Is this it è stato un disco che, anche se non così
innovativo, ha suscitato sicuramente clamore tra critica e pubblico per un
sound spontaneo, ballabile e allo stesso tempo aggressivo. Dodici anni dopo e
pubblicati altri tre album (il buon Room on fire e gli altri due finiti
immediatamente nel dimenticatoio), gli Strokes tornano con Comeback machine cercando di dare prova della loro evoluzione artistica.
A differenza degli esordi, non si sente più il garage-rock
che li ha a lungo caratterizzati (a parte nel singolo All the time e in chances),
ma si assiste ad una ricerca affannosa e controversa di generi diversi tra loro
che sono in voga in questi anni 2000. Ci riferiamo al post-punk (come ad
esempio i Franz Ferdinand) e alla new-wave (Editors e MGMT), come se pur di
tornare ad avere l’appeal di un tempo Casablancas e soci hanno voluto ripiegare
sul sound di quelli che sono stati i loro precursori e che nel tempo hanno
preso il sopravvento rispetto ai newyorkesi.
Lo stesso Julian Casablancas cerca uno stile diverso: meno
rocker e più falsetto, come si sente in Tap out e in One way trigger. Le
ritmiche di Fab Moretti, un tempo secche e monocordi, sono diventate più
sincopate, quasi disco.
Per come suona il disco non sarebbe assolutamente male, però sono troppo evidenti i richiami alle idee altrui. One way trigger, ad esempio, sembra un pezzo dei MGMT, costruito su tastiere loop, un ritmo semi-ska e la voce che canta in falsetto (un po’ buffo a dire il vero).
Per come suona il disco non sarebbe assolutamente male, però sono troppo evidenti i richiami alle idee altrui. One way trigger, ad esempio, sembra un pezzo dei MGMT, costruito su tastiere loop, un ritmo semi-ska e la voce che canta in falsetto (un po’ buffo a dire il vero).
Le cose migliorano con la Franz-ferdinand-iana Welcome to Japan, che comunque piace per
la sua verve sospesa tra indie e dance, e con la quasi title-track 80’s Comedown machine, un pezzo
costruito su un riff potente che sarebbe stato bene su Room on fire. Ecco,
probabilmente ciò che attira di più del quinto lavoro dei newyorkesi sono
proprio le chitarre, in particolare quella di Albert Hammond Jr., protagonista
di assoli davvero notevoli (All in time
e Tap out). Nel mezzo ci sono
l’ipnotica elettronica 50 50, brutta
quanto una delle ultime dei Bloc Party, e la plasticosa canzonetta stile anni
’80 Partners in crime, che si
presenta come un mix malriuscito tra U2 e Duran Duran. A concludere un
pseudo-omaggio ad Amy Winehouse (o forse una ghost track mancata di Anthony and
the Johnsons?) Call it end, call it karma
che ha veramente poco a cui vedere non solo con i nostri, ma con lo stesso
disco.
Morale della favola: gli Strokes con Comedown machine confermano di avere diverse idee ma confuse e ne viene fuori un album che in sè
non è malaccio, però manca totalmente di identità. Certo, Casablancas & co.
non potevano continuare all’infinito col garage-rock al fumicotone di Is this it, ma è evidente che questa band non sia più in grado di suscitare
quell’entusiasmo che c’era dieci anni fa. Purtroppo i “colpi” (così si traduce
"strokes"!) di quella New York City che è sempre frutto di nuove mode
si sono rivelati effimeri e il rock moderno si è identificato in altri
personaggi. Marco Pagliari
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