5 marzo 2016

Diversi modi di raccontare: Emidio Clementi e le differenze tra musica e letteratura

Il Festival della letteratura di Roma chiese ad Emidio Clementi di preparare alcune pagine che dessero un'idea, attraverso alcuni passaggi della sua bibliografia, del suo stile letterario. Anche Free Tribe ha invitato Emidio Clementi per un reading di questo tipo, unito ad una chiacchierata in compagnia di Gianni Lucini. L'appuntamento fa parte della trilogia "Diversi modi di narrare", inserita nella rassegna "Un febbraio da non dimenticare" promossa dalla Provincia di Novara. L'intervista che segue è tratta dalla chiacchierata con Lucini all'azienda vinicola delle sorelle Conti di Maggiora.


Scrittore o musicista, come preferisci essere definito?
In Italia c'è sempre un minimo di imbarazzo ad approcciarsi con persone che si dedicano a diverse forme d'arte e di comunicazione. A un artista si chiede soprattutto una visione del mondo e credo che questa visione sia declinabile con linguaggi diversi. Qualche tempo fa leggendo su Anooby i commenti ai miei libri, una persona scrisse "E' meglio la peggiore poesia di un poeta rispetto alla migliore canzone di un cantautore", credo che questa sia una sciocchezza, la storia ci riporta molti esempi di scrittori che si sono dedicati alla musica e ad altre forme espressive.

Un limite tipicamente italiano, quindi?
Probabilmente il fatto che nel nostro Paese siano pochissimi gli scrittori che fanno unicamente quello di mestiere, peggiora le cose. Lavorando con diversi uffici stampa mi spiegavano che per loro il mio 'essere anche musicista' è una specie di handicap. Ma se tutti gli scrittori fanno anche altri lavori per vivere, non capisco perchè proprio il mio altro lavoro deve essere una limitazione.


Qual è il pregio della scrittura rispetto alla musica?
Probabilmente il poter lavorare da solo, avendo il pieno controllo della situazione. A cinquant'anni mi a volte mi pesa stare molto tempo in sala prove, con la scrittura è più facile sviluppare una buona idea, ma questo può anche essere un limite, una buona idea che non viene rielaborata e arricchita da altri resta quella, nella musica da una buona idea, con il lavoro di tanti, si può arrivare ad un'idea finale sorprendente.

Il disco dei Sorge, che esce proprio in questi giorni, che approccio compositivo ha avuto?
La guerra di domani è uscito il 5 febbraio. Ci ho lavorato con Marco Caldera, già al lavoro nella produzione dei dischi dei Massimo Volume. Il tutto è partito da un vecchio pianoforte che avevo a casa, regalato dalla nonna di mia moglie: iniziai a prendere qualche lezione, ma lo strumento mi metteva un po' in soggezione e non andavo mai oltre agli esercizi che mi dava Bruno, l'insegnante che mi seguiva. Un giorno mi sbloccai e incominciai a considerare il piano con una nuova potenzialità espressiva, parlando con Marco gli proposi quindi di realizzare un disco di blues elettronico: ho iniziato a mandargli delle linee molto semplici di piano, lui le ha rivestite di un paesaggio elettronico. Per questo disco abbiamo limitato al minimo l'utilizzo della sala prove, lavorando molto a distanza o, insieme, con il computer.

Da dove arriva il nome Sorge?
Il nome è ispirato alla spia sovietica Sorge (si legge Sorghe), condannato a morte dai giapponesi e giustiziato: lui ha vissuto fino all'ultimo nei panni del suo nemico. Ci sembra un nome anche riconducibile all'italiano e abbastanza evocativo. Qualcuno ha anche pensato che il disco fosse un omaggio al giornalista musicale Claudio Sorge, non è così. Di Sorge mi ha colpito la capacità quasi sovrumana di interpretare fino alla morte il ruolo a lui più odioso, quello del nemico nazista. I pezzi scritti non parlano di lui, ma è come se si muovessero nell’ombra tracciata dalla sua vicenda umana, in quella faglia tra ciò che si è e ciò che la vita ci conduce a essere. Non è un concept album, ma alcuni temi, come quello della perdita, sono certamente ricorrenti.

Qual è la letteratura che senti più vicina alla tua scrittura e al tuo approccio nel comporre?
Quando iniziammo l'esperienza dei Massimo Volume c'era l'idea di riportare in un contesto italiano quello che gli americani facevano, quando scrivevo i primi testi pensavo a Carver: anche se c'era un dettaglio molto spiccato su alcune realtà italiane lo sguardo d'insieme era quello dato dalla letteratura americana. Ho sempre trovato la letteratura europea respingente, quando mi sono avvicinato agli scrittori americani è come se mi tendessero la mano, in modo accogliete, forse perché non c'era un mondo accademico dietro. Leggendo degli scrittori europei non credo mi sarei mai avvicinato alla scrittura.
Per quanto concerne gli autori preferiti, invece, mi piace citare Allan Gurganus, di recente tradotto in italiano e Sam Shepard: Motel Chronicles è uno dei miei libri preferiti.


Non esistono romanzi perfetti, ma esistono molti racconti perfetti. Condividi questa affermazione di Ballard?
Non riesco ad avere una prospettiva ampia, per questo personalmente preferisco la dimensione del racconto. C'è maggiore controllo, anche nella rilettura che può essere più agevole. Magari arrivo alla fine di un disco o di un romanzo in cui si coglie comunque un disegno comune e ben definito, ma nella scrittura dei vari capitoli il mio approccio è un po' quello di una raccolta di racconti che vanno a comporre una storia più ampia.


Intervista di Roberto Conti

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