12 ottobre 2014

Dead cat in a bag: Late for a song è un disco dalle cupe atmosfere

Dead cat in a bag, un nome decisamente curioso per un gruppo. Avrei voluto parlare del gatto di Scrodinger in questo cappello introduttivo, ma mi hanno anticipato accennandone nella loro presentazione sul sito, avrei voluto citare un gatto morto nel sacco protagonista di un divertente aneddoto (non per il gatto evidentemente) in un videogioco di ruolo di anni fa ma loro, sempre dal sito, citano in maniera più elevata Tom Sawyer e Huckleberry Finn. Quindi la smetto con la prosopopea e vado a parlarvi della musica, non prima di avervi rassicurato: loro i gatti li amano. Ma di amore ce n'è ben poco in questo disco.

Se descrivere il perchè del loro nome è una storia lunga  forse più lungo è il compito di citare le varie influenze musicali che si frappongono lungo il cammino (musicale) che le 15 tracce di Late for a song (secondo disco della band dopo Lost bags del 2011) compongono. Rimanendo all'interno di un'atmosfera tetra e claustrofobica i Dead cat in a bag improvvisano un ipotetico giro del mondo, evocando la Francia con la fisarmonica della strumentale Trop tard pour une chanson e spostandosi nei sobborghi multietnici con l'atmosfera ancora solo musicale di Za pozno na piosenke e l'apparentemente placida Old Shirt, teatro di un finale minaccioso con urla roche da brividi. Ci portano in un funereo Messico, in cui neanche le trombe riescono ad allontanare le nuvole, con Once at least, si spostano poco più in là, in un saloon da vecchio west, con la collerica e claustrofobica Ravens at my window e ad una festa tzigana dal ritmo coinvolgente con It's a pity (col minimoog a fare insospettabilmente il lavoro sporco), per poi portarci all'inferno con Just like asbestos... perchè solo da lì può provenire un suono così tenebroso, fra percussioni cavernose e organetto malevolo, che manco gli Ufomammut in giornata di gloria.
Ma anche senza scomodare le suggestioni del viaggio la sostanza è tanta. Partendo da influenze blues e scarnificandole il più possibile i Dead cat in a bag tirano fuori tetri scenari quasi da elettronica minimale in Silence is not pure, tristi ballate dall'intenso finale come Unanswered letters o gotiche composizioni come Nothing sacred (il paragone mi sarà venuto in mente per quella porta scricchiolante da casa infestata che si sente all'improvviso? Tutto può essere, ma un banjo in grado di dipingere scenari così cupi non l'avevo mai sentito). Il tutto sfoderando un dispiegamento di strumenti tale da far impallidire chiunque: chitarre di qualsiasi foggia e suono, banjo, organo, mandolino, tromba, clarinetto, batteria, violino, percussioni...e potrei andare avanti ancora per chissà quanto ad elencare. Tutto questo oltretutto suonato quasi esclusivamente dai due membri effettivi di questo ensemble musicale, Luca Swanz Andriolo e Roberto Abis, coadiuvati comunque da un numero di amici vicino alla decina che, chi qui chi là, aiuta ad arricchire e rendere memorabile ogni pezzo. Luca poi ci mette anche la voce, l'unico tipo di voce probabilmente adatta alle sulfuree e tetre atmosfere del disco: roca e grave, capace di adattarsi ai sussurri di Silence is not pure quanto alle sfuriate di Ravens at my window e alle urla concitate sul finale di Old shirt. Vogliamo aggiungere altro a questo quadro, già di per sé paradossalmente bucolico nonostante l'atmosfera decadente che lo avvolge? Aggiungiamo allora i testi, piccoli capolavori di poesia maledetta, in cui il pessimismo si fa arte con frasi come “All my unanswered letters/ make me think that I'm a bad writer/ and that's sad since I write far better/ than I talk, better than I smile, better than I live” (Unanswered letters), oppure “The colourless wind of the grey days/ settles accounts with every springtime” (Just like asbestos): ogni riga ha il suo fascino, anche quando la ripetitività è la cifra stilistica scelta come in Wanderer's curse e It's a pity. Non mancano una cover (una versione di House of the rising sun in cui il sole sembra più pronto a tramontare che non a sorgere) ed una sulfurea ghost track  strumentale a chiudere degnamente il quadro.

Penso di non poter dire molto di più di quanto scritto sopra: se non vi siete ancora fatti un'idea di ciò che propongono i Dead cat in a bag andateveli a scovare, perchè che siate o meno inclini ad apprezzare le loro cupe atmosfere sonore vale comunque la pena di fare un viaggio sonoro così inusuale al giorno d'oggi. E per me, se volete un giudizio finale, assolutamente affascinante. Stefano Ficagna

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