5 settembre 2014

I Blonde redhead giocano a nascondersi nel nuovo e atteso Barragán

La principale idea che ci si fa del nono disco dei Blonde redhead, Barragán, è che la band italo-giappo-americana, dopo vent'anni di carriera, sia terrorizzata da come il proprio lavoro possa essere recepito. Ma andiamo per ordine. Barragán esce per Kobalt music (e non 4AD come i tre album precedenti). Produzione, suoni e mixaggio sono affidati a Drew Brown, già collaboratore di Beck e Radiohead. L'album parte con registrazioni ambientali che si sovrappongono alla musica, e questa nuova caratteristica accompagnerà un po' tutto il disco.

Si parte con la title-track, che è un brano acustico, strumentale, bucolico, con tanto di flauto che sa di Jethro Tull. Poi ancora qualche rumore ambientale e si passa a Lady M. Anche qui toni dimessi, tranquilli, quasi notturni, per uno di quei brani che di solito vengono messi a fine scaletta. Tra l'altro, un brano che non ha alcuna continuità con l'introduzione che l'ha preceduto. Poi il trio si sveglia. Dripping è uno di quei brani da dj-set di club alternativo, che ad un nuovo ascoltatore potrebbe dare un'idea sbagliata del sound della band. E a chi li ascolta da tanto potrebbe far pensare che forse non esiste più un vero e proprio sound caratteristico della band. Perché anche la successiva Cat on tin roof, che ha il pregio di avere un giro di basso che rimane in testa, è comunque parecchio diversa da ciò che i Blonde redhead facevano una volta. E' tutto molto pulito, non c'è noise, ci sono soluzioni chitarristiche interessanti, quasi da scimmiottamento consapevole delle ritmiche funky anni '70. Ci sono anche i consueti vocalizzi quasi orgiastici della cantante Kazu Makino, ma sono estremamente contenuti e trattenuti. A seguire, gli arpeggi acustici di The one I love, brano che punta tutto sulla vocalità della cantante, che gioca a fare Björk o ad imitare le cantanti folk dei paesi nordici ma senza esserlo. Buon brano, ma anche qui ci si accorge che sono i Blonde redhead solo quando nel finale salta fuori il noise. Poi c'è il singolo: No more honey. Stavolta il discorso è diverso. Qui sì, sono i Blonde redhead, ai vertici più elevati del loro percorso alla scoperta della forma-canzone. Ed avevamo tanto sperato che tutto l'album fosse su questo filone. Così non è, ma godiamoci il buon singolo. Poi, per la prima volta in tutta la discografia della band, i Blonde redhead iniziano a ripetersi. Accade in Mine to be had. Quando c'è una progressione di accordi che sai già perfettamente come continuerà e come andrà a finire, può anche essere piacevole all'inizio, specialmente se sei un fan della band e pensi: "Ormai li conosco bene". Ma quando la cosa comincia a diventare troppo frequente (sì, perché qualche sensazione di ripetizione imminente l'avevamo avuta già nei brani precedenti) significa che inizia il declino. Dicevamo: Mine to be had parte come uno strumentale che si basa su una chord progression con qualche deriva verso Lucio Battisti (in questo album, a differenza di alcuni dei precedenti, non sembrano esserci riferimenti diretti a specifici brani del cantautore nostrano, ma certe progressioni ben note fanno pensare chiaramente a lui). Poi, dopo oltre tre minuti di strumentale, quando il brano sembra volgere verso la fine, subentra il cantato di Simone Pace, peraltro non esaltante. Si va avanti per quattro ulteriori minuti, poi sembra nuovamente finire e invece no, c'è ancora qualcosa da dire e da cantare, per una durata totale di ben nove minuti. Ecco, Mine to be had è un punto interrogativo che rappresenta pienamente il nuovo album. Defeatist anthem (Harry and I) inizia come un classico brano dei Blonde redhead ultimo periodo. Presto diventa una specie di emulazione di cose che i Radiohead facevano quattordici anni fa in Kid A, con l'aggiunta dello scacciapensieri, tipico strumento della tradizione meridionale. Penultimo, con le voci di Kazu Makino e Simone Pace che si accostano e si sovrappongono, e le atmosfere elettroniche ma minimali, è un brano ben riuscito, ed anche ben cantato (cosa che spesso non succede nel resto del disco), ma ricorda troppe altre cose che si sentono in questo periodo, ad esempio The xx. E' in stile Radiohead anche il brano conclusivo, Seven two, ma il falsetto da Thom Yorke fatto da Simone Pace risulta fastidioso. Da quanto scritto in questa recensione dovrebbe emergere che Barragán è un album che non vale la pena di ascoltare... E invece no. I Blonde redhead in questo disco si sono nascosti così tanto, quasi fino a sparire, e sono stati così fuorvianti, che in realtà hanno ottenuto ciò che volevano: un disco impossibile da commentare adeguatamente ma che proprio per questo si fa ascoltare tante volte, e spesso gli ascolti sono consecutivi. E' uno di quei pochi dischi che si possono mandare in loop. Bravi. Marco Maresca

Tracklist:
1. Barragán
2. Lady M
3. Dripping
4. Cat on tin roof
5. The one I love
6. No more honey
7. Mine to be had
8. Defeatist anthem (Harry and I)
9. Penultimo
10. Seven two

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