Due parole, doverose, sulla vicenda umana di David Bowie e poi passeremo alla recensione del suo ultimo album, Blackstar. Recensione che avremmo scritto comunque, perché era già in programma. Giusto il tempo di metabolizzare l'album con qualche ascolto in più. In sintesi: David Bowie se n'è andato e ci mancherà ovviamente molto. David Robert Jones è coevo di molti altri miti della cultura pop del '900 che pian piano se ne stanno andando. Rispetto a tanti di quelli più blasonati era nato anche qualche anno dopo. Però ha avuto la fortuna (o bravura) di esordire qualche anno o mese prima di tanti altri nomi storici: quel tanto che gli è bastato per accentrare su di sé i riflettori anziché vivere della luce altrui riflessa. Oltre a questo ha avuto anche una grande padronanza dell'utilizzo dell'immagine e della teatralità del proprio corpo, che gli ha procurato grandi benefici a livello di appariscenza, rendendolo un personaggio fruibile anche al di fuori dal discorso musicale. Tutto ciò si aggiunge agli innegabili meriti musicali e per tutta questa serie di motivi la carriera di David Bowie è un lungo viaggio in tutta quella che è stata la cultura pop, anche al di fuori dalla musica. David Bowie è conosciuto da tutti, anche da chi non ne padroneggia tutta la vasta discografia. Non stupisce, quindi, la partecipazione sentita nei confronti della sua dipartita dal mondo degli esseri umani. Ziggy Stardust, Aladdin Sane, il Duca Bianco e tutte le altre incarnazioni del poliedrico David Robert Jones mancheranno molto, perché la fine della vicenda umana di Bowie coincide con la fine di un mondo che non esiste più se non nei nostri ricordi. Non aggiungiamo altro, perché lo spazio di questa recensione vogliamo usarlo per celebrare la musica dell'artista, come siamo soliti fare.
Passiamo quindi all'album, il cui titolo corretto sarebbe ★, ma che per comodità chiameremo Blackstar. Il disco è uscito per l'etichetta di Bowie, ISO, con distribuzione RCA nel Regno Unito e Columbia negli U.S.A. La data di uscita, 8 gennaio, ha coinciso col sessantanovesimo compleanno dell'artista. David Bowie è morto due giorni dopo, e la sua morte purtroppo non è stata una trovata promozionale per il nuovo disco. Anche perché Blackstar è un disco brillante e luminoso e si promuove da solo. Blackstar, come spesso è accaduto nella discografia di Bowie, è un album totalmente diverso dal precedente (in questo caso The next day, del 2013). Il disco inizia con un brano intitolato, per l'appunto, Blackstar, scritto appositamente per la serie TV The last panthers. La canzone è lunga quasi dieci minuti ed è accompagnata da un bizzarro ed oscuro video promozionale. Sì, un brano di dieci minuti uscito come singolo. Originariamente durava ancora di più, ma è stato tagliato poiché iTunes non avrebbe potuto promuoverlo come singolo se la durata avesse superato i dieci minuti. Genere? Art rock, jazztronica, avant-jazz, drum and bass, acid house, blues, come volete. Tutto insieme e con vari cambi di scena, come un musical teatrale anni '70 ma ambientato nel futuro. Un'apertura d'album che stupisce e che vuole imporre con forza la propria diversità dal repertorio precedente. Merito anche dei preziosi collaboratori, che nelle tracce successive sapranno dare il meglio di se stessi. Ai fiati Donny McCaslin, sassofonista jazz di fama mondiale che è libero di giocare all'interno della struttura dei brani. 'Tis a pity she was a whore ne è la dimostrazione. Alla batteria Mark Guiliana, che è una specie di drum machine acid-jazz vivente. In Sue (or in a season of crime), già ascoltata nel 2014, che vede James Murphy degli LCD Soundsystem come ospite percussivo, è praticamente come ascoltare Squarepusher. I brani sono solo sette ed il Bowie dei vecchi tempi si sente soltanto nella finale I can't give everything away e parzialmente in Dollar days, in cui comunque la tendenza jazzistica del nuovo disco prende il sopravvento dai due minuti in poi. I restanti sono esperimenti avanguardistici. Lazarus è l'altro singolo che racchiude lo spirito dell'album (anche qui, sei minuti e mezzo). Girl loves me è un cupo "modern blues" particolarmente interessante. Andando oltre il discorso delle singole tracce, possiamo dire che la produzione a cura di Tony Visconti è eccellente. Ci sono vari artifici che tolgono l'attenzione dalla malattia di David Bowie e la spostano sull'esecuzione strumentale. Ne risulta un viaggio tra vari generi musicali, anche difficili, in cui l'ascoltatore è comunque accompagnato e tranquillizzato dalla voce di Bowie in primo piano (come si addice ad un disco che è pur sempre pop), ma sempre più nel corso del disco il percorso si sviluppa su intricate trame jazzistiche. Il tutto coadiuvato da un forte lavoro di psicoacustica, perché Blackstar è uno di quei (sempre più rari) dischi in grado di impressionare per la scelta dei suoni: la batteria secchissima e ipercompressa va ascoltata a volume molto, molto alto e provoca goduria fisica. Sappiamo di odorare di vecchio scrivendo una cosa del genere nel 2016, ma Blackstar è un disco che non bisogna ascoltare da PC. Ci vogliono un buon amplificatore e una bella coppia di diffusori vecchio stile. E tanto, tanto volume. E il cerchio si chiude, perché Blackstar è Ziggy Stardust ambientato nel futuro. E' soltanto un'altra delle incarnazioni di David Robert Jones, l'ultima, quella che lo riporterà al pianeta da cui è venuto. Marco Maresca
Passiamo quindi all'album, il cui titolo corretto sarebbe ★, ma che per comodità chiameremo Blackstar. Il disco è uscito per l'etichetta di Bowie, ISO, con distribuzione RCA nel Regno Unito e Columbia negli U.S.A. La data di uscita, 8 gennaio, ha coinciso col sessantanovesimo compleanno dell'artista. David Bowie è morto due giorni dopo, e la sua morte purtroppo non è stata una trovata promozionale per il nuovo disco. Anche perché Blackstar è un disco brillante e luminoso e si promuove da solo. Blackstar, come spesso è accaduto nella discografia di Bowie, è un album totalmente diverso dal precedente (in questo caso The next day, del 2013). Il disco inizia con un brano intitolato, per l'appunto, Blackstar, scritto appositamente per la serie TV The last panthers. La canzone è lunga quasi dieci minuti ed è accompagnata da un bizzarro ed oscuro video promozionale. Sì, un brano di dieci minuti uscito come singolo. Originariamente durava ancora di più, ma è stato tagliato poiché iTunes non avrebbe potuto promuoverlo come singolo se la durata avesse superato i dieci minuti. Genere? Art rock, jazztronica, avant-jazz, drum and bass, acid house, blues, come volete. Tutto insieme e con vari cambi di scena, come un musical teatrale anni '70 ma ambientato nel futuro. Un'apertura d'album che stupisce e che vuole imporre con forza la propria diversità dal repertorio precedente. Merito anche dei preziosi collaboratori, che nelle tracce successive sapranno dare il meglio di se stessi. Ai fiati Donny McCaslin, sassofonista jazz di fama mondiale che è libero di giocare all'interno della struttura dei brani. 'Tis a pity she was a whore ne è la dimostrazione. Alla batteria Mark Guiliana, che è una specie di drum machine acid-jazz vivente. In Sue (or in a season of crime), già ascoltata nel 2014, che vede James Murphy degli LCD Soundsystem come ospite percussivo, è praticamente come ascoltare Squarepusher. I brani sono solo sette ed il Bowie dei vecchi tempi si sente soltanto nella finale I can't give everything away e parzialmente in Dollar days, in cui comunque la tendenza jazzistica del nuovo disco prende il sopravvento dai due minuti in poi. I restanti sono esperimenti avanguardistici. Lazarus è l'altro singolo che racchiude lo spirito dell'album (anche qui, sei minuti e mezzo). Girl loves me è un cupo "modern blues" particolarmente interessante. Andando oltre il discorso delle singole tracce, possiamo dire che la produzione a cura di Tony Visconti è eccellente. Ci sono vari artifici che tolgono l'attenzione dalla malattia di David Bowie e la spostano sull'esecuzione strumentale. Ne risulta un viaggio tra vari generi musicali, anche difficili, in cui l'ascoltatore è comunque accompagnato e tranquillizzato dalla voce di Bowie in primo piano (come si addice ad un disco che è pur sempre pop), ma sempre più nel corso del disco il percorso si sviluppa su intricate trame jazzistiche. Il tutto coadiuvato da un forte lavoro di psicoacustica, perché Blackstar è uno di quei (sempre più rari) dischi in grado di impressionare per la scelta dei suoni: la batteria secchissima e ipercompressa va ascoltata a volume molto, molto alto e provoca goduria fisica. Sappiamo di odorare di vecchio scrivendo una cosa del genere nel 2016, ma Blackstar è un disco che non bisogna ascoltare da PC. Ci vogliono un buon amplificatore e una bella coppia di diffusori vecchio stile. E tanto, tanto volume. E il cerchio si chiude, perché Blackstar è Ziggy Stardust ambientato nel futuro. E' soltanto un'altra delle incarnazioni di David Robert Jones, l'ultima, quella che lo riporterà al pianeta da cui è venuto. Marco Maresca
Nessun commento:
Posta un commento