Cosa succede nel momento in cui si passa dal divertimento di suonare nella band del liceo alla responsabilità di una vita fatta di tour intervallati a nuove registrazioni? Qual è il ruolo della musica nelle nostre vite e qual è il ruolo del musicista? Quasi tutte le tracce dell'album, direttamente o indirettamente, parlano di questo. E i FASK (odio le abbreviazioni ma ormai tutti li chiamano così) la loro risposta la danno molto concretamente con la loro musica: a rischio di sembrare sempre uguali vanno avanti a fare la musica che sanno fare, consapevoli che almeno tre o quattro di queste nuove composizioni tutte tirate saranno adatte alla dimensione live, che poi è quella più congeniale alla band perugina. Penso in particolare a Giorni di gloria, destinata ad imprimersi nella memoria già al primo ascolto. Uno di quei casi in cui, trovato il gancio giusto, lo si porta avanti con determinazione per tutto il pezzo e già si pregustano immagini di folle urlanti e scatenate nel pogo. Ci sono anche i pezzi più riflessivi (ma comunque potenti), che ugualmente funzionano bene, come Montana (con un verso che svela un po' la poetica dell'album: "La stabilità / E' crusca per le bestie"). Il problema è che i FASK nonostante la relativamente giovane età sono ancora legati ad una concezione estremamente classica del mondo discografico: l'obbligo del canonico album da fare uscire, per avere qualche pezzo nuovo e andare in tour. E quindi lo strumento del disco nuovo funziona esattamente alla stregua delle centinaia di dischi di band americane del passato che tutti abbiamo ascoltato in giovane età. C'è l'apertura con l'introduzione epica di Asteroide, c'è il pezzo che a un certo punto allenta la tensione (11 giugno), c'è il brano tirato col coretto da cantare tutti insieme (Ignoranza), c'è una specie di mini-suite anni '70 composta da vari movimenti (Giovane), ci sono tutte quelle cose che fai perché devi fare, perché così è stabilito che si debba fare un disco. Non è che i Fast animals and slow kids abbiano dei limiti nel proprio modo di fare musica (per rispondere alla loro domanda). Il limite è quello che la band stessa si è imposta: l'essere eternamente costretti a dimenarsi e urlare sul palco, per far godere chi c'è sotto. La "crusca per le bestie" di cui si è parlato prima. Per esempio è interessante osservare come si sviluppa il brano conclusivo, la title-track Forse non è la felicità. Un brano che nel gran finale risolve egregiamente il tema del disco, peccato che il gran finale non arriva a seguito di un'evoluzione ma ce lo si ritrova buttato lì da un momento all'altro dopo tre minuti e mezzo. Complice anche un registro vocale sempre uguale: perché urlare già a inizio brano, in un brano che (forse) non lo richiede? Si rischia, poi, un appiattimento dei pezzi anche quando questi potrebbero avere una struttura complessa. Ci sono altre cose che non mi piacciono particolarmente, ma sono sottigliezze, ad esempio il cambio di tonalità nel ritornello finale di Ignoranza (ricorrere a questo stratagemma anni '80 è giusto solo se di mestiere si cantano le sigle dei cartoni animati). Oppure la finta chiusura a tre minuti di Capire un errore: pensavate veramente che nessuno si aspettasse che il ritornello ripartisse a sorpresa subito dopo? Ho apprezzato, invece, come il gruppo ha interiorizzato le ritmiche californiane anni '90 dei Weezer inserendole a proprio modo in un brano cantato in italiano (Annabelle). Tenera età è un altro brano che, non serve nemmeno dirlo, è costruito benissimo per funzionare live (anche qui il cantato, con voce doppiata, è esasperato quando il brano non lo richiede espressamente, ma al pubblico piacerà). Coinvolgimento assicurato anche in Fiumi di corpi, dal ritmo sostenuto. La prima volta che (ormai tanti anni fa) vidi dal vivo i FASK, la mia impressione fu quella di un ex-gruppo del liceo che, al contrario degli altri, ce l'avrebbe fatta ed almeno per una stagione sarebbe andato avanti con le proprie gambe. Poi il numero di album a loro firma è cresciuto, così come il loro pubblico, quindi magari hanno ragione loro a fare quello che sanno fare, pestando forte e sfornando canzoni per i prossimi live. Da parte mia però vale il discorso fatto qualche tempo fa per gli Zen circus: replicare se stessi è una decisione forse giusta e incontestabile, finché produce frutti, ma non è una condizione che può protrarsi all'infinito. Del resto, "Forse non è la felicità / Ciò che voglio / Ma un percorso per raggiungerla". Cari FASK, son parole vostre e non potete tirarvi indietro. Vedremo. Marco Maresca
14 marzo 2017
Forse non è la felicità, i Fast animals and slow kids si interrogano sul ruolo della loro musica
Non avevo mai ascoltato così tante volte di fila lo stesso disco, come mi sta capitando da settimane col nuovo album dei Fast animals and slow kids, intitolato Forse non è la felicità ed uscito per Woodworm con distribuzione Audioglobe. Solo che la motivazione è un po' diversa da quella che ci si aspetta in questi casi: ho avuto bisogno di continui e ripetuti ascolti per aver chiara l'idea di cosa scrivere. Sì, perché ho dovuto anch'io interrogarmi su quanto dichiarato dalla band, e trovare la mia risposta, riguardante certo il loro caso specifico ma anche una questione che si può estendere a carattere generale. Dice infatti il gruppo: "I primi mesi successivi al tour di Alaska li abbiamo passati a chiederci se la nostra musica avesse un limite, ad interrogarci su ciò che la nostra band sarebbe potuta, o peggio ancora, sarebbe dovuta diventare. La risposta era molto più facile di quello che potevamo aspettarci: stappare una birra e tornare in sala prove."
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