Prometto, non scriverò questa recensione parlando dei Fine Before You Came sul palco, di "fine before Fine Before You Came came", del primo disco, delle loro magliette, di Milano, della cover di Colpa d'Alfredo, di quando si andava ai concerti il lunedì sera.
Ne voglio parlare partendo da adesso, dalla mia scrivania sulla quale sto accatastando block notes recuperati non mi ricordo più dove, fogli scritti su ogni verso, ricevute, agende, penne e idee perché sto per traslocare. Ne voglio parlare perchè è tanto che non registravano un disco e ascoltando gli ultimi non sono mai riuscito a non pensare a come fossero e suonassero quindici anni fa.
Ma in tre anni la gente cambia, e credo di esser cambiato anche io. La gente, in tre anni, si sforza di migliorare e invece peggiora invecchiando, diventa carognosa e arrogante. Il numero sette è invece un disco perfetto, non c'è molto da dire. Ed è la prima volta, credetemi, che penso così di un disco dei FBYC: non ho mai creduto che qualche loro produzione potesse esser definita "perfetta", pur sempre sostenendoli. Il numero sette è cupo, esistenziale, maledetto. Perché non smetti più di ascoltarlo, tanto suona forte insistendo su appartenenza, sofferenze e spazi vitali da occupare così come sosteneva Mach. Dall'inizio, con Ultimo giorno e le improvvise reminescenze buzzatiane, alla fine, con Nonsenso comune e la sua sussurrata intelligenza. Questa volta, i Fine Before You Came tracciano una via per descrivere in modo accurato e schietto le pulsioni e le paure quotidiane, senza giri di parole e studiando sempre tanto. Per loro le cose univoche sono i sassi e gli alberi, non gli atteggiamenti o le emozioni. Siamo soggiogati dalla pesantezza della natura tramite la quale capiamo gli eventi: Come alberi è una rivelazione del segreto della sofferenza che si fa avanti man mano che gli anni passano e Come pecore la vedo come una disamina su ciò che ci rimane da esplorare, in un mondo che "abbiamo reso peggiore" non riuscendo ad identificarne gli aspetti primordiali come fondamentali. Ma non è pessimismo, il sentimento che traspare da Il numero sette. O per lo meno, non è così facile parlarne come "pessimismo": anche se le soluzioni non vengono contemplate, la musica ci permette di fruire di un momentaneo sollievo. Ecco allora che la ipnotica Sequel è univoca nel suo utilizzare le entrate di ogni singolo componente, sembra lunga ma non lo è, perchè finisce non appena sembra cambiare registro. Penultima notte merita una menzione a parte: è l'unica canzone di impronta Deep Elm del disco che ascolterei sino alla fine se fosse contenuta in una compilation Deep Elm, quei pantagruelici "Emo Diaries" nei quali stentavi a trovare qualcosa di originale e allora cambiavi spesso canzone, saltando qua e là sul CD.
Per fortuna ora ho questo disco da ascoltare, ora che si fa veramente sul serio. E comunque a me piacevano solo i Jejune. Fuori su Legno. Andrea Vecchio
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