La prima cosa che colpisce del
disco de I Luf, e non potrebbe essere altrimenti, è il modo in cui veicola il
suo messaggio a tutto tondo. Già dal titolo e dalla cover si capisce che
Delaltér (sottotiolo Verso un altro altrove) punta a dire la sua sulla tragedia
dei migranti, ma è col libretto interno a fumetti che si capisce quanto per la
band sia importante far arrivare il proprio punto di vista, e non solo con la
musica: contrapponendo al viaggio coi barconi della speranza la folla della
metropolitana, ed alle file alle frontiere le code da Mc Donald’s, I Luf
prendono posizione riguardo un problema che, ovviamente, non può non essere poi
sviscerato nei testi.
Verso un altro altrove (presente sia in versione folk che rock, con
quest’ultima che ricorda le atmosfere del film Mediterraneo), Ave Maria migrante, Lampecrucis, Bare a vela,
sono queste le canzoni in cui la band scandaglia principalmente la tragedia di
chi non ha niente e parte sperando in un futuro migliore, mantenendo l’attenzione
sempre centrata sul viaggio piuttosto che sull’altrettanto complicata realtà che
si trovano ad affrontare i profughi. Il tono passa dalla speranza della
preghiera alla disperazione, acuita dai violini, di Lampecrucis, ma pur rimanendo un album con un’intenzione ed una
integrità (ribadita nella ritmata Camminando
e cantando, dove frasi come ‘fa chi vuole fare e chi vuol sapere sa’ o ‘in
caserma si insegna una antica lezione, di morir per il re e non sapere perché’
si fanno manifesto di una possibile rivoluzione dal basso) Delaltér non è solo
questo.
A rallegrare gli animi arrivano
così la traccia che dà il titolo all’album e Don Vecare, in cui il dialetto bresciano unito al ritmo fa muovere
piacevolmente la testa, senza dimenticare la scatenata Signora dai lunghi pensieri: Questa
macchina e La luna le’ na randa mata
rappresentano invece i momenti più intimistici e riflessivi, con la seconda che
vede scatenarsi la cornamusa. Sterminato il numero degli strumenti utilizzati,
compresi alcuni tradizionali irlandesi come il bodhran, accurati gli
arrangiamenti, lascia qualche perplessità un cantato più efficace nei momenti
di festa che quando si spegne la baldoria. Aggiunge poco il secondo disco
acustico che, oltre a riproporre una buona fetta dell’album variando strumenti
ed intenzione ma senza ritoccare eccessivamente gli arrangiamenti, aggiunge al
lotto dei pezzi altri due brani (O
pescator che peschi e Stella
clandestina) in cui viene nuovamente scandagliata la situazione dei
profughi, nel modo misurato e coerente che già traspare dai brani precedenti.
Un onesto ed accattivante album
di folk che, come spesso capita nel genere, si fa anche portatore di un
messaggio. I Luf si schierano apertamente, ma alle lacrime sembrano comunque
preferire i sorrisi speranzosi di chi, in quell’altro altrove, ci crede e si
spera, a rischio di una vita ormai impossibile nel proprio paese d’origine. Un
disco per riflettere ed approfondire, perché di domande scomode sul tema
possono venirne in mente mille. Stefano
Ficagna
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