Cosa ti ha portato a scegliere Gozzano per questo nuovo reading?
La risposta più onesta che posso
dare è l’amore. Mi piace, mi è sempre piaciuto e lo reputo un autore che può
piacere anche a chi ancora non lo conosce, perché è facile innamorarsi di
questo ragazzo dei primi del ‘900 che ha già capito tante cose del mondo che
verrà e che ha i giorni contati...è difficile trovare una motivazione che non
sia questa, è come trovare la risposta alla domanda “perché ami questa donna?”
Sicuramente riesce a far vibrare in me delle corde che sono in sintonia con le
sue, prendendo due spartiacque della letteratura italiana come lui e D’Annunzio
io preferisco sicuramente Gozzano, con tutto il rispetto per l’opera del
secondo. Da Gozzano hanno poi attinto autori come Montale, Caproni e
Sanguinetti, che sono tra le massime espressioni poetiche del ‘900.
La letteratura entra prepotentemente anche in tuo progetto del 2012, La
Morte. Com’è nata l’idea di questo disco?
E’ nato dall’impulso di Riccardo
Gamondi, che mi propose di fare alcune letture unite a dell’elettronica
sperimentale su cui stava lavorando. Decisi di dare un taglio tematico al
lavoro per limitare l’universo sterminato di letture che mi si parava di
fronte, cercando brani di tutte le epoche all’interno della letteratura
occidentale che avessero a che fare con la morte...ed ho comunque avuto solo l’imbarazzo
della scelta visto che è IL tema fondamentale. Quello che mi sono divertito a
fare è stata la stessa cosa che fa la morte agli uomini, li azzera, li livella
come diceva Totò...nel progetto La Morte gli autori sono senza nome, senza
storia, passato o futuro, con le sole reliquie che hanno lasciato al mondo,
ovvero i loro testi. Così ho mantenuto l’effetto sorpresa perché se non sai chi
è l’autore di quel dato brano lo apprezzi per quello che è, una lettera anonima
spedita a te da un altro tempo, che leggi senza dover associare ad un nome, un’esperienza
negativa od un pregiudizio. Il primo brano dell’album ad esempio era tratto dai
Promessi Sposi di Manzoni, ed è stato buffo perché evidenziando l’autore avrei
probabilmente penalizzato l’ascolto a causa dei pregiudizi che ognuno ha, in
positivo od in negativo, su un’opera del genere. Ho inserito anche uno dei più
sottovalutati autori italiani come Manganelli, uno che ha scritto della vera e
propria psichedelia e che fosse stato inglese od americano lo avremmo adorato
come Burroughs, mentre invece quasi non sappiamo nemmeno di averlo avuto.
All’interno della rassegna culturale a cui hai partecipato ci sarà
anche un appuntamento con Emidio Clementi dei Massimo Volume: avendo incrociato
le vostre strade musicali in uno split volevo chederti quale rapporto vi lega.
Amicizia nel senso etimologico e
più profondo del termine. C’è corrispondenza fra di noi, mi verrebbe da citare
Foscolo vista la parola ma stiamo parlando di rock e forse non è il caso.
(Ride)
L’anno scorso coi Bachi Da Pietra avete fatto uscire un Ep, Habemus
Baco, per festeggiare i 10 anni di attività. Da dove nasce l’idea di associare
un vino all’uscita, cosa che avevate già fatto col vostro album Tarlo Terzo?
Per me associare il vino alle
cose è naturale, sono nato e cresciuto nella provincia di Asti e pur non
essendo un cultore del vino sento comunque un legame naturale, è una cosa che
ha un significato per me. Quando in passato avevamo associato Tarlo Terzo ad un
Barbera D’Asti l’avevo trovata una cosa bella ed interessante, l’amico che mi
suggerì l’idea mi disse che secondo lui quel vino aveva il carattere del nostro
disco ed io mi immaginavo di vendere le bottiglie ai concerti...invece ce le
siamo bevute tutte noi, perché evidentemente al pubblico del rock il vino non
interessa e preferiscono la birra da un euro nel bicchiere di plastica. Per il
vino associato ad Habemus Baco invece sono un po’ indietro con la lavorazione,
ho selezionato sempre assieme al mio amico Francesco Scrimaglio del Barolo del
2005, con la nostra stessa età come gruppo quindi, nei prossimi mesi ne
preparerò una ventina di bottiglie etichettate “Bachi Da Pietra 2005-2015” e
penso che ne metterò dieci all’asta. Non mi aspetto chissà quali risultati ma
staremo a vedere, alla peggio le berremo noi!
All’interno di questo disco è presente un brano che si intitola Amiamo
La Guerra, ricollegabile facilmente ai temi che affronti nella traccia iniziale
dell’ultimo disco Black Metal Il Mio Folk: mi è capitato di leggere il testo di
quest’ultima proprio nei giorni degli attentati terroristici a Parigi, è
scattato anche per te il collegamento fra quanto avevi scritto e quanto è
successo?
Drammaticamente sì, eccome.
Amiamo La Guerra è un testo di Papini del 1915, cento anni giusti prima dell’uscita
del nostro disco, e la base di quel brano è la coda di quello nuovo. In quello
che segue Black Metal Il Mio Folk c’è il passato, e il passato è lo stesso che
ritorna, non sono un veggente ma semplicemente uno che si rende conto che ciò
che è stato può essere di nuovo e che ci sono tutti i segni che portano a
quello. Basta scavare due centimetri sotto al suolo della storia per trovare
cose del genere.
In Necroide un brano è dedicato alla tragica fine di Jeff Hanneman, e
questo è stato un periodo particolarmente luttuoso per il mondo del rock, tanto
da dare nuova linfa all’annoso discorso sulla “morte del rock”. Tu cosa ne
pensi al riguardo?
Sai quante volte l’hanno dato per
morto il rock? Quando è morto Elvis ad esempio, uno che ai suoi tempi veniva
etichettato come demoniaco, scandaloso, degenerato...una cosa che dovrebbe
farci riflettere. Il rock’n’roll è già morto mille volte ma spunta sempre fuori
qualcuno che te lo spara di nuovo in faccia, quando sono arrivati i Nirvana ad
esempio, anche i mostri del rock che conosciamo noi hanno dovuto seppellire i
loro miti solo che non lo sappiamo. Lemmy ha dovuto seppellire Chuck Berry,
Jerry Lee Lewis, gli stessi che vedeva in televisione e gli facevano dire, come
ha detto in svariate interviste, “quello è un mestiere che fa per me”. Abbiamo
la tendenza a considerarci centro dell’universo perché ci siamo, qui ed ora, ma
non è così.
E’ un discorso noioso che si
protrae da decenni, è nato addirittura il post-rock negli anni 90 e negli
stessi anni sono nati i Kyuss, che come nome basterebbero a farti capire che il
rock non era morto per niente, senza contare che se il post-rock voleva essere
un superamento del rock già Lou Reed negli anni 70, con un album come Berlin,
lo superava a destra, senza andare poi a pensare a cose come i
Kraftwerk...sarebbe un esperimento interessante andare a prendere alcune tracce
dei dischi di quel periodo e provare a pubblicizzarle come se fossero cose
recenti, chissà in quanti se ne accorgerebbero che sono di 30-40 anni fa.
Avete partecipato alla riedizione di Hai Paura Del Buio degli
Afterhours con una versione molto particolare di Punto G. Se potessi scegliere
una o più band per fare la stessa cosa con i brani dei Bachi Da Pietra chi
sceglieresti?
A me piacerebbe, come è piaciuto
a Manuel e compagni, sentire stravolti i nostri brani, quel gusto del
tramandare cambiando diciamo. Un gruppo che volesse cimentarsi nell’impresa
dovrebbe sentirsi libero di farlo nella maniera più personale possibile...mi
piacerebbe molto sentire i Luminal maltrattare un pezzo dei Bachi Da Pietra,
loro sì, anche se li maltrattiamo già talmente noi i nostri pezzi! Alcuni brani
lungo tutta la nostra carriera si presterebbero a mio parere anche a remix
elettronici, a volte mi viene la tentazione di metterci mano di persona per
fare qualcosa di simile, ma vince sempre la voglia di fare quello che non
esiste ancora piuttosto che il rimettere mano a ciò che esiste già.
Necroide, come il precedente Quintale, è stato registrato da Giulio
Favero. E’ il primo nome a cui avete pensato quando avete deciso di puntare
maggiormente sulle distorsioni?
Tutto è cominciato quando lo
abbiamo incrociato al Fargo di Ravenna e ci ha detto “se non registrate il
prossimo disco con me io vi denuncio”, allora per paura del suo pool di
avvocati lo abbiamo fatto e ci è piaciuto parecchio. Questo ha coinciso col
fatto che, perpetrando da sette-otto anni una formula che seppur variabile
aveva delle dinamiche contenute, avevamo voglia di rovesciare il tavolo e
sparare dei decibel in faccia alla gente.
Ho scoperto che il vostro brano Casa Di Legno è stato inserito nella
soundtrack della serie Sons Of Anarchy. Potendo sognare in quale altra serie o
magari film vi piacerebbe sentir suonare un brano dei Bachi Da Pietra?
Le serie televisive odierne sono
talmente fatte bene che ormai hanno una qualità migliore di ciò che passa al
cinema, e me ne andrebbe bene una qualsiasi di quelle. Sul cinema, dovendo fare
dei nomi a cui mi piacerebbe essere associato, il primo che mi viene in mente è
Jim Jarmusch, oltre al solito David Lynch...ma forse è meglio che continui a
farsele da sé le musiche. Mi piacerebbe che il cinema italiano si accorgesse di
noi, esistiamo da dieci anni ma con i tempi lunghi del nostro paese è come se
iniziassimo adesso, come se avessimo acquisito solo un minimo di “diritto d’anzianità”.
Mi ha
incuriosito il tuo progetto parallelo Lampi Per Macachi: come mai un tributo a
Paolo Conte?
Perché me lo porto dietro da una vita, e prima o poi
lo volevo fare. Ho messo insieme canzoni che sapevo come rimaneggiare al netto
del jazz, dicendo comunque qualcosa di interessante su brani che lo sono già
ampiamente di loro, e l’ho fatto con un ensemble fantastico composto da Glauco
Salvo alla chitarra e Mattia Boscolo alle percussioni. Mi sono divertito
tantissimo a fare questa cosa e mi sono tolto uno sfizio, oltre a fare una mia
personale dichiarazione di inattese radici musicali...le radici non sai mai dove
fanno a finire, a volte spaccano l’asfalto.
Intervista a cura di Stefano Ficagna
Intervista a cura di Stefano Ficagna
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