27 settembre 2011
La vercellese Carlot-ta in finale al Tenco sezione "miglior opera prima"
Continua il successo della giovane e talentuosa cantautrice vercellese Carlotta Sillano, in arte Carlot-ta. Dopo aver ricevuto il premio Targa Giovani Supersound 2011 come “Miglior disco” lo scorso 23 settembre, presso il Teatro Masini di Faenza, il 15 ottobre prossimo al Teatro Goldoni di Livorno la ventunenne di Vercelli riceverà un altro ambito riconoscimento: il Premio Ciampi come Migliore opera prima. E non finisce qui, perché Make me a picture of the sun, questo è il titolo dell’album d’esordio uscito a marzo 2011 per l’etichetta Anna The Granny, si è guadagnato un posto in finale anche per l’assegnazione del Premio Tenco 2011 sempre come “Migliore opera prima”. A concorrere con Carlot-ta per l’aggiudicazione di questo altro importante premio ci saranno Cristiano Angelini, I Cani, Iosonouncane, Jang Senato e Rossoantico. Staremo a vedere cosa accadrà nei prossimi giorni. g.oc.
26 settembre 2011
Ascolti emergenti di settembre
Mr. Milk - S/t ****
Noi piccolissimi siti musicali spesso non abbiamo la forza di recensire in real time tutti i dischi che arrivano in redazione e qualche volta qualcosa rimane colpevolmente indietro. E' questo il caso di S/t di Mr. Milk, folksinger campano che affida il suo esordio a dodici brani intimissimi voce e chitarra acustica. Mr. Milk piacerà di sicuro a chi apprezza Nick Drake, Will Oldham o Bob Corn; la sua musica pecca forse di eccessiva fragilità elemento, questo, che potrebbe renderla detestabile ed inadatta alla maggior perte delle fruizioni quotidiane, ma nello stesso tempo amabile e necessaria. Unica concessione strumentale il pianoforte di Cardinal Legs il resto è solo voce e una chitarra sommessa. Sonorità adatte ad una stanzetta illuminata dalla fioca luce di una candela, tripudio di delicatezza e sensibilità. Mr. Milk riesce a conquistarci con un misto di immediatezza e malinconiche melodie, peccato non ci siano pezzi in italiano che avrebbero forse allontanato il nostro dall'ingombrantissima ombra di Nick Drake e lo avrebbe inserito in una timida scena minimal-folk cantata in italiano che nonostante gli sforzi stenta ad emergere (Le-Li, Comaneci, Paolo Saporiti, Brown And The Leaves e il già citato Bob Corn). Difficile identificare un brano da segnalare, il disco va assaporato come un unico flusso sonoro. Una nota curiosa: tra i produttori del disco c'è anche Alberto Belgesto di cui lungamente abbiamo parlato nella nostra ultima miniriunione di redazione. Che sia un caso? Roberto Conti
Palkoscenico al neon - Lucas **/
Arrabbiati, arrabbiatissimi! Contro tutto e contro tutti! Il Palkoscenico al Neon denuncia e urla rabbiosamente tutto quello che non va. Dieci tracce ad alta tensione dove le chitarre tirano giù i muri e le voci, perfettamente incastrate, ti sputano addosso parole al veleno.
Più tendente al punk che al crossover il lavoro acquista molto dopo alcuni ascolti, perché sarebbe troppo facile liquidarli subito come l’ennesima band dal suono hardcore. Qui c’è di più, perché il punk (che innegabilmente c’è) è solo una componente del sound della band. Il disco scorre molto bene e sono apprezzabilissime anche le cover di “Brucia di vita” dei Negazione e “Colpo di stato” di Stefano Rosso. Una citazione a parte la merita “Con un filo di voce” intensa, disperata e arricchita dalle seconde voci che aprono a una nuova dimensione il ritornello facendone senza dubbio il miglior pezzo del disco e che potrebbe diventare il vero punto di svolta della band.
Non saranno loro a salvare il mondo, ma non hanno paura di dire tutto quello pensano in un modo urgente e cattivo che travolge l’ascoltatore, e all’improvviso ci rendiamo conto che Lucas non è così distante ma spesso è proprio dentro di noi. Daniele Bertozzi
Mary On - Listen ***
Interessante nuovo singolo Listen di Mary on: sonorita' rock alla Evanescence e nella voce anche qualcosa di Tori Amos. Avrei preferito che il pezzo fosse in italiano visto che non ci sono cantautrici prettamente rock nel nostro panorama musicale. Il brano parte in "sordina" ma poi cresce di intensità, sarebbe interessante ascoltarlo anche con batteria e chitarra distorta, rispetto alla versione chitarra e voce, comunque molto evocativa. La caratteristica e calda voce di Mary on sarebbe perfetta anche in qualche pezzo ancora più rock, magari come una Cristina Scabbia dei Lacuna coil. Comunque i miei complimenti alla ragazza. Marco Colombo
Noi piccolissimi siti musicali spesso non abbiamo la forza di recensire in real time tutti i dischi che arrivano in redazione e qualche volta qualcosa rimane colpevolmente indietro. E' questo il caso di S/t di Mr. Milk, folksinger campano che affida il suo esordio a dodici brani intimissimi voce e chitarra acustica. Mr. Milk piacerà di sicuro a chi apprezza Nick Drake, Will Oldham o Bob Corn; la sua musica pecca forse di eccessiva fragilità elemento, questo, che potrebbe renderla detestabile ed inadatta alla maggior perte delle fruizioni quotidiane, ma nello stesso tempo amabile e necessaria. Unica concessione strumentale il pianoforte di Cardinal Legs il resto è solo voce e una chitarra sommessa. Sonorità adatte ad una stanzetta illuminata dalla fioca luce di una candela, tripudio di delicatezza e sensibilità. Mr. Milk riesce a conquistarci con un misto di immediatezza e malinconiche melodie, peccato non ci siano pezzi in italiano che avrebbero forse allontanato il nostro dall'ingombrantissima ombra di Nick Drake e lo avrebbe inserito in una timida scena minimal-folk cantata in italiano che nonostante gli sforzi stenta ad emergere (Le-Li, Comaneci, Paolo Saporiti, Brown And The Leaves e il già citato Bob Corn). Difficile identificare un brano da segnalare, il disco va assaporato come un unico flusso sonoro. Una nota curiosa: tra i produttori del disco c'è anche Alberto Belgesto di cui lungamente abbiamo parlato nella nostra ultima miniriunione di redazione. Che sia un caso? Roberto Conti
Palkoscenico al neon - Lucas **/
Arrabbiati, arrabbiatissimi! Contro tutto e contro tutti! Il Palkoscenico al Neon denuncia e urla rabbiosamente tutto quello che non va. Dieci tracce ad alta tensione dove le chitarre tirano giù i muri e le voci, perfettamente incastrate, ti sputano addosso parole al veleno.
Più tendente al punk che al crossover il lavoro acquista molto dopo alcuni ascolti, perché sarebbe troppo facile liquidarli subito come l’ennesima band dal suono hardcore. Qui c’è di più, perché il punk (che innegabilmente c’è) è solo una componente del sound della band. Il disco scorre molto bene e sono apprezzabilissime anche le cover di “Brucia di vita” dei Negazione e “Colpo di stato” di Stefano Rosso. Una citazione a parte la merita “Con un filo di voce” intensa, disperata e arricchita dalle seconde voci che aprono a una nuova dimensione il ritornello facendone senza dubbio il miglior pezzo del disco e che potrebbe diventare il vero punto di svolta della band.
Non saranno loro a salvare il mondo, ma non hanno paura di dire tutto quello pensano in un modo urgente e cattivo che travolge l’ascoltatore, e all’improvviso ci rendiamo conto che Lucas non è così distante ma spesso è proprio dentro di noi. Daniele Bertozzi
Mary On - Listen ***
Interessante nuovo singolo Listen di Mary on: sonorita' rock alla Evanescence e nella voce anche qualcosa di Tori Amos. Avrei preferito che il pezzo fosse in italiano visto che non ci sono cantautrici prettamente rock nel nostro panorama musicale. Il brano parte in "sordina" ma poi cresce di intensità, sarebbe interessante ascoltarlo anche con batteria e chitarra distorta, rispetto alla versione chitarra e voce, comunque molto evocativa. La caratteristica e calda voce di Mary on sarebbe perfetta anche in qualche pezzo ancora più rock, magari come una Cristina Scabbia dei Lacuna coil. Comunque i miei complimenti alla ragazza. Marco Colombo
25 settembre 2011
I vecchi difetti dei Marta sui tubi
I Marta sui Tubi festeggiano la Festa dell’Uva di Borgomanero insieme ad una piazza Martiri davvero gremita. La redazione di "La Nuova Primavera" li ha incontrati per voi (e per noi, ndr)prima dell’esibizione, per quattro chiacchiere davanti ad un aperitivo.
Ho avuto il piacere di vedervi dal vivo per la prima volta vicino a Castelletto Cervo (Biella), in quello che un tempo si chiamava Pudget Sound. Il gruppo era ancora soltanto un trio (Giovanni Gulino alla voce, Carmelo Pipitone alla chitarra e Ivan Paolini alla batteria), era appena uscito il secondo album, e ricordo che il concerto non poté continuare a causa di una canzone un po’ scherzosa che voleva prendere in giro il titolare del locale…
Giovanni: «Ci ricordiamo benissimo di quell’episodio perché è stato veramente eclatante. Il titolare era poco gentile fin dall’inizio, siamo arrivati lì e non ci ha nemmeno salutati e ci ha subito detto che se non avessimo avuto l’agibilità non ci avrebbe fatto entrare nel locale. Noi gli rispondiamo: “Tranquillo, noi siamo qua per lavorare, adesso vediamo di risolvere la questione, magari facciamo arrivare un fax…”. Insomma, quasi a pregarlo di farci suonare. E ovviamente lui continuava a insistere su questa cosa dell’agibilità, e nel camerino c’era anche il decalogo di quello che si poteva fare e di come ci si doveva comportare. Era chiaramente una persona che non ha mai fatto questo lavoro e che probabilmente prima faceva altro e si è improvvisato, con risultati veramente imbarazzanti. Vabè, quindi facemmo questa canzone parodia di Felicità di Albano e Romina, cantando Agibilità e prendendolo un po’ in giro… lui è salito sul palco e ha preso il microfono per dire qualcosa, ma il nostro fonico ha abbassato il volume e il pubblico ha cominciato a urlare “Scemo-scemo”. Lui allora è andato al mixer e ha staccato l’impianto».
Cos’è cambiato da allora?
Giovanni: «E’ cambiato che poco fa è venuto un tipo vicino al palco e ci fa: “Ma c’è dixieland questa sera?”. Io parlo con Roberto, il nostro tour manager, e gli chiedo se prima di noi c’è un gruppo che si chiama Dixieland. Ovviamente Roberto mi ricorda che Dixieland è un genere di musica, e il signore mi dice che è bellissimo, di ascoltarlo che fa bene. Ecco, siamo passati dall’Agibilità ai suggerimenti musicali… Beh, scherzi a parte, sono passati degli anni e sono cambiate tante cose; ci siamo moltiplicati (ride, ndr) e abbiamo fatto altri tre dischi. Con l’uscita del terzo album, “Sushi e Coca”, alla formazione originale si sono infatti aggiunti anche Paolo Pischedda, al piano, e Mattia Boschi, al violoncello».
E come siete arrivati fino alla Festa dell’Uva di Borgomanero?
Giovanni: «Con il nostro furgone passando da Bassano del Grappa dove abbiamo suonato ieri sera».
Ivan: «A parte gli scherzi, siamo qui perché uno degli organizzatori è un amico del “Disordine delle cose”, un gruppo di Novara con cui ogni tanto collaboriamo. Non veniamo troppo spesso da queste parti, ma avevamo già suonato anche a Romagnano e a Bogogno».
Siete quasi al termine del “Carne con gli occhi tour”, cosa avete voluto raccontare in questo quarto album?
Ivan: «Il nulla (scherza, ndr), e ci siamo riusciti molto bene. Tornando seri per un momento, il disco tocca tanti aspetti della vita, in questo caso ha a che fare molto con un ultimo periodo storico italiano, che non possiamo non definire parecchio incasinato, se mi concedi il termine. Ci sono pezzi che riguardano la vita di tutti noi, più alcune cose intime, come ad esempio il testo di “Guinzaglio”».
E in cosa si differenzia dagli album precedenti?
Ivan: «Siamo più vecchi (ride, ndr), forse è questa la differenza».
Carmelo: «Questo dovrebbe dircelo chi l’ha ascoltato, perché quando si registra un disco sei talmente preso dal progetto, proprio perché lo stai facendo tu, e non riesci a cogliere le differenze o i cambiamenti. Per noi è come se fosse il primo album ogni volta, è come un figlio che nasce».
Forse si può dire che sia un po’ più “difficile” rispetto agli album precedenti?
Giovanni: «E’ quello che più o meno hanno detto anche i critici. Anche se secondo me la critica è sempre un po’ strana: ti premia solo quando fai un album difficile o quando sei al primo disco, un po’ originale o innovativo».
A proposito, com’è il vostro rapporto con la critica?
Ivan: «Beh, a volte la sopportiamo male».
Giovanni: «In realtà dipende da chi è scritta: perché se sono critiche intelligenti le puoi anche accettare. Ma non sempre le recensioni o i giudizi sono scritti da chi di musica se ne intende veramente, da chi ha un certo bagaglio culturale. La musica bisogna viverla, per capirla e giudicarla».
Qual è secondo i Marta sui Tubi la forza dei Marta sui tubi?
Carmelo: «Sicuramente lo spettacolo live, che è quello su cui puntiamo tutto ciò che abbiamo. E prima o poi riusciremo a fare un disco dal vivo. Suonare dal vivo non è la stessa cosa che farlo in studio, sul palco c’è la tensione, l’adrenalina e uno stesso pezzo può essere suonato in maniera sempre diversa».
Giovanni: «Quello che più ci interessa è suonare dal vivo e fare nuove canzoni: vivere ogni volta emozioni diverse, in piazze e città diverse e comunicare attraverso i nostri testi e la nostra musica».
Qual è, se c’è, la canzone a cui siete più legati?
Giovanni: «Come facciamo a rispondere? E’ come se chiedi a un padre a quale dei suoi figli vuole più bene. Di solito sono sempre quelle più recenti che ti appassionano di più, forse perché non le sai ancora suonare bene e ti devi impegnare di più».
Quando riprenderanno i vostri Secret Concert, e soprattutto quando sarete di nuovo da queste parti?
Giovanni: «Per ora abbiamo sospeso il progetto, si tratta di cose estemporanee e non c’è una programmazione vera e propria. In ogni caso, se ricominceranno pubblicheremo le informazioni e le date e pochi giorni di distanza dall’evento».
Carmelo: «Purtroppo ora non è possibile perché siamo troppo impegnati con il tour; di solito riusciamo a organizzare i Secret Concert proprio durante alcuni periodi morti in mezzo alle date dei concerti».
Per concludere, quali sono i “Vecchi Difetti” dei Marta sui Tubi?
Carmelo: «Ognuno ha i suoi, e sono sempre i soliti, e diventano sempre peggio. Ma se togli uno dei Marta sui Tubi dai Marta sui Tubi non è più la stessa cosa».
Giovanni: «Beh, il difetto di Carmelo è che devo sempre offrire per forza la birra ai poliziotti, mentre Ivan dorme continuamente durante i viaggi che facciamo sul nostro furgone».
Ah, dimenticavo… perché proprio Marta sui Tubi?
Giovanni: «Lo sapevo (ride, ndr). Ce lo chiedono quasi tutti, ma in realtà non c’è una sola e vera risposta… quella di oggi è che è l’anagramma di… “Mastuurbati”, con due u però».
Intervista di Valentina Matteo
Ho avuto il piacere di vedervi dal vivo per la prima volta vicino a Castelletto Cervo (Biella), in quello che un tempo si chiamava Pudget Sound. Il gruppo era ancora soltanto un trio (Giovanni Gulino alla voce, Carmelo Pipitone alla chitarra e Ivan Paolini alla batteria), era appena uscito il secondo album, e ricordo che il concerto non poté continuare a causa di una canzone un po’ scherzosa che voleva prendere in giro il titolare del locale…
Giovanni: «Ci ricordiamo benissimo di quell’episodio perché è stato veramente eclatante. Il titolare era poco gentile fin dall’inizio, siamo arrivati lì e non ci ha nemmeno salutati e ci ha subito detto che se non avessimo avuto l’agibilità non ci avrebbe fatto entrare nel locale. Noi gli rispondiamo: “Tranquillo, noi siamo qua per lavorare, adesso vediamo di risolvere la questione, magari facciamo arrivare un fax…”. Insomma, quasi a pregarlo di farci suonare. E ovviamente lui continuava a insistere su questa cosa dell’agibilità, e nel camerino c’era anche il decalogo di quello che si poteva fare e di come ci si doveva comportare. Era chiaramente una persona che non ha mai fatto questo lavoro e che probabilmente prima faceva altro e si è improvvisato, con risultati veramente imbarazzanti. Vabè, quindi facemmo questa canzone parodia di Felicità di Albano e Romina, cantando Agibilità e prendendolo un po’ in giro… lui è salito sul palco e ha preso il microfono per dire qualcosa, ma il nostro fonico ha abbassato il volume e il pubblico ha cominciato a urlare “Scemo-scemo”. Lui allora è andato al mixer e ha staccato l’impianto».
Cos’è cambiato da allora?
Giovanni: «E’ cambiato che poco fa è venuto un tipo vicino al palco e ci fa: “Ma c’è dixieland questa sera?”. Io parlo con Roberto, il nostro tour manager, e gli chiedo se prima di noi c’è un gruppo che si chiama Dixieland. Ovviamente Roberto mi ricorda che Dixieland è un genere di musica, e il signore mi dice che è bellissimo, di ascoltarlo che fa bene. Ecco, siamo passati dall’Agibilità ai suggerimenti musicali… Beh, scherzi a parte, sono passati degli anni e sono cambiate tante cose; ci siamo moltiplicati (ride, ndr) e abbiamo fatto altri tre dischi. Con l’uscita del terzo album, “Sushi e Coca”, alla formazione originale si sono infatti aggiunti anche Paolo Pischedda, al piano, e Mattia Boschi, al violoncello».
E come siete arrivati fino alla Festa dell’Uva di Borgomanero?
Giovanni: «Con il nostro furgone passando da Bassano del Grappa dove abbiamo suonato ieri sera».
Ivan: «A parte gli scherzi, siamo qui perché uno degli organizzatori è un amico del “Disordine delle cose”, un gruppo di Novara con cui ogni tanto collaboriamo. Non veniamo troppo spesso da queste parti, ma avevamo già suonato anche a Romagnano e a Bogogno».
Siete quasi al termine del “Carne con gli occhi tour”, cosa avete voluto raccontare in questo quarto album?
Ivan: «Il nulla (scherza, ndr), e ci siamo riusciti molto bene. Tornando seri per un momento, il disco tocca tanti aspetti della vita, in questo caso ha a che fare molto con un ultimo periodo storico italiano, che non possiamo non definire parecchio incasinato, se mi concedi il termine. Ci sono pezzi che riguardano la vita di tutti noi, più alcune cose intime, come ad esempio il testo di “Guinzaglio”».
E in cosa si differenzia dagli album precedenti?
Ivan: «Siamo più vecchi (ride, ndr), forse è questa la differenza».
Carmelo: «Questo dovrebbe dircelo chi l’ha ascoltato, perché quando si registra un disco sei talmente preso dal progetto, proprio perché lo stai facendo tu, e non riesci a cogliere le differenze o i cambiamenti. Per noi è come se fosse il primo album ogni volta, è come un figlio che nasce».
Forse si può dire che sia un po’ più “difficile” rispetto agli album precedenti?
Giovanni: «E’ quello che più o meno hanno detto anche i critici. Anche se secondo me la critica è sempre un po’ strana: ti premia solo quando fai un album difficile o quando sei al primo disco, un po’ originale o innovativo».
A proposito, com’è il vostro rapporto con la critica?
Ivan: «Beh, a volte la sopportiamo male».
Giovanni: «In realtà dipende da chi è scritta: perché se sono critiche intelligenti le puoi anche accettare. Ma non sempre le recensioni o i giudizi sono scritti da chi di musica se ne intende veramente, da chi ha un certo bagaglio culturale. La musica bisogna viverla, per capirla e giudicarla».
Qual è secondo i Marta sui Tubi la forza dei Marta sui tubi?
Carmelo: «Sicuramente lo spettacolo live, che è quello su cui puntiamo tutto ciò che abbiamo. E prima o poi riusciremo a fare un disco dal vivo. Suonare dal vivo non è la stessa cosa che farlo in studio, sul palco c’è la tensione, l’adrenalina e uno stesso pezzo può essere suonato in maniera sempre diversa».
Giovanni: «Quello che più ci interessa è suonare dal vivo e fare nuove canzoni: vivere ogni volta emozioni diverse, in piazze e città diverse e comunicare attraverso i nostri testi e la nostra musica».
Qual è, se c’è, la canzone a cui siete più legati?
Giovanni: «Come facciamo a rispondere? E’ come se chiedi a un padre a quale dei suoi figli vuole più bene. Di solito sono sempre quelle più recenti che ti appassionano di più, forse perché non le sai ancora suonare bene e ti devi impegnare di più».
Quando riprenderanno i vostri Secret Concert, e soprattutto quando sarete di nuovo da queste parti?
Giovanni: «Per ora abbiamo sospeso il progetto, si tratta di cose estemporanee e non c’è una programmazione vera e propria. In ogni caso, se ricominceranno pubblicheremo le informazioni e le date e pochi giorni di distanza dall’evento».
Carmelo: «Purtroppo ora non è possibile perché siamo troppo impegnati con il tour; di solito riusciamo a organizzare i Secret Concert proprio durante alcuni periodi morti in mezzo alle date dei concerti».
Per concludere, quali sono i “Vecchi Difetti” dei Marta sui Tubi?
Carmelo: «Ognuno ha i suoi, e sono sempre i soliti, e diventano sempre peggio. Ma se togli uno dei Marta sui Tubi dai Marta sui Tubi non è più la stessa cosa».
Giovanni: «Beh, il difetto di Carmelo è che devo sempre offrire per forza la birra ai poliziotti, mentre Ivan dorme continuamente durante i viaggi che facciamo sul nostro furgone».
Ah, dimenticavo… perché proprio Marta sui Tubi?
Giovanni: «Lo sapevo (ride, ndr). Ce lo chiedono quasi tutti, ma in realtà non c’è una sola e vera risposta… quella di oggi è che è l’anagramma di… “Mastuurbati”, con due u però».
Intervista di Valentina Matteo
18 settembre 2011
La vera scoperta dell'autunno è Edda Magnason. Svezia e Islanda, cammelli e pianure allagate convivono in un disco onirico ed elegante
Potremmo definirla un'attualissima Alice nel Paese delle Meraviglie, ci regala un disco che non ti aspetti, ricercatissimo e nel contempo godibile. Stiamo parlando della cantautrice svedese Edda Magnason con il nuovo album Goods, un eccentrico ma elegantissimo mix di pop, folk e jazz, uscito lo scorso 16 settembre per l'etichetta di Malmo Adrian Recordings. Questo disco è un'autentiva opera d'arte, ascoltarlo trasporta in una sorta di realtà parallela e incantevole. Come nell'album precedente Edda accompagna l'ascoltatore con le sue fresche liriche e la sua voce avventurosa, ma in Goods non è solo il pianoforte a formare l'ossatura musicale: qui c'è un'intera orchestra, strane tastiere, sitars elettrificati e cori di marinai russi. La musica conduce attraverso città e jiungle, giù, al porto, dove i pescherecci stanno partendo per il Giappone. Il modo particolare di suonare il pianoforte di Edda conduce in vicoli con discariche e nidi di gazze.
Ci sono brani ballabili, come Handsome, o l'open track Camera, malinconiche canzoni d'amore e di nostalgia come Ancient Star My Innocence Heart.
I testi di Edda sono soprattutto immagini, a volte rappresentano episodi magici della vita quotidiana, altre volte raccontano intere storie.
Nei testi giocosi si possono intravvedere anche accenni alla politica, come in Magpie's Nest:
"The reapers wrap the crops in silk and put it on a cargo ship / They open up another tin with baked beans, for dinner, breakfast and for lunch / The artists sell their love songs to baby diapers, jeans and cars / And deep down into the garbage, I found a golden cookie jar". A volte non ci sono parole e allora la musica racconta da sola l'intera storia, come in Hug Jag Forestaller Mig Det Ar Att Segla (How I imagine sailing). In Falling Asleep To A Kitchen Conversation le parole sono "versi" che trasformano il brano in una nenia infantile ma bellissima.
Edda ha disegnato personalmente il booklet del disco lavorandoci durante le registrazioni dell'album: "Alcune illustrazioni le ho fatte quando stavo scrivendo le canzoni - si legge nella nota stampa - altre sono venute fuori mentre le stavamo arrangiando. La ballerina di flamenco per One man show l'ho disegnata al termine di una mattinata in studio, dopo che avevamo creato una nostra personale danza irlandese. Per Falling Asleep To A Kitchen Conversation invece il disegno è stato fatto prima della canzone". Edda Magnason, pianista, cantante e autrice, è cresciuta in campagna, nel sud della Svezia. Suo padre è originario, come suggerisce anche il cognome, dell'Islanda. Il suo primo album, omonimo, è stato pubblicato nel 2010, ora Goods speriamo possa regalarle una vasta e meritatissima platea anche in Italia.
Roberto Conti
Ci sono brani ballabili, come Handsome, o l'open track Camera, malinconiche canzoni d'amore e di nostalgia come Ancient Star My Innocence Heart.
I testi di Edda sono soprattutto immagini, a volte rappresentano episodi magici della vita quotidiana, altre volte raccontano intere storie.
Nei testi giocosi si possono intravvedere anche accenni alla politica, come in Magpie's Nest:
"The reapers wrap the crops in silk and put it on a cargo ship / They open up another tin with baked beans, for dinner, breakfast and for lunch / The artists sell their love songs to baby diapers, jeans and cars / And deep down into the garbage, I found a golden cookie jar". A volte non ci sono parole e allora la musica racconta da sola l'intera storia, come in Hug Jag Forestaller Mig Det Ar Att Segla (How I imagine sailing). In Falling Asleep To A Kitchen Conversation le parole sono "versi" che trasformano il brano in una nenia infantile ma bellissima.
Edda ha disegnato personalmente il booklet del disco lavorandoci durante le registrazioni dell'album: "Alcune illustrazioni le ho fatte quando stavo scrivendo le canzoni - si legge nella nota stampa - altre sono venute fuori mentre le stavamo arrangiando. La ballerina di flamenco per One man show l'ho disegnata al termine di una mattinata in studio, dopo che avevamo creato una nostra personale danza irlandese. Per Falling Asleep To A Kitchen Conversation invece il disegno è stato fatto prima della canzone". Edda Magnason, pianista, cantante e autrice, è cresciuta in campagna, nel sud della Svezia. Suo padre è originario, come suggerisce anche il cognome, dell'Islanda. Il suo primo album, omonimo, è stato pubblicato nel 2010, ora Goods speriamo possa regalarle una vasta e meritatissima platea anche in Italia.
Roberto Conti
17 settembre 2011
Il rigogolo del bosco di Leri
I camini della centrale si specchiano nell’acqua come se avessero una seconda anima.
Da quando venticinque anni fa l’avevano costruita, era diventata la signora incontrastata delle risaie, come una madre austera e dominante vigila su di loro.
Il grigio antracite delle due torri, soprattutto quando dalle Alpi arriva a grandi passi fragorosi un temporale, si fonde con il colore del cielo in un’osmosi fra tre elementi.
Io lavoro come custode in questo luogo nel contempo macabro e meraviglioso: accanto al mio gabbiotto, afoso in estate e ancor meno ospitale nel gelido inverno, sorge la villa padronale che appartenne a Camillo Benso conte di Cavour. Per anni è stata abbandonata all’incuria ed è diventata la casa di uno stormo di taccole, corvidi maestri dell’aria che nella quiete della dimora hanno insediato una colonia dove allevare la prole.
Da poche settimane, per i 150 anni dell’Unità d’Italia, hanno deciso di ristrutturare la villa (capriccio che il Governo ha dovuto soddisfare per quietare il trasformismo politico dei “responsabili” parlamentari locali), anche se per ora c’è solo una gigantesca impalcatura tricolore, visibile fin dalla strada delle grange.
Tutta la vegetazione che in anni di completo abbandono aveva preso possesso della villa e del cortile è stata rimossa e con essa se n’è andato anche il fascino misterioso che si respirava entrando di soppiatto nell’aia, in cui l’erba era talmente alta da nascondere gli attrezzi agricoli di un tempo, ancora disseminati qua e là, come se la corte fosse stata abbandonata in tutta fretta.
Scostando le imposte alle finestre, si potevano intravedere nel buio i brandelli dei decori e gli stucchi che affrescavano le volte e le pareti; mentre nell’ingresso una gigantesca statua decapitata di papà Cavour toglieva ogni dubbio sulla proprietà dell’immobile.
Nonostante l’abbandono, erano in molti a venire in pellegrinaggio.
Tra sedicenti esploratori, amanti della natura che attorno alla villa è rigogliosa più che mai e coppiette in cerca di un luogo isolato (e non particolarmente igienico) ove appartarsi, il via vai di gente era relativamente intenso.
Ora abbiamo un’impalcatura propagandistica che resterà per anni.
Addio mistero, addio esplorazioni, addio coppiette, addio taccole con piccoli al seguito.
Ma torniamo al mio lavoro nella centrale che doveva essere nucleare, e poi dopo il referendum del 1987 è stata convertita in turbogas.
Dalla mia sedia girevole ho l’illusione di vivere in un posto incontaminato: accanto alle torri, da un lato ci sono le risaie pullulanti di ardeidi e di anatre, dall’altro c’è il bosco di Leri, un lembo di quello che rimane del paesaggio padano originario, prima che la monocultura risicola uniformasse tutto. Anche nel bosco, complici i fumi che escono dai camini che spingono anche il più ingenuo cacciatore a tenersi a distanza, è tutto un fiorire di specie che altrimenti difficilmente si vedrebbero.
L’averla accompagna la volpe nel suo girovagare, quasi volesse tenerla sotto controllo. Il tasso fa capolino prima del tramonto e va a rovistare nell’unico cassonetto, posizionato proprio davanti all’ingresso della centrale, vicino al mio gabbiotto.
L’altra sera, facendo il giro perimetrale dell’impianto, mi sono imbattuto persino nella carcassa di un capriolo. Riposa in pace.
Sono confinato qui da sei anni: il massimo che mi viene richiesto è schiacciare un tasto rosso per aprire il cancello automatico e cigolante che conduce i camion e gli odiosi ingegneri energetici (ancor di più lo sono quelli gestionali, anche se sono meno numerosi dei primi) all’area recintata dell’impianto.
Non ho colleghi e la mia completa solitudine è spezzata solamente da queste presenze naturali di cui poco fa vi ho riferito.
La mia è una scelta meditata e nel contempo obbligata.
Anni fa ero un giornalista stimato, abitavo e lavoravo in una media città della provincia piemontese, dove la precarietà che i trentacinquenni di oggi sono costretti a vivere mi ha portato nel tempo a diventare aggressivo e disilluso. Non ho figli. Non ne voglio e non me li potrei permettere.
Non so se conoscete le regole del lavoro giornalistico degli Anni Zero, ma non tedierei nemmeno il mio peggior nemico entrando nel discorso.
Sunteggiando: le tutele non esistono e i soldi sono pochi.
Ergo, chi fa il proprio lavoro onestamente e non si mette a novanta a favore del politico di turno, prima o poi viene spazzato via.
A me è successo esattamente questo, e sono finito a trascorrere i miei giorni nel gabbiotto del custode di una centrale a turbogas immersa nel nulla delle risaie vercellesi.
In questo luogo, nonostante tutto, ho un’esistenza da molti punti di vista più appagante.
Quando ogni due settimane ho mezza giornata libera vado a trovare la mia unica amica, Clara. Abita a Castelmerlino, località composta unicamente dalla sua casa e da un piccolo cimitero abbandonato.
L’unica abitazione nel raggio di quindici chilometri, ovviamente immersa nel nulla delle risaie.
Clara si sostenta dell’eredità che le ha lasciato un ricco zio agricoltore. Ma nonostante i denari vive come una mentecatta, circondata di gatti a cui peraltro sono allergico.
Quando ci vediamo mi parla lungamente di Goya di cui sa tutto, fino a quando la sua gola non si annoia e decide di zittirsi di colpo.
Quasi sempre mi offre dell’oppio e dopo averlo fumato i nostri corpi, nel frattempo diventati simili a marmellate umane, si accasciano sul letto matrimoniale con il copriletto rosa antico, come la cascina che lo ospita.
A metà strada tra il sonno e la veglia, lotto senza violenza per sottrarmi al suo abbraccio, apro gli occhi e mi scopro dentro Clara.
La penetro con tale lentezza che lei nemmeno apre gli occhi. Questo rituale si ripete con puntualità ogni volta che ci vediamo, regalandoci una felicità fisica e palpabile.
Al risveglio le parlo degli animali che popolano i dintorni della centrale, mentre l’oppio ci lascia un fastidiosissimo prurito, il più classico dei suoi effetti collaterali.
Poi attacco raccontando aneddoti relativi a quando stavo in città e ogni giorno incontravo una marea di gente. Ero io che a quel punto la inondavo con una Babele di parole.
Al termine del discorso mi incupivo di colpo. Mi sentivo come un naufrago e comprendevo che questa era la rappresentazione più esatta dell’uomo che insegue quel che fu un giorno e non lo trova.
A quel punto lei mi faceva notare il suono flautato che proveniva dagli alberi appena fuori dalla casa. «È un rigogolo. Sai che è difficilissimo vederlo. È strano che ce ne sia uno proprio qui, vicino alla centrale».Sulle sue labbra si abbozzava un sorriso silenzioso e breve. E mentre pensavo alla fragilità della vita, ai pigri e timidi omaggi che a volte rendiamo ai nostri amori, capii che l’amavo e che ero ragionevolmente felice di dividere con lei il presente e il futuro in questo luogo contaminato e forse proprio per questo ancora così ospitale.
Roberto Conti
foto di Diana Debord
Da quando venticinque anni fa l’avevano costruita, era diventata la signora incontrastata delle risaie, come una madre austera e dominante vigila su di loro.
Il grigio antracite delle due torri, soprattutto quando dalle Alpi arriva a grandi passi fragorosi un temporale, si fonde con il colore del cielo in un’osmosi fra tre elementi.
Io lavoro come custode in questo luogo nel contempo macabro e meraviglioso: accanto al mio gabbiotto, afoso in estate e ancor meno ospitale nel gelido inverno, sorge la villa padronale che appartenne a Camillo Benso conte di Cavour. Per anni è stata abbandonata all’incuria ed è diventata la casa di uno stormo di taccole, corvidi maestri dell’aria che nella quiete della dimora hanno insediato una colonia dove allevare la prole.
Da poche settimane, per i 150 anni dell’Unità d’Italia, hanno deciso di ristrutturare la villa (capriccio che il Governo ha dovuto soddisfare per quietare il trasformismo politico dei “responsabili” parlamentari locali), anche se per ora c’è solo una gigantesca impalcatura tricolore, visibile fin dalla strada delle grange.
Tutta la vegetazione che in anni di completo abbandono aveva preso possesso della villa e del cortile è stata rimossa e con essa se n’è andato anche il fascino misterioso che si respirava entrando di soppiatto nell’aia, in cui l’erba era talmente alta da nascondere gli attrezzi agricoli di un tempo, ancora disseminati qua e là, come se la corte fosse stata abbandonata in tutta fretta.
Scostando le imposte alle finestre, si potevano intravedere nel buio i brandelli dei decori e gli stucchi che affrescavano le volte e le pareti; mentre nell’ingresso una gigantesca statua decapitata di papà Cavour toglieva ogni dubbio sulla proprietà dell’immobile.
Nonostante l’abbandono, erano in molti a venire in pellegrinaggio.
Tra sedicenti esploratori, amanti della natura che attorno alla villa è rigogliosa più che mai e coppiette in cerca di un luogo isolato (e non particolarmente igienico) ove appartarsi, il via vai di gente era relativamente intenso.
Ora abbiamo un’impalcatura propagandistica che resterà per anni.
Addio mistero, addio esplorazioni, addio coppiette, addio taccole con piccoli al seguito.
Ma torniamo al mio lavoro nella centrale che doveva essere nucleare, e poi dopo il referendum del 1987 è stata convertita in turbogas.
Dalla mia sedia girevole ho l’illusione di vivere in un posto incontaminato: accanto alle torri, da un lato ci sono le risaie pullulanti di ardeidi e di anatre, dall’altro c’è il bosco di Leri, un lembo di quello che rimane del paesaggio padano originario, prima che la monocultura risicola uniformasse tutto. Anche nel bosco, complici i fumi che escono dai camini che spingono anche il più ingenuo cacciatore a tenersi a distanza, è tutto un fiorire di specie che altrimenti difficilmente si vedrebbero.
L’averla accompagna la volpe nel suo girovagare, quasi volesse tenerla sotto controllo. Il tasso fa capolino prima del tramonto e va a rovistare nell’unico cassonetto, posizionato proprio davanti all’ingresso della centrale, vicino al mio gabbiotto.
L’altra sera, facendo il giro perimetrale dell’impianto, mi sono imbattuto persino nella carcassa di un capriolo. Riposa in pace.
Sono confinato qui da sei anni: il massimo che mi viene richiesto è schiacciare un tasto rosso per aprire il cancello automatico e cigolante che conduce i camion e gli odiosi ingegneri energetici (ancor di più lo sono quelli gestionali, anche se sono meno numerosi dei primi) all’area recintata dell’impianto.
Non ho colleghi e la mia completa solitudine è spezzata solamente da queste presenze naturali di cui poco fa vi ho riferito.
La mia è una scelta meditata e nel contempo obbligata.
Anni fa ero un giornalista stimato, abitavo e lavoravo in una media città della provincia piemontese, dove la precarietà che i trentacinquenni di oggi sono costretti a vivere mi ha portato nel tempo a diventare aggressivo e disilluso. Non ho figli. Non ne voglio e non me li potrei permettere.
Non so se conoscete le regole del lavoro giornalistico degli Anni Zero, ma non tedierei nemmeno il mio peggior nemico entrando nel discorso.
Sunteggiando: le tutele non esistono e i soldi sono pochi.
Ergo, chi fa il proprio lavoro onestamente e non si mette a novanta a favore del politico di turno, prima o poi viene spazzato via.
A me è successo esattamente questo, e sono finito a trascorrere i miei giorni nel gabbiotto del custode di una centrale a turbogas immersa nel nulla delle risaie vercellesi.
In questo luogo, nonostante tutto, ho un’esistenza da molti punti di vista più appagante.
Quando ogni due settimane ho mezza giornata libera vado a trovare la mia unica amica, Clara. Abita a Castelmerlino, località composta unicamente dalla sua casa e da un piccolo cimitero abbandonato.
L’unica abitazione nel raggio di quindici chilometri, ovviamente immersa nel nulla delle risaie.
Clara si sostenta dell’eredità che le ha lasciato un ricco zio agricoltore. Ma nonostante i denari vive come una mentecatta, circondata di gatti a cui peraltro sono allergico.
Quando ci vediamo mi parla lungamente di Goya di cui sa tutto, fino a quando la sua gola non si annoia e decide di zittirsi di colpo.
Quasi sempre mi offre dell’oppio e dopo averlo fumato i nostri corpi, nel frattempo diventati simili a marmellate umane, si accasciano sul letto matrimoniale con il copriletto rosa antico, come la cascina che lo ospita.
A metà strada tra il sonno e la veglia, lotto senza violenza per sottrarmi al suo abbraccio, apro gli occhi e mi scopro dentro Clara.
La penetro con tale lentezza che lei nemmeno apre gli occhi. Questo rituale si ripete con puntualità ogni volta che ci vediamo, regalandoci una felicità fisica e palpabile.
Al risveglio le parlo degli animali che popolano i dintorni della centrale, mentre l’oppio ci lascia un fastidiosissimo prurito, il più classico dei suoi effetti collaterali.
Poi attacco raccontando aneddoti relativi a quando stavo in città e ogni giorno incontravo una marea di gente. Ero io che a quel punto la inondavo con una Babele di parole.
Al termine del discorso mi incupivo di colpo. Mi sentivo come un naufrago e comprendevo che questa era la rappresentazione più esatta dell’uomo che insegue quel che fu un giorno e non lo trova.
A quel punto lei mi faceva notare il suono flautato che proveniva dagli alberi appena fuori dalla casa. «È un rigogolo. Sai che è difficilissimo vederlo. È strano che ce ne sia uno proprio qui, vicino alla centrale».Sulle sue labbra si abbozzava un sorriso silenzioso e breve. E mentre pensavo alla fragilità della vita, ai pigri e timidi omaggi che a volte rendiamo ai nostri amori, capii che l’amavo e che ero ragionevolmente felice di dividere con lei il presente e il futuro in questo luogo contaminato e forse proprio per questo ancora così ospitale.
Roberto Conti
foto di Diana Debord
15 settembre 2011
Le meravigliose citazioni strumentali dei Pineda
Abbandonato lo pseudonimo di Moltheni, Umberto Giardini mette da parte quanto fatto fino ad ora, passa alla batteria e, in compagnia dei fedeli Floriano Bocchino al Rhodes e Marco Marzo Maracas alle chitarre ci regala un disco tanto inaspettato quanto sorprendente, dalle coordinate totalmente nuove per il cantautore marchigiano: nei circa 40 minuti interamente strumentali del disco onnipresenti sono i rimandi al post/math-rock e di riflesso al Canterbury sound, e ciò fa quasi urlare al miracolo in un panorama italiano in cui progetti validi di questo genere si contano sulle dita di una mano.
Un recupero musicale decisamente riuscito quindi, che tiene fieramente testa ai modelli che si propone ed impossibile da non citare in tutte le sue parti: se l'opener “Give Me Some Well-Dressed Reason” potrebbe tranquillamente essere una jam dei Soft Machine periodo “Volume Two”, le seguenti “Domino” e “Human Behaviour” hanno il tiro dei primi Aucan misto a qualche slancio degli Explosion In The Sky, per poi passare, con la lunga “If God Exist...”, ad atmosfere care ai Tortoise più introspettivi di “Millions Now Living Will Never Die”. Nel groove di “Touch Me” c'è spazio anche per qualche rimando a Ian Williams e ai suoi Battles, mentre durante la conclusiva “Twelve Universes” Robert Wyatt ringrazia ancora per gli omaggi. In questa selva di citazioni l'identità dei Pineda ne esce comunque più netta e definita, non semplice succube delle proprie muse ispiratrici ma capace di un notevole grado di addomesticazione e rielaborazione di idee e stimoli, cosa che non concede nemmeno un minuto di noia per tutta la durata del disco (che, anzi, vi ritroverete probabilmente ad ascoltare a ruota). Il suono dei tre si dimostra dall'inizio alla fine granitico e potente, complice l'ottima prova strumentale data dai tre e la produzione eccellente di Antonio Cupertino, ultimo tocco di raffinatezza che fa di questo disco un must have per appassionati, nostalgici, curiosi o semplici neofiti. Perderlo sarebbe un errore. Fabio Gasperini
Un recupero musicale decisamente riuscito quindi, che tiene fieramente testa ai modelli che si propone ed impossibile da non citare in tutte le sue parti: se l'opener “Give Me Some Well-Dressed Reason” potrebbe tranquillamente essere una jam dei Soft Machine periodo “Volume Two”, le seguenti “Domino” e “Human Behaviour” hanno il tiro dei primi Aucan misto a qualche slancio degli Explosion In The Sky, per poi passare, con la lunga “If God Exist...”, ad atmosfere care ai Tortoise più introspettivi di “Millions Now Living Will Never Die”. Nel groove di “Touch Me” c'è spazio anche per qualche rimando a Ian Williams e ai suoi Battles, mentre durante la conclusiva “Twelve Universes” Robert Wyatt ringrazia ancora per gli omaggi. In questa selva di citazioni l'identità dei Pineda ne esce comunque più netta e definita, non semplice succube delle proprie muse ispiratrici ma capace di un notevole grado di addomesticazione e rielaborazione di idee e stimoli, cosa che non concede nemmeno un minuto di noia per tutta la durata del disco (che, anzi, vi ritroverete probabilmente ad ascoltare a ruota). Il suono dei tre si dimostra dall'inizio alla fine granitico e potente, complice l'ottima prova strumentale data dai tre e la produzione eccellente di Antonio Cupertino, ultimo tocco di raffinatezza che fa di questo disco un must have per appassionati, nostalgici, curiosi o semplici neofiti. Perderlo sarebbe un errore. Fabio Gasperini
14 settembre 2011
Le storie della gente viste dall'io di Marco Notari
Dura la vita del cantautore nel sovraffollato panorama musicale italiano di questi anni. Marco Notari dopo l'ottimo Babele ritenta il colpo con Io?, disco pop ad ampio spettro con interessanti momenti di sperimentazione e non poche citazioni. L'intento è quello di un album che racconti storie di persone, senza morali, "per cercare un punto di contatto con l'umanità di oggi", si legge nella nota stampa. Ascoltando lungamente il disco ho apprezzato soprattutto la buona personalità a livello autorale dei testi, meno convincente il cantato e l'incisività delle canzoni, pur nella gran cura delle sfumature e degli arrangiamenti. I punti di forza sono le ballate, più evocative ed oniriche rispetto ai brani agressivi, come Hamsik, dove non mi convince la concessione all'elettronica. Le stelle ci cambieranno pelle, singolo in cui Marco duetta con Tommaso Cerasuolo dei Perturbazione (ormai inflazionatissimi ospiti/produttori/consiglieri di emergenti piemontesi) che si è anche occupato di disegnare la cover del disco, è invece un degno manifesto di questo album, con rimandi semplici ma estremamente evocativi ed emozionanti: "Leviamo di dosso tutti i sensi di colpa come i vestiti quando siamo al mere. Restiamo a godere l'attimo sul bagnoasciuga... sarà bellissimo potersi tuffare, perchè noi siamo diversi/bambini all'uscita di scuola al sabato/ leggeri e mai più sommersi, da quei meccanismo subdoli/da quelle parole, da nero rancore".
La canzone migliore del disco è un'altra ballata Canzone d'amore e d'anarchia che cita un celebre film di Lina Wertmuller. Non male anche L'invasione degli ultracorpi, brano che migliora notevolmente nel finale quando si innesta la partecipazione vocale di Dario Brunori e il ritrmo si prende una rivincita sul testo impegnato: la canzone parla di Davide e Mohammed, due uomini che guardano lo stesso cielo, uno a Torino e l'altro a Bagdad e che sono molto più simili di quanto i giornali e le televisioni vogliano far credere.
Siamo quindi lontani da Babele, che era un concept album, anche se non mancano i legami tra un pezzo e l'altro, come l'apertura Io?, ripresa nell'ultima traccia strumentale. Un buon disco nel complesso, anche se non lo collocherò nello scaffale della mia discografia preferita.
Roberto Conti
La canzone migliore del disco è un'altra ballata Canzone d'amore e d'anarchia che cita un celebre film di Lina Wertmuller. Non male anche L'invasione degli ultracorpi, brano che migliora notevolmente nel finale quando si innesta la partecipazione vocale di Dario Brunori e il ritrmo si prende una rivincita sul testo impegnato: la canzone parla di Davide e Mohammed, due uomini che guardano lo stesso cielo, uno a Torino e l'altro a Bagdad e che sono molto più simili di quanto i giornali e le televisioni vogliano far credere.
Siamo quindi lontani da Babele, che era un concept album, anche se non mancano i legami tra un pezzo e l'altro, come l'apertura Io?, ripresa nell'ultima traccia strumentale. Un buon disco nel complesso, anche se non lo collocherò nello scaffale della mia discografia preferita.
Roberto Conti
3 settembre 2011
Report dal Magnolia parade godendosi Mogwai, Ministri e buona musica da ballare
Attendevo questa serata come l’evento musicale dell’anno. Siamo arrivati al Magnolia alle 20:30 e abbiamo imprecato contro il solito parcheggiatore dell’Idroscalo che voleva i suoi cinque euro, ma questa è la norma, Milano a volte cerca di abbatterti. Entrati nel locale siamo andati verso l’area in cui si mangia, alla ricerca di un panino o di una pizza. Gli Octopus stavano già suonando, anzi, avevano già quasi finito. Il basso funky di Marco Castellani detto Garrincha, ex bassista delle Vibrazioni, era protagonista assoluto della scena. Anche il batterista e il cantante non erano male. Sebbene la struttura di alcuni loro pezzi rispecchi in modo davvero palese quella di alcune vecchie canzoni delle Vibrazioni (mentre li ascoltavamo ci è venuto naturale canticchiare qualche strofa di “Sai”, “Sensazioni”, ed altri brani dei primi due album), Garrincha si diverte molto di più ora. Può dare sfogo a tutta la sua tecnica senza la necessità di doverla racchiudere in una canzone pop, e gli altri del gruppo lo supportano alla grande, facendo da allegro sottofondo musicale agli spettatori intenti a cenare.
La coda per cibarsi è immensa. Ci viene in mente che il paninaro fuori dal locale sembrava abbastanza accessibile, e ci fiondiamo lì, anche perché dobbiamo aspettare altri amici. I Ministri sulla loro pagina Facebook l’avevano detto di arrivare puntuali, che per le 21 avrebbero iniziato a suonare. Non ci credevamo: lo scrivono sempre, e difficilmente iniziano prima di mezzanotte o l’una. Mentre gustiamo un ottimo panino con la salamella e ne chiediamo addirittura un bis, sentiamo i primi colpi di batteria che ci fanno capire che il gruppo è salito sul palco e sta aprendo il concerto con “Il sole (E’ importante che non ci sia)”. Pazienza: dall’inizio del 2011 questa è la settima volta che posso ammirare dal vivo il loro sapiente mix di potenza grezza post-grunge e melodia da cantautorato italiano. Posso anche perdermi l’inizio del concerto. Bevo la mia birra e aiuto una ragazza a finire la sua scolandone metà, dopodiché ci dirigiamo verso il palco centrale, il cui parterre è ormai pieno di gente. Non credo di essere mai stato così in fondo ad un concerto dei Ministri. Il gruppo suona tre canzoni del primo album in versione più intensa del solito, complice il fatto che il concerto durerà meno di un’ora (ma noi ancora non lo sappiamo) e quindi non c’è l’esigenza di risparmiare energie. Il chitarrista Dragogna sul palco si muove più del solito e sulla bellissima cornice multimediale del palcoscenico si vedono in alta definizione tutte le gocce del suo sudore. Seguono i pezzi forti del gruppo milanese: “La piazza”, “Tempi bui”, “Noi fuori”. Divi, il cantante, fa gli auguri a Dragogna per il compleanno, ma sono loro a fare a noi un regalo: “Vicenza (La voglio anch’io una base A…)”, a sorpresa, senza che il pubblico la richiedesse urlando come è usanza nei loro concerti. A metà della canzone i Ministri si interrompono. In quel momento noi fan di vecchia data sappiamo che è tradizione del cantante e del chitarrista rivisitare in una sorta di ironico “coro delle voci bianche” qualche grande classico musicale. Negli ultimi concerti, il loro brano da destrutturare era “Somebody to love” dei Queen. Stavolta hanno spiazzato tutti con un esilarante duetto sulle note del mega classico sanremese “Non amarmi” di Aleandro Baldi e Francesca Alotta. Finito il momento demenziale, il gruppo riattacca col finale di “Vicenza”, a cui segue “Diritto al tetto”. Divi appare in perfetta forma vocale e rispetto alle altre volte non si risparmia nello scream. Evidentemente dà il massimo quando il concerto dura meno di un’ora. Conclusione con “Abituarsi alla fine”, tuffo finale sul pubblico (Divi lo fa sempre), strumenti a terra colpiti dalle loro mitiche giacche napoleoniche usate come frusta, e Divi che salta furioso con i piedi sul suo basso.
Prendo un’altra birra, e mi preparo per i Mogwai. Li ho già visti qualche mese fa all’Alcatraz. Sono unici, come musiche e come atmosfera. Quando iniziano a suonare, il parterre è completamente pieno di gente. Alla terza canzone il pubblico ondeggia in preda ad una trance collettiva. Nel frattempo prendo un Cuba libre e sento intorno a me odore di sostanze psicotrope ma c’è gente che non ha bevuto o fumato niente ed ondeggia lo stesso. Le scenografie di paesaggi scozzesi che vengono proiettate di sottofondo alle loro canzoni trascinano via le menti. I pensieri della vita quotidiana si allontanano, esiste solo la loro musica, le melodie ipnotiche di tastiera, la voce filtrata, il groove di batteria ripetitivo, il basso pastoso e trascinante, ma soprattutto le loro chitarre distorte dal suono pieno e completo, che riempie così tanto da non far pensare ad altro. Un sapiente mix di Fender, amplificatori Marshall ed effetti vari. Un muro di suono che si inserisce perfettamente nelle loro strutture precisissime e sognanti.
Mi ci vuole una decina di minuti buoni per riprendermi dal concerto. Nel frattempo la gente si disperde per le varie aree del locale. Fiumi di persone che si gettano qua e là mentre i vari DJ prendono posto e il volume sonoro aumenta. Se si è in compagnia di alcuni amici come nel mio caso, e non si vuole perdere il passaggio verso casa, è consigliabile non distrarsi nemmeno un secondo, altrimenti il fiume umano trascina via tutti e ci si ritrova da soli con l’impossibilità di far sentire la propria voce al telefono. Dopo alcuni giri del locale, riassemblata la comitiva, siamo andati a ballare sul parterre del palco centrale. C’era elettronica pesante, al limite della techno, con un DJ che che in alcuni momenti cercava di accattivarsi le simpatie dei fruitori “normali” rivisitando alcuni pezzi house abbastanza conosciuti, che venivano riproposti in maniera velocizzata e con suoni più violenti. Anche nella scelta musicale il Magnolia si distingue come al solito.
Concludo il mio report con un commento finale. Divi, il cantante dei Ministri, ringraziando il pubblico, ha detto in tono più o meno agrodolce: “Questa città diventa sempre più bella ogni giorno che passa”. Ho riflettuto un po’ su quella frase. E’ ovvio che Milano è in declino, e l’Italia pure, però il Magnolia ha organizzato ottimamente un evento complesso. 20 euro per due gruppi famosi a livello nazionale e uno di livello internazionale. Un palco principale ed uno secondario entrambi con dancefloor, una terza dancefloor con tendone, un ristorante con area ristoro, un’area riposo e mercatini vari, decine di bagni chimici, ed un locale che in pochi giorni ha subito un restyling totale per ospitare l’evento. Un’Associazione che lo Stato dovrebbe sostenere invece di cercare di abbattere. Una delle poche voci fuori dal coro in un Italia che non riesce più ad organizzare eventi musicali come questo. Marco Maresca
La coda per cibarsi è immensa. Ci viene in mente che il paninaro fuori dal locale sembrava abbastanza accessibile, e ci fiondiamo lì, anche perché dobbiamo aspettare altri amici. I Ministri sulla loro pagina Facebook l’avevano detto di arrivare puntuali, che per le 21 avrebbero iniziato a suonare. Non ci credevamo: lo scrivono sempre, e difficilmente iniziano prima di mezzanotte o l’una. Mentre gustiamo un ottimo panino con la salamella e ne chiediamo addirittura un bis, sentiamo i primi colpi di batteria che ci fanno capire che il gruppo è salito sul palco e sta aprendo il concerto con “Il sole (E’ importante che non ci sia)”. Pazienza: dall’inizio del 2011 questa è la settima volta che posso ammirare dal vivo il loro sapiente mix di potenza grezza post-grunge e melodia da cantautorato italiano. Posso anche perdermi l’inizio del concerto. Bevo la mia birra e aiuto una ragazza a finire la sua scolandone metà, dopodiché ci dirigiamo verso il palco centrale, il cui parterre è ormai pieno di gente. Non credo di essere mai stato così in fondo ad un concerto dei Ministri. Il gruppo suona tre canzoni del primo album in versione più intensa del solito, complice il fatto che il concerto durerà meno di un’ora (ma noi ancora non lo sappiamo) e quindi non c’è l’esigenza di risparmiare energie. Il chitarrista Dragogna sul palco si muove più del solito e sulla bellissima cornice multimediale del palcoscenico si vedono in alta definizione tutte le gocce del suo sudore. Seguono i pezzi forti del gruppo milanese: “La piazza”, “Tempi bui”, “Noi fuori”. Divi, il cantante, fa gli auguri a Dragogna per il compleanno, ma sono loro a fare a noi un regalo: “Vicenza (La voglio anch’io una base A…)”, a sorpresa, senza che il pubblico la richiedesse urlando come è usanza nei loro concerti. A metà della canzone i Ministri si interrompono. In quel momento noi fan di vecchia data sappiamo che è tradizione del cantante e del chitarrista rivisitare in una sorta di ironico “coro delle voci bianche” qualche grande classico musicale. Negli ultimi concerti, il loro brano da destrutturare era “Somebody to love” dei Queen. Stavolta hanno spiazzato tutti con un esilarante duetto sulle note del mega classico sanremese “Non amarmi” di Aleandro Baldi e Francesca Alotta. Finito il momento demenziale, il gruppo riattacca col finale di “Vicenza”, a cui segue “Diritto al tetto”. Divi appare in perfetta forma vocale e rispetto alle altre volte non si risparmia nello scream. Evidentemente dà il massimo quando il concerto dura meno di un’ora. Conclusione con “Abituarsi alla fine”, tuffo finale sul pubblico (Divi lo fa sempre), strumenti a terra colpiti dalle loro mitiche giacche napoleoniche usate come frusta, e Divi che salta furioso con i piedi sul suo basso.
Prendo un’altra birra, e mi preparo per i Mogwai. Li ho già visti qualche mese fa all’Alcatraz. Sono unici, come musiche e come atmosfera. Quando iniziano a suonare, il parterre è completamente pieno di gente. Alla terza canzone il pubblico ondeggia in preda ad una trance collettiva. Nel frattempo prendo un Cuba libre e sento intorno a me odore di sostanze psicotrope ma c’è gente che non ha bevuto o fumato niente ed ondeggia lo stesso. Le scenografie di paesaggi scozzesi che vengono proiettate di sottofondo alle loro canzoni trascinano via le menti. I pensieri della vita quotidiana si allontanano, esiste solo la loro musica, le melodie ipnotiche di tastiera, la voce filtrata, il groove di batteria ripetitivo, il basso pastoso e trascinante, ma soprattutto le loro chitarre distorte dal suono pieno e completo, che riempie così tanto da non far pensare ad altro. Un sapiente mix di Fender, amplificatori Marshall ed effetti vari. Un muro di suono che si inserisce perfettamente nelle loro strutture precisissime e sognanti.
Mi ci vuole una decina di minuti buoni per riprendermi dal concerto. Nel frattempo la gente si disperde per le varie aree del locale. Fiumi di persone che si gettano qua e là mentre i vari DJ prendono posto e il volume sonoro aumenta. Se si è in compagnia di alcuni amici come nel mio caso, e non si vuole perdere il passaggio verso casa, è consigliabile non distrarsi nemmeno un secondo, altrimenti il fiume umano trascina via tutti e ci si ritrova da soli con l’impossibilità di far sentire la propria voce al telefono. Dopo alcuni giri del locale, riassemblata la comitiva, siamo andati a ballare sul parterre del palco centrale. C’era elettronica pesante, al limite della techno, con un DJ che che in alcuni momenti cercava di accattivarsi le simpatie dei fruitori “normali” rivisitando alcuni pezzi house abbastanza conosciuti, che venivano riproposti in maniera velocizzata e con suoni più violenti. Anche nella scelta musicale il Magnolia si distingue come al solito.
Concludo il mio report con un commento finale. Divi, il cantante dei Ministri, ringraziando il pubblico, ha detto in tono più o meno agrodolce: “Questa città diventa sempre più bella ogni giorno che passa”. Ho riflettuto un po’ su quella frase. E’ ovvio che Milano è in declino, e l’Italia pure, però il Magnolia ha organizzato ottimamente un evento complesso. 20 euro per due gruppi famosi a livello nazionale e uno di livello internazionale. Un palco principale ed uno secondario entrambi con dancefloor, una terza dancefloor con tendone, un ristorante con area ristoro, un’area riposo e mercatini vari, decine di bagni chimici, ed un locale che in pochi giorni ha subito un restyling totale per ospitare l’evento. Un’Associazione che lo Stato dovrebbe sostenere invece di cercare di abbattere. Una delle poche voci fuori dal coro in un Italia che non riesce più ad organizzare eventi musicali come questo. Marco Maresca
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