pura vecchia scuola punk milanese anni '90: tonalità cupe, momenti lenti quando servono e un'introduzione parlata molto Good Riddance. Tragedia ci riporta ai primi lavori dei Thursday, quando cioè iniziavano ad andare di moda le frange; sei te è invece tutta incentrata su sferzanti ripartenze e da blocchi in area manco Pietro Vierchowod sui calci d'angolo. Daccapo scritto utto attaccato ci fa sentire in sala prove con loro perchè è così che si dice quando si sbaglia a suonare un pezzo; Capodanno inizia come i Green Day hanno iniziato più di una canzone ma, tra riprese east coast e ritmi Dischord ci porta finalmente al corone ficcante "Ed io non so pretendere, ed io non so pretendere lo stesso". Il tutto per entrare freneticamente nella traccia che più lunga dell'album, Ortografia. La canzone è un lunghissimo viaggio quasi strumentale, basso alla Postal Service e nevrasteniche derapate Washington. Atmosfera perfetta per dare il titolo ad un album che indisciplinatamente ci insegna a leggere e a scrivere. Una guida vocale nel museo straniero che hai sempre voluto visitare che, per la prima volta, non ti infastidisce quando te ne vorresti star lì a guardare le opere per i fattacci tuoi. E lo dicono anche loro, in una presentazione abbastanza formale: "L'ortografia è come la società civile, tutta un insieme di norme e di convenzioni che credono di regolare il modo corretto di stare al mondo. Nasci, impari il suono delle parole, il loro significato… alla fine codifichi il tutto attraverso la scrittura. Ogni lingua ha i suoi segni “giusti” ma quante ortografie ci sono al mondo?"
Il disco si conclude, nemmeno a dirlo, con un titolo come Ogni colpo è l'ultimo, acustica all'inizio ed ariosamente danzereccia subito dopo.
Alla fine è un disco molto soft, Ortografia. Spero non sia l'ultimo per i Minnie's perchè penso ci sia bisogno di gruppi come loro, nel bene e nel male, in Italia. E perchè, soprattutto, mancano ancora tre o quattro anni per eliminare definitivamente quel "quasi" ai vent'anni. Andatelo a dire ai Thursday. Andrea Vecchio

5 aprile 2013

This is head, MF/MB/, Yast: dalla Svezia tre emergenti di grande respiro


Per comprendere il livello dell'offerta musicale italiana è necessario, una volta ogni tanto, confrontarsi con quanto arriva dall'estero. A noi è capitata l'occasione di ricevere tre cd dalla Svezia, provenienti dall'etichetta Adrian recordings, che dopo svariati (piacevoli) ascolti ci hanno permesso di fare qualche considerazione.

Il primo cd è Colossus degli MF/MB/. La band, proveniente da una piccola cittadina svedese chiamata Bollnäs, è al secondo album, dopo un esordio particolarmente apprezzato: alcune loro canzoni sono utilizzate anche in serie televisive quali CSI:NY e The inbetweeners. Il secondo album è stato partorito in mezzo ad una lunga serie di malattie e lutti, ed inevitabilmente ha assunto un taglio particolare. Una discesa all'inferi, una profonda autoanalisi, con canzoni che parlano di quanto possa essere effimero il sentimento dell'amore, di quanta solitudine e quanto vuoto possano esserci nella malattia, e di quanto ci si senta impotenti di fronte alla morte di un amico. Le sonorità sono riconducibili all'incirca ai Maximo park e ai Placebo, in bilico tra l'espressività delle corde e la meccanicità dell'elettronica, ma il tutto viene rielaborato con curiosi inserti di space rock, con sintetizzatori dall'impronta futuristica e fantascientifica.

Il secondo dei cd che abbiamo ascoltato è YAST, della band omonima. Gli YAST sono originari di Sandviken, un polo siderurgico i cui abitanti non possono fare altro che sognare di essere altrove. E da questa esigenza di volare con la fantasia è nato un album di pop fantasioso e sognante, con una punta di nostalgia. Una band che va a ripescare dall'alternative rock degli anni '90 e dalle chitarre degli Smashing pumpkins, ma anche dagli anni '60 e '70, rielaborati anch'essi secondo i canoni dei '90, a volte un po' in stile Blur. L'album dà un'ottima impressione sin dal primo ascolto, con momenti estremamente interessanti e coinvolgenti come il singolo Stupid.

Dopo due cd che ci hanno fatto un'ottima impressione, abbiamo la fortuna di ascoltarne un terzo che forse è addirittura superiore ai precedenti: The album ID, dei This is head. La band era reduce da un ottimo album d'esordio, intitolato 0001, ma non aveva grandi idee per il secondo album. I quattro componenti del gruppo, legati da una solida amicizia, hanno passato mesi a giocare a ping pong nell'attesa che saltasse fuori qualche canzone, finché uno dei quattro ha dovuto confrontarsi con una dolorosa separazione e la band ha improvvisamente perso il piacere dello stare insieme. Dalle ceneri del loro periodo spensierato è nato così il materiale di The album ID, un disco che sembra avvolto da qualcosa di magico. Brani che in teoria dovrebbero essere racchiusi in una solida struttura pop eppure trovano sempre evoluzioni inaspettate, con imprevedibili code strumentali, richiami ai Visage degli anni '80 (Castaway) o ai Manic street preachers dei primi anni '90 (Illumination), e anche brani interamente strumentali (XVI) sullo stile dei Mogwai.

Che rapporto c'è tra questi tre album che abbiamo ascoltato e le produzioni italiane emergenti che recensiamo di solito? La risposta è che c'è qualche divergenza ma anche alcune inaspettate affinità. Innanzitutto, forse nel caso di questi tre album il confine di genere è più netto rispetto all'Italia. Forse c'è più sperimentazione sul versante dei suoni e della struttura dei pezzi, ma i confini di genere rimangono molto ben definibili. Le affinità che troviamo riguardano i richiami agli anni '90, che costituiscono sempre più spesso una fonte di grande ispirazione anche per molti artisti nostrani. La cosa da cui gli artisti emergenti italiani dovrebbero davvero imparare da questo confronto, però, è l'aria di internazionalità che si respira ascoltando questi lavori. Che poi è anche il motivo per il quale questi gruppi, benché ancora considerati emergenti, hanno già suonato in giro per l'Europa a supporto di nomi anche importanti. Marco Maresca

3 aprile 2013

Bad black sheep - 1991 - Rec. in 10 parole















I Bad black sheep sono una giovane band vicentina che propone un alternative rock di derivazione grunge che in quanto a sonorità rimanda ai primissimi anni '90. Il titolo del loro album d'esordio, uscito per l'etichetta Valery records è, infatti, 1991.

Recensione in 10 parole: italiano (il cantato), povera (la costruzione dei brani), mediocri (i testi), pessime (le scelte produttive e di mixaggio: il disco si sente malissimo e c'è la sensazione che sia una scelta voluta proprio per ricalcare il sound delle band di riferimento), incomprensibile (il cantato, anche qui per scelta di mixaggio), curioso (il fatto che il brano migliore dell'album sia la cover di Cuccurucucù di Battiato), faticoso (resistere fino alla fine del disco, soprattutto per l'insopportabile scelta dei suoni), frequenze (tagliate in maniera fastidiosa, con gli alti dei piatti troppo in evidenza e chitarre e voce senza profondità), mi dispiace (che il disco non abbia toccato le mie corde). Marco Maresca

Voto: *

Tracklist:
1. 1991
2. Altrove
3. Didone
4. Radio Varsavia
5. Igreja de Santa Maria
6. Non conta
7. Cuccurucucù
8. Special 50
9. Mr Davis
10. Alta velocità
11. Fiato trattenuto
12. 1000 miglia sotto la norma

Demenziale o geniale? Come giudicare il nuovo disco di Gozer il Gozeriano?


C’è sempre un po’ bisogno dell’anticonformismo più malsano, anche per dare un senso di novità in un momento in cui – musicalmente parlando – sembra un po’ tutto fermo. Con un nome ispirato al fantasma di “Ghostbusters” e con idee naif e gogliardiche, ecco a voi Quant’era verde la mia Mesopotamia dei bresciani Gozer il Gozeriano. 
Tematiche giovanili da outsider di provincia trattate senza peli sulla lingua, con testi col linguaggio volutamente cafone ma sincero (“proprio perché di speranza non ce n'è voglio far le cose zozze con te perciò amore si può solo scopare drogarsi da morire e dopo cazzeggiare, perciò rubiamo un trattore facciamoci le feste in un paesaggio agreste”, così cantano in Le cose zozze). Le parole pronunciate dal cantante Sid Picius (il cui stile sembra un incrocio malato tra Johnny Rotten e Piero Pelù!) sono ciò che resta maggiormente impresso in quest’album: tra attacchi non-sense alla compagna (Stronza isterica), deliri di vita extra-calcistici (Mano de dios) e luoghi comuni under 30 (Intellettuale di sinistra, in cui canta “Ma ciao sono un intellettuale di sinistra se tu fai il cattivo io farò il moralista se tu fai il moralista io farò il teppista e se mi offendi farò il cineasta”) ne esce un lavoro se non altro originale rispetto all’attuale panorama underground italiano.
Per quanto riguarda le musiche si passa volentieri dal lo-fi al punk-rock anni ’70, senza disdegnare ballate semi-orecchiabili (Il lentone) e finto folk d’autore (Fuck me Gozer). Gozer il Gozeriano è un fantasma schizoide apparso all’improvviso nel rock di provincia che potrebbe avere modo di farsi conoscere nel tempo, perché le idee naif in un contesto conformista sono sempre prese in considerazione. Sia nel bene che nel male. Marco Pagliari