Gli anni '70, quelli più
psichedelici e prog nello specifico, sono stati sicuramente un’influenza molto
importante per i membri dei The Chanfrughen, al pari probabilmente dei
cantautori che sempre in quel periodo imperversavano in Italia. Sono infatti un’impronta
sonora che pesca dal passato ed i testi i tratti che spicano di più in questo
Shah mat, secondo album della band ligure, composto da otto tracce che uniscono
la potenza del rock ad un fascino esotico.
Proprio l’esotismo delle lande
del Centroamerica emerge da Belize,
prima traccia che si ascolta dopo la corposa ouverture strumentale Voodoo Belmopan, anche se le immagini
del piccolo stato si mischiano con la realtà scomoda degli “evasori fiscali
mentali”: un’unione ottimamente riuscita quella fra le parole di Gialuca ed il
mellifluo incastro degli strumenti, con questi ultimi che si prendono la
ribalta verso la fine del brano in una lunga parentesi strumentale quasi da
manuale del genere. Una concessione alle regole base del prog questa che permea
quasi l’intero disco, e seppure mai veramente fuori luogo sa un po’ di
stucchevole, particolarmente quando il brano già di per sè stenta a decollare:
è il caso di Parassiti, dove i ritornelli
non riescono a dare la carica e l’accelerazione strumentale a metà brano sembra
più un momento di sfogo che un proseguio
adeguato all’andazzo seguito fin lì. Meglio, molto meglio va con Rum, spezie, sciac tra, dove al ritmo
blues trascinante delle strofe segue un azzeccatissimo rallentamento nei
ritornelli, dove le parole aiutano ancora a dare una spinta in più (“Noi che
abbiamo la stessa consistenza di un cerino brilliamo di rado”)...e amen se il
finale è affidato ancora ad un lungo outro strumentale, perché stavolta non si
esce troppo dal seminato.
Si parlava di esotismo, ed è
sicuramente la traccia che dà il tiolo al disco, Shah mat, a rappresentare il punto più alto di questa influenza.
Vuoi per il sitar o vuoi per il testo ma la traccia riesce a far veramente
viaggiare momentaneamente nell’Asia Minore, anche se il ritornello lascia
qualche perplessità di metrica vocale. T.S.O.
mostra invece il lato rock più lineare e senza fronzoli, che sfocia poi nella
seguente Delle fave in un finale simil-Sabbathiano.
Limonov, traccia con cui si conclude
il disco, fa alzare un po’ il sopracciglio per un mix generale mal amalgamato
col resto dei brani, ma riesce a recuparare parzialmente con l’ennesima
cavalcata strumentale che, ancor più che nel brano precedente, lascia piacevoli
sensazioni di graniticità proto-stoner.
Indecisi se cavalcare in pieno l’onda
del prog psichedelico o se distaccarsene con soluzioni più personali i The
Chanfrughen trovano una piacevole via di mezzo, debitrice dei maestri (soprattutto
nelle lunghe e sempre presenti digressioni strumentali) ma con sprazzi di buona
individualità che emergono soprattutto da testi ben costruiti e mai banali. Un
tuffo in un passato mai così vicino insomma, buona la seconda! Stefano Ficagna
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