Per comprendere il livello
dell'offerta musicale italiana è necessario, una volta ogni tanto, confrontarsi
con quanto arriva dall'estero. A noi è capitata l'occasione di ricevere tre cd
dalla Svezia, provenienti dall'etichetta Adrian recordings, che dopo svariati (piacevoli)
ascolti ci hanno permesso di fare qualche considerazione.
Il primo cd è Colossus
degli MF/MB/. La band, proveniente da una piccola cittadina svedese chiamata
Bollnäs, è al secondo album, dopo un esordio particolarmente apprezzato: alcune
loro canzoni sono utilizzate anche in serie televisive quali CSI:NY e The
inbetweeners. Il secondo album è stato partorito in mezzo ad una lunga serie di
malattie e lutti, ed inevitabilmente ha assunto un taglio particolare. Una
discesa all'inferi, una profonda autoanalisi, con canzoni che parlano di quanto
possa essere effimero il sentimento dell'amore, di quanta solitudine e quanto
vuoto possano esserci nella malattia, e di quanto ci si senta impotenti di fronte
alla morte di un amico. Le sonorità sono riconducibili all'incirca ai Maximo
park e ai Placebo, in bilico tra l'espressività delle corde e la meccanicità
dell'elettronica, ma il tutto viene rielaborato con curiosi inserti di space
rock, con sintetizzatori dall'impronta futuristica e fantascientifica.
Il secondo dei cd che abbiamo ascoltato è YAST, della band omonima. Gli YAST sono
originari di Sandviken, un polo siderurgico i cui abitanti non possono fare
altro che sognare di essere altrove. E da questa esigenza di volare con la
fantasia è nato un album di pop fantasioso e sognante, con una punta di
nostalgia. Una band che va a ripescare dall'alternative rock degli anni '90 e
dalle chitarre degli Smashing pumpkins, ma anche dagli anni '60 e '70, rielaborati
anch'essi secondo i canoni dei '90,
a volte un po' in stile Blur. L'album dà un'ottima
impressione sin dal primo ascolto, con momenti estremamente interessanti e
coinvolgenti come il singolo Stupid.
Dopo due cd che ci hanno fatto un'ottima impressione,
abbiamo la fortuna di ascoltarne un terzo che forse è addirittura superiore ai
precedenti: The album ID, dei This is
head. La band era reduce da un ottimo album d'esordio, intitolato 0001, ma non aveva grandi idee per il
secondo album. I quattro componenti del gruppo, legati da una solida amicizia,
hanno passato mesi a giocare a ping pong nell'attesa che saltasse fuori qualche
canzone, finché uno dei quattro ha dovuto confrontarsi con una dolorosa separazione
e la band ha improvvisamente perso il piacere dello stare insieme. Dalle ceneri
del loro periodo spensierato è nato così il materiale di The album ID, un disco che sembra avvolto da qualcosa di magico.
Brani che in teoria dovrebbero essere racchiusi in una solida struttura pop
eppure trovano sempre evoluzioni inaspettate, con imprevedibili code
strumentali, richiami ai Visage degli anni '80 (Castaway) o ai Manic street preachers dei primi anni '90 (Illumination), e anche brani interamente
strumentali (XVI) sullo stile dei
Mogwai.
Che rapporto c'è tra questi tre album che abbiamo
ascoltato e le produzioni italiane emergenti che recensiamo di solito? La
risposta è che c'è qualche divergenza ma anche alcune inaspettate affinità.
Innanzitutto, forse nel caso di questi tre album il confine di genere è più
netto rispetto all'Italia. Forse c'è più sperimentazione sul versante dei suoni
e della struttura dei pezzi, ma i confini di genere rimangono molto ben
definibili. Le affinità che troviamo riguardano i richiami agli anni '90, che
costituiscono sempre più spesso una fonte di grande ispirazione anche per molti
artisti nostrani. La cosa da cui gli artisti emergenti italiani dovrebbero
davvero imparare da questo confronto, però, è l'aria di internazionalità che si
respira ascoltando questi lavori. Che poi è anche il motivo per il quale questi
gruppi, benché ancora considerati emergenti, hanno già suonato in giro per
l'Europa a supporto di nomi anche importanti. Marco Maresca
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