19 marzo 2015

Gli Albedo si ispirano al kolossal di Fritz Lang per il nuovo album, Metropolis

Gli Albedo non sono certo un gruppo che si siede sugli allori, e dopo le ottime critiche ricevute un paio d'anni fa col concept album Lezioni di anatomia tornano con un nuovo disco legato ancora da un filo conduttore comune, in questo caso il film di Fritz Lang. Una suggestione che ultimamente pare andare per la maggiore (Il disordine delle cose ha utilizzato frammenti del lungometraggio per il video di Hawaii), che qui però è solo la base di partenza per descrivere un viaggio verso le sfavillanti luci di una città del futuro, dove è fin troppo facile perdersi. Metropolis, nuovo album della band, esce per V4V records.


Dal “cazzo di paese” di cui il protagonista parla nell'iniziale Partenze al centesimo piano di un fosco successo, delineato nella profezia a cui è legato ed alla quale cerca di sfuggire, un non luogo in cui rimanere in una “granitica solitudine che alcuni chiamano rispetto” (I miei nemici) ed in cui cercare di cancellare il proprio passato, forse per non soffrire al ricordo. Ma se è vero che La profezia recita che “per ogni andata c'è almeno un ritorno” forse non è troppo tardi per sfuggire alle maglie della tentacolare metropoli, per decidere di fare il viaggio a ritroso consapevoli che, pur avendo sprecato gli anni migliori, “l'importanza del viaggio non è solo arrivare” (Sei inverni). Gli Albedo narrano questa epopea usando tutte le sfumature del rock, da quello più graffiante e tinto di elettronica dai synth di Replicante a quello più leggiadro e soavemente malinconico di Astronauti, in cui le note trascinate e riverberate della chitarra sono come carezze. Tutto questo senza mai perdere di vista il racconto, riuscendo mirabilmente a rendere le atmosfere di ogni frammento di storia nella giusta maniera: l'ottimistica speranza che “altrove è casa e casa è altrove” di Tutte le strade, la dolcezza con cui si analizza la crisi della fede e la fiducia nella scienza, una fiducia non abbastanza incondizionata da non portare a chiedersi “se l'universo è la risposta, qual'è la domanda?” (Higgs, il cui incipit “Dio ti ricordi quando ti credevano?” vale già l'ascolto), l'alienazione della macchina lavorativa che stritola fra le sue maglie e lascia tempo per l'amore solo nei sogni di Replicante, la cupa analisi dell'uomo arrivato che non si riconosce nei suoi successi e nella sua immagine allo specchio de I miei nemici, probabilmente il brano migliore di un ricco lotto. Funzionali anche i brevi interludi dalle atmosfere sognanti La profezia e Metropolis, azzeccata pur nella sua ripetitività la coda strumentale di Questa è l'ora, ottima la chiusura energica ma leggiadra con Sei inverni, che in un ideale cerchio (quasi) perfetto ci riconsegna un protagonista che, passando per i gironi infernali delle luci della città solo apparentemente simili a stelle, ritorna all'ovile migliore di quel ragazzo a cui il padre e suo padre prima ancora avevano insegnato ad “odiare qualsiasi persona che non sia tu” (Partenze).

Metropolis è un disco affascinante, in cui ci si perde volentieri tanto fra le pieghe del viaggio del protagonista quanto fra le note che ne costituiscono il tessuto sonoro, il tutto avvalorato da frasi ad effetto che sono tutto tranne che semplicistiche (recitare “i miei nemici si aspettano qualcuno che li sappia odiare per bene, e chi li sappia far cadere giù per terra, così che qualcuno li possa raccogliere dallo loro stessa merda e farli sentire importanti” per evidenziare le storture dei rapporti interpersonali non è da tutti). Difficile trovare difetti evidenti in una produzione del genere: gli Albedo insomma fanno centro un'altra volta, e se Lezioni di anatomia non aveva girato molto nelle mie playlist Metropolis va sicuramente di fronte a tutt'altro destino. Stefano Ficagna

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