25 maggio 2013
Riecco i Mudhoney invecchiati nel ricordo del tempo che fu
Ricordo che iniziai a conoscere i Mudhoney in prima Liceo. Un mio compagno di classe molto ferrato in materia grunge e Sub Pop mi prestò la cassettina dove si era copiato dall’album originale del fratello maggiore Mudhoney, il primo album della band di Seattle. E dico “conoscere” e non “ascoltare” perché non mi colpirono poi quel gran che. Questo ultimo lavoro, Vanishing point, dimostra il mio mantenermi fedele alle vecchie convinzioni. Non riesce a comunicarmi un bel nulla: la voce di Mark Arm è troppo forzatamente giovanile, quasi a scimmiottare in ogni sua riverenza i Buzzcocks e la new wave inglese. I preziosismi musicali si sprecano in modo troppo autoreferenziale e sciovinista, quando invece ci vorrebbe un po’ più di spiccata malattia e trasparenza. Il brano che più si avvicina a ciò che furono i gloriosi Mudhoney è, nemmeno a dirlo, il più punk rock dell’album: Chardonnay. “Finalmente” sospiro, dopo gli iniziali dieci minuti di mantecatura emozionale. Non parte male nemmeno la successiva In this rubber tomb, ma dopo un azzeccatissimo iniziale attacco postpunk si scade ancora in feedbacks e preziosismi che si impantanano tra di loro senza trovare una via d’uscita. E così per tutto l’album. I don’t remember you è carina, molto carina, ma ricalca troppo gli Strokes di Room on Fire, forse per piacere alle nuove leve del rock’n’roll made in U.S.A. . Persino i coretti che fanno da sfondo all’immancabile ritornello suonano di minestra riscaldata. Non c’è nessuna presa di posizione, non c’è nessuna citazione degna, non trovo nulla di divertente nell’ultimo disco dei Mudhoney. Con tutto il rispetto per chi li ascolta da una vita e per ciò che hanno saputo produrre e trasmettere in quasi trent’anni di carriera. Mi è venuta voglia di riascoltarmi i Postal Service di Give Up, l’album Sub Pop che vendette di più dopo Bleach.
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