Di Johnny Mox ne sento parlare da
un bel po'. Me ne avevano parlato i Gazebo penguins, che non per niente lo
accompagnano come band di supporto ed il cui bassista Andrea Sologni è anche
produttore del disco in questione, ed il suo nome è uscito fuori, anche se in
realtà più per questioni di cover del disco, anche con i compagni di etichetta
Valerian swing. Insomma era destino che prima o poi le strade mie e del
reverendo si incrociassero in qualche maniera, e quando ho visto solo soletto
il suo disco fra quelli da recensire non ci ho pensato due volte ad
accaparrarmelo. E non me ne sono pentito.
Il più grande pregio di Obstinate
sermons (uscito per l'etichetta To lose la track) è la canzone con cui inizia, l'apocalittica They told me to have
faith and all I got was the sacred dirt of my empty hands: inizia con un allarme da
fine del mondo, su cui entra dopo poco un appassionato e fervente discorso
condito da battiti di mani che fanno tanto gospel con sottofondo di voci che
continuano a proclamare “more power”... e la potenza arriva, stordente quanto
improvvisa, fra schitarrate paurose e qualcosa che sembra un kazoo impazzito a
fargli compagnia, mentre Johnny (al secolo Gianluca Taraborelli) ci dà dentro
con la voce a mimare la batteria in una prova di beatbox da applausi. Il più
grande difetto del disco? Nulla, di quanto arriva dopo, riesce ad avvicinarsi a
tanta magnificenza. Il che non significa, sia ben chiaro, che il disco smetta
di offrire spunti interessanti: dalle prove influenzate dal post hardcore di Praise
the stubborn e, in misura più acustica, di O' brother e The
winners (altre grandi prove di beatbox, con la seconda che nel testo
echeggia di Mudhoney d'annata col suo inno “we can never be winner if we got
something to lose/ we can only be winner if we got nothing to lose”),
convincenti fino ad un certo punto, alle atmosfere più plumbee e scarne di Ex
teachers (capace comunque di esplodere d'energia nel finale) e,
soprattutto, The long drape, blues lento ed inesorabile che riporta alla
mente il primo Samuel Katarro (o Nick Cave se vogliamo fare esempi più
altolocati) ed a cui un beatboxing finale caotico e poco azzeccato non toglie comunque quasi niente del fascino
oscuro che suscita. Il finale con King Malik è poi un tripudio di
psichedelia, a cui dà una mano il sitar di Alessandro De Zan degli In Zaire, e
che esplode nel finale in una sorta di protostoner allucinato da applausi prima
di lasciare spazio ad un coro conclusivo che fa tanto mantra.
Che dire d'altro? La formula
fuori di testa eppure incredibilmente azzeccata di Johnny Mox sta tutta qua, in
un mix originalissimo di suggestioni gospel, derive distorte (sono Mirko
Marconi alle chitarre ed il già citato Andrea Sologni al basso a dargli
manforte) e punte di blues e psichedelia qua e là. La ripetitività di alcuni
passaggi fa perdere un po' di mordente, nei brani più distorti in particolare,
ma la qualità rimane comunque abbastanza alta da non farmene volere al buon
reverendo se non è riuscito a mantenere la qualità del disco alta quanto la
traccia iniziale: chiuderlo con la magniloquenza di King Malik è già un
ottimo modo di espiare una colpa risibile. Stefano Ficagna
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