Una cosa è certa: un album dal titolo così forte non può passare inosservato. The Holy Bible, terzo lavoro discografico dei Manic Street Preachers che ha compiuto 20 anni lo scorso agosto, viene celebrato con un box set dedicato che arricchisce la riedizione per i 10 anni aggiungendoci un libro, un vinile, tracce dal vivo e inediti.
Perché tante celebrazioni? Perché The Holy Bible è un album rabbioso e oscuro, infinitamente dolce e allo stesso tempo cinico, così difficile da definire in bilico tra post punk e grunge e senza dubbio unico, che mostra tutto il potere compositivo della band gallese e in cui il talento di Richey Edwards trova massima espressione.
The Holy Bible è una sorta di vaso di Pandora che svela ogni depravazione e solitudine della nostra società. La copertina stessa, trittico di Jenny Saville raffigurante una donna obesa da diverse prospettive, deve aver fatto a pugni con Parklife e Definitely maybe sugli scaffali dei negozi di dischi. Siamo nel 1994 e i Manics attraversano un periodo particolarmente difficile. Il secondo album Gold against the soul riceve un’accoglienza tiepida e li allontana da quel micromondo fatto di attitudine punk, filosofia marxista e arte: per questo scelgono di registrare The Holy Bible in un piccolo studio nel quartiere a luci rosse di Cardiff, imponendosi una “disciplina accademica”. Le registrazioni sono però costellate da vari episodi di autolesionismo e acuta depressione del chitarrista e liricista Edwards, il cui fragile equilibro era già stato messo a dura prova dal tour in Thailandia e da una serie di lutti; tanto che durante l’uscita del disco è ancora ricoverato in una clinica. L’intento dell’album intero può forse sintetizzarsi in un sample dello scrittore J.G. Ballard presente in Mausoleum: “Volevo strofinare il volto umano nel suo vomito... e costringerlo a guardarsi allo specchio”. Così Richey e Nicky ci costringono a guardare in questo specchio volti di serial killer, boia, dittatori e politici, prostitute e clienti senza scrupoli, prigionieri dei campi di sterminio nazisti, persone malate di anoressia e forse di eccessiva sensibilità. Faster è forse il brano più straordinario della band e di Edwards, che esordisce con “sono un architetto, mi chiamano macellaio” e dichiara fieramente “so di non credere in niente ma è il mio niente”. Parole che stordiscono per la disarmante schiettezza e per la voce grezza e rabbiosa di James, come nell’ipnotico finale di Of walking abortion: “Chi è il responsabile? Tu lo sei, cazzo!”. A Dicembre del 1994 i Manics concludono il tour europeo con una serie di concerti all’Astoria di Londra, l’ultimo dei quali passerà alla storia per la sua furia distruttiva. Forse Richey sapeva già che quella sarebbe stata la sua ultima esibizione live?
In piena era brit pop iperliberista un album del genere lasciò un segno profondo tanto da diventare l’icona di una band, il testamento artistico di un poeta incredibilmente dotato scomparso in misteriose circostanze, e la sacra bibbia di numerosi fan. Diana Debord
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