21 novembre 2015

Il ritorno sulla lunga distanza dei poliedrici Lush Rimbaud


Era il lontano 2010 quando mi imbattei in circostanze che non ricordo (è normale, ho una memoria di merda a parte per le trame di film e libri) in Sound Of The Vanishing Era, secondo disco di una band che non poteva non starmi simpatica: vuoi per la bizzarria di quel nome, Lush Rimbaud, che mi si stampò subito in testa, vuoi per il mix eclettico di sonorità che coinvolgevano nel loro folle album, vuoi per l’aver scritto precedentemente un brano intitolato Remember Sammy Jenkins (e ora trovatemi da quale film proviene la citazione, dai che è facile!). Da allora poche notizie, uno split condiviso con gli olandesi zZz nel 2013 ed ora, finalmente, il seguito su lunga durata di quell’album che ancora oggi ascolto piacevolmente, che mi ritrovo inaspettatamente fra le mani grazie al puro culo che ho avuto nel prendere su, totalmente a caso, una manciata di dischi arrivatici da recensire. Ma in dieci anni ne possono cambiare di cose, e già quel L/R che rappresenta il titolo del disco manifesta l’intenzione di prendere nuove strade, come fosse un altro inizio.

Che con l’elettronica ci giocassero già i Lush Rimbaud è un dato di fatto, ma da componente aggiuntiva di un sound principalmente basato sui classici strumenti rock ora questa si fa preponderante, non tanto come presenza quanto come influenza verso gli altri strumenti. L/R è un disco oscuro, dal ritmo coinvolgente ma mai esasperato se non in pochi episodi (Acid Skyline su tutte), fondato principalmente sul lavoro pulito e preciso della sezione ritmica su cui si appoggiano poi synth, tastiere e chitarre effettate nellemaniere più disparate. Marmite primo singolo e canzone apripista dell’album, mette già in chiaro tutti questi elementi, unendoci  una voce che non tende a spiccare ma ad amalgamarsi e quasi nascondersi dietro gli strumenti: il ritmo è incessante per tutti i quattro minuti di durata, basso e batteria si divertono a variare anche solo di poco riff e pattern che rimangono sempre simili e tocca a chitarre e componente elettronica arricchire il tutto con pennellate psichedeliche sparse lungo tutto l’arco della canzone. Acid skyline varia di poco il canovaccio, mostrando sonorità più rock suggerite anche dal ritmo più intenso e trascinante, ed è così con la successiva Never regret che si arriva a sentire qualcosa di molto diverso: pezzo in mutazione continua, si apre col sax per poi essere trascinato da una batteria prima tribale e poi magnificamente ritmata, in un crescendo continuo interrotto a metà giusto per prendere fiato un attimo e poi ricominciare la corsa, lasciando alla fine spazio anche alla chitarra di afogarsi con un riff ciclico quantomai efficace. Sicuramente il pezzo migliore del disco.
Qualche scricchiolio comincia ad avvertirsi da qui. Non che manchino pezzi curiosi, come una Super-indian che sfrutta nuovamente un sax dissonante in strofe scarne ed oscure trascinate dal basso per poi passare improvvisamente ad un’apertura solare in cui chitarre ed una timida tastiera prendono il sopravvento, ma l’impressione è che ci si perda troppo nella ripetizione continua all’interno dei singoli pezzi. La mancanza di uno sviluppo concreto nuoce gravemente a Silent room, con l’affastellarsi di elementi su una base sonora liquida che non viene esaltata da questo andazzo, e non va molto meglio con la precedente G-Spot. Un ritmo più sostenuto ed un riff di basso da applausi aiutano Not the monkey, piagata però da un cantato troppo monocorde per coinvolgere, e ben venga quindi che anche la voce si prenda qualche libertà nel vorticoso turbinio a ritmo quasi punk di The valley, sorellina più scatenata ed “ignorante” (nel senso buono) di Acid Skyline. La chiusura con Dark side call ritorna inevitabilmente, già da quel che recita il titolo, verso tinte cupe ed oppressive, in cui spiccano l’utilizzo azzeccato del contrabbasso e di effetti elettronici che suonano come un allarme antiatomico, due elementi che contribuiscono a farne un ottimo brano di chiusura.
Della follia creativa dei Lush Rimbaud è rimasto molto, ma se la band di sei anni fa saltava di palo in frasca in maniera piacevolmente anarchica la sua versione 2015 preferisce invece concentrarsi su un’idea di suono unitaria, cosa che rende L/R coeso ma anche difficile da digerire nei suoi punti più rarefatti. Io rimango innamorato di quel disco con Errico Malatesta a cavallo di un rospo deformato che corre sull’arcobaleno, premessa visiva di quanto si ascolta all’interno, ma questa nuova deformazione del suono della band marchigiana denota sicuramente idee chiare e grande convinzione nei propri mezzi. E poi risentirli in forma dopo sei anni di attesa è proprio una bella soddisfazione! Stefano Ficagna

Tracklist:
1.       Marmite
2.       Acid skyline
3.       Never regret
4.       G-Spot
5.       Silent room
6.       Super-indian
7.       Not the monkey
8.       The valley

9.       Dark side call

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