Recensisco l’ultimo disco dei Paint it black con l’umore altissimo: è venerdì pomeriggio, la bolletta del gas non è ancora arrivata e, infine, l’ultimo disco dei Paint it Black è una vera bomba.
Ci avevano lasciati senza dischi e senza praticamente tour per quattro anni e ne si sentiva la mancanza, caspita. Invisible esce per No Idea dopo le ultime pubblicazioni per Fat Wreck e Jade Tree e rappresenta alla grande il ritorno dei quattro ragazzoni di Philly. Invisible forse è l’album che racchiude più degli altri le radici della band: Kid Dynamite, Lifetime, Good Riddance. Entrando nel dettaglio, si tratta di un EP di dieci tracce.Si inizia con Greetings, Fellow insomniac, lunga e midwest al punto giusto. Daniel si diverte ad urlare sugli stacchi di batteria e si vede: ne esce una schizofrenica commistione tra la nuova e la vecchia scuola punk rock americana. L’urlo con cui comincia Headfirst ci riporta ai tempi di CVA e di Cannibal, dove venivano macinati chilometri di fastcore tra un singalong e l’altro. Realtà che, a mio parere, sono andate scemando un poco con i capitoli New Lexicon e Amnesia. Si ritorna a correre, quindi, con questa nuova uscita. Props for ventriloquism è una finale dei duecento ad ostacoli che strizza l’occhio ai bei tempi andati dei Kid Dynamite: coretti a ribadire, rullante sfondato e carica finale con tanto di rallentamento e coro wuo-oo-ooh tutti insieme, che non fa mai male. Little fists riprende le atmosfere corroboranti ed edonistiche di Amnesia, al limite del postpunk potremmo sostenere. Si ritorna a pittare subito dopo con D.F.B. , cheap shot che in poco più di trenta secondi racchiude velocità, irriverenza e delirio. L’ultimo brano, Invisible, si presenta invece più complesso, con un attacco alla Husker Du che sfocia in strofe lifetimeniane sino a portarci, manco a dirlo, allo staccone finale: preludio di basso e poi tutti sotto al palco, abbracciati e sudati come non mai. Brothers and sisters, bentornati Paint it black! Andrea Vecchio
Ci avevano lasciati senza dischi e senza praticamente tour per quattro anni e ne si sentiva la mancanza, caspita. Invisible esce per No Idea dopo le ultime pubblicazioni per Fat Wreck e Jade Tree e rappresenta alla grande il ritorno dei quattro ragazzoni di Philly. Invisible forse è l’album che racchiude più degli altri le radici della band: Kid Dynamite, Lifetime, Good Riddance. Entrando nel dettaglio, si tratta di un EP di dieci tracce.Si inizia con Greetings, Fellow insomniac, lunga e midwest al punto giusto. Daniel si diverte ad urlare sugli stacchi di batteria e si vede: ne esce una schizofrenica commistione tra la nuova e la vecchia scuola punk rock americana. L’urlo con cui comincia Headfirst ci riporta ai tempi di CVA e di Cannibal, dove venivano macinati chilometri di fastcore tra un singalong e l’altro. Realtà che, a mio parere, sono andate scemando un poco con i capitoli New Lexicon e Amnesia. Si ritorna a correre, quindi, con questa nuova uscita. Props for ventriloquism è una finale dei duecento ad ostacoli che strizza l’occhio ai bei tempi andati dei Kid Dynamite: coretti a ribadire, rullante sfondato e carica finale con tanto di rallentamento e coro wuo-oo-ooh tutti insieme, che non fa mai male. Little fists riprende le atmosfere corroboranti ed edonistiche di Amnesia, al limite del postpunk potremmo sostenere. Si ritorna a pittare subito dopo con D.F.B. , cheap shot che in poco più di trenta secondi racchiude velocità, irriverenza e delirio. L’ultimo brano, Invisible, si presenta invece più complesso, con un attacco alla Husker Du che sfocia in strofe lifetimeniane sino a portarci, manco a dirlo, allo staccone finale: preludio di basso e poi tutti sotto al palco, abbracciati e sudati come non mai. Brothers and sisters, bentornati Paint it black! Andrea Vecchio
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