25 novembre 2015

Gli Aucan alla ricerca di Stelle fisse

Recensire il disco di uno dei propri gruppi preferiti è un po’ come trovarsi a difendere un parente in tribunale: si corre il rischio di mancare d'onestà. Fortunatamente gli Aucan mi rendono il lavoro facile, partorendo l’ennesimo gioiello musicale, Stelle fisse, in uscita per La Tempesta dischi in Italia e per la nascente Kowloon records nel resto del globo.

Questa volta non siamo di fronte al muro sonoro di Ep I, al post rock di S/T o all’elettro noise di DNA Ep. Come sonorità siamo più vicini a quel Black rainbow che li trasformò in una delle realtà italiane, se non europee, più importanti del panorama elettronico. In Stelle fisse, però, si denota un minimalismo più estremo; il trio bresciano rinuncia all’arredamento sonoro in favore di un tappeto scarno, ma sentito ed essenziale. Le voci modificate si confondo con i synth e diventano strumento chiave per la riuscita del disco. Una composizione studiata a tavolino per evitare l'uso di computer durante i live, in favore di una maggiore liberà on stageBrani come Disgelo, Friends o Above your head, nella loro semplicità, sono tra le migliori produzioni che gli Aucan abbiano sfornato sino ad oggi. Riescono a trasportarci nello spazio immenso pur rimanendo con i piedi ben piantati a terra – emblematica la copertina, da osservare con attenzione per non lasciarsi sfuggire l’intrinseco significato che racchiude.
Il nuovo lavoro della band è oscuro e ossessivo, ma non privo di speranza. Perché in fondo le “stelle fisse” non sono altro che chiodi fissi terreni, più luminosi e affascinanti, persi nei meandri di quell’oscuro universo che è la mente umana. Dobbiamo solo riuscire a farle risplendere nel buio delle nostre esistenze, seguirle con costanza e ritrovare la nostra luce interiore. Giuseppe Musto

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