Che i monzesi The Comet si siano
cibati al cospetto di un immaginario a stelle e strisce lo si intuisce già
dalla cover del loro esordio sulla lunga distanza Nothing but the wind,
adattissimo ad un tatuaggio (ed è proprio di un tatuatore la mano che l'ha disegnata).
E' la musica però a darne maggiore prova, una musica che lungo nove brani
affonda le sue radici in suggestioni che rimandano agli spazi aperti del
sud-ovest statunitense, mescolando al rock una robusta dose di psichedelia che
si avverte soprattutto nelle frequenti dilatazioni sonore dei brani.
La grinta non manca certo agli
strumenti, con le chitarre in bella evidenza a protrarsi in continui fraseggi e
in robuste dosi di feedback, e sebbene ci sia spazio per momenti più morbidi
come nell'influenza spiccatamente southern rock di Faded roses
(azzeccata l'idea di inserire nell'intro l'armonica) o più dilatati, con sugli
scudi una Vanity che pecca solo di ritornelli poco incisivi (mi ha
colpito meno Spirit, nonostante la sua monumentale progressione psichedelica),
è nei ritmi serrati di cui danno sfoggio già nella prima traccia Secret love
che i The Comet trovano la loro cifra stilistica prediletta. Aiutati dalla voce
calda e rude di Matteo Pauri (assente solo nella strumentale Bad water, interessante
soprattutto nei suoi rallentamenti ariosi) i brani scorrono via piacevolmente,
lasciando però poche vere emozioni. Il problema è che nella eccessiva
dilatazione dei tempi, necessaria a far sfogare le già citate chitarre, si
finisce anche per ripetere in maniera eccessiva strutture che risultano meno
elaborate di quanto non lo siano invece gli incastri fra gli strumenti: si
finisce così per sprecare anche il potenziale di brani che si reggono su ottimi
riff come nella potente Whisper, che nella sua durata pur breve rispetto
alla media rischia di stancare ben prima della lunga coda strumentale.
Una prova comunque degna di
merito quella della band monzese, orgogliosa di ostentare il suo legame con una
psichedelia meno lisergica di altri esempi venuti negli anni (i miei trip
migliori li ho fatti nei territori desertici dei Kyuss, ma è semplice questione
di gusti) tanto da chiudere il disco con una cover di Dancing barefoot
di una certa Patti Smith. Una concisione maggiore dei brani li avrebbe
sminuiti, forse il passo successivo migliore sarebbe quello di andare ancora
più oltre, amalgamando all'ariosità dei suoni strutture più libere da schemi
che non le lasciano volare in alto come meriterebbero. Stefano Ficagna
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