Gli Albedo non sono
certo un gruppo che si siede sugli allori, e dopo le ottime critiche ricevute
un paio d'anni fa col concept album Lezioni di anatomia tornano con un
nuovo disco legato ancora da un filo conduttore comune, in questo caso il film
di Fritz Lang. Una suggestione che ultimamente pare andare per la maggiore (Il disordine delle cose ha utilizzato
frammenti del lungometraggio per il video di Hawaii), che qui però è
solo la base di partenza per descrivere un viaggio verso le sfavillanti luci di
una città del futuro, dove è fin troppo facile perdersi. Metropolis, nuovo album della band, esce per V4V records.
Dal “cazzo di
paese” di cui il protagonista parla nell'iniziale Partenze al centesimo
piano di un fosco successo, delineato nella profezia a cui è legato ed alla
quale cerca di sfuggire, un non luogo in cui rimanere in una “granitica
solitudine che alcuni chiamano rispetto” (I miei nemici) ed in cui
cercare di cancellare il proprio passato, forse per non soffrire al ricordo. Ma
se è vero che La profezia recita che “per ogni andata c'è almeno un
ritorno” forse non è troppo tardi per sfuggire alle maglie della tentacolare
metropoli, per decidere di fare il viaggio a ritroso consapevoli che, pur
avendo sprecato gli anni migliori, “l'importanza del viaggio non è solo
arrivare” (Sei inverni). Gli Albedo narrano questa epopea usando tutte
le sfumature del rock, da quello più graffiante e tinto di elettronica dai
synth di Replicante a quello più leggiadro e soavemente malinconico di Astronauti,
in cui le note trascinate e riverberate della chitarra sono come carezze. Tutto
questo senza mai perdere di vista il racconto, riuscendo mirabilmente a rendere
le atmosfere di ogni frammento di storia nella giusta maniera: l'ottimistica
speranza che “altrove è casa e casa è altrove” di Tutte le strade, la
dolcezza con cui si analizza la crisi della fede e la fiducia nella scienza,
una fiducia non abbastanza incondizionata da non portare a chiedersi “se
l'universo è la risposta, qual'è la domanda?” (Higgs, il cui incipit
“Dio ti ricordi quando ti credevano?” vale già l'ascolto), l'alienazione della
macchina lavorativa che stritola fra le sue maglie e lascia tempo per l'amore
solo nei sogni di Replicante, la cupa analisi dell'uomo arrivato che non
si riconosce nei suoi successi e nella sua immagine allo specchio de I miei
nemici, probabilmente il brano migliore di un ricco lotto. Funzionali anche
i brevi interludi dalle atmosfere sognanti La profezia e Metropolis,
azzeccata pur nella sua ripetitività la coda strumentale di Questa è l'ora,
ottima la chiusura energica ma leggiadra con Sei inverni, che in un
ideale cerchio (quasi) perfetto ci riconsegna un protagonista che, passando per
i gironi infernali delle luci della città solo apparentemente simili a stelle,
ritorna all'ovile migliore di quel ragazzo a cui il padre e suo padre prima
ancora avevano insegnato ad “odiare qualsiasi persona che non sia tu” (Partenze).
Metropolis è un disco affascinante, in cui ci si perde volentieri tanto fra le
pieghe del viaggio del protagonista quanto fra le note che ne costituiscono il
tessuto sonoro, il tutto avvalorato da frasi ad effetto che sono tutto tranne
che semplicistiche (recitare “i miei nemici si aspettano qualcuno che li sappia
odiare per bene, e chi li sappia far cadere giù per terra, così che qualcuno li
possa raccogliere dallo loro stessa merda e farli sentire importanti” per
evidenziare le storture dei rapporti interpersonali non è da tutti). Difficile
trovare difetti evidenti in una produzione del genere: gli Albedo insomma fanno
centro un'altra volta, e se Lezioni di anatomia non aveva girato molto
nelle mie playlist Metropolis va sicuramente di fronte a tutt'altro
destino. Stefano Ficagna
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