4 settembre 2015

Interpol a Torino: cosa è piaciuto e cosa no del terzo giorno del TOdays Festival

Il 30 agosto scorso si è concluso il Todays Festival, primo capitolo di una kermesse musicale che farà molto discutere in positivo sulle cosiddette “tendenze musicali alternative” che ormai fanno parte della quotidianità di chi segue, in modo anche sommario, un certo tipo di realtà lungo lo stivale Il festival, tenutosi nell’area all’aperto dello Spazio 211 a Torino, infatti, ha saputo coniugare generi musicali anche radicalmente diversi (si pensi agli immensi Church of Violence in scaletta prima dei Verdena) per attitudine ed è stato seguito da una marea di presenze offrendo prezzi realmente accessibili: tre serate, tre sold out.

Alle 20 iniziano gli Anthony Laszlo, duo che ha girato l’Italia durante tutta l’estate e che si fa promotore di un genere che fatto così, a mio parere, non va bene. Chitarra e batteria abbastanza pestate ma con testi in italiano al limite della filastrocca e dello pseudo-alternativismo. Poesia zero, tanto movimento ed al limite dell’antipatia. Molto rivedibili. Dopo di loro i Dardust, elettronica alla Mogwai (e alla 65 days of Static, come mi suggerisce Mattia, mio compare di trasferta)  che poco calzava col mood della serata ma che è risultato comunque orecchiabile e divertente. Dopo di loro, Levante. Accolta dal pubblico come una stella, ammetto di averne sentito parlare ben poco. Canzoni in italiano con una buona dose di indierock ma che a me, personalmente, non hanno per niente colpito.
Domenica 30 è stata la serata degli Interpol, in tour per il loro ultimo lavoro su Matador, “El Pintor”, anagramma del loro stesso nome.  Non sapevo nemmeno cosa avrei potuto aspettarmi, certo è che, per arrivare al sodo, sono stati violenti, corrucciati, annoiati, malinconici, indifendibili e macchinosi. Si fanno aspettare per più di mezz’ora e quando arrivano attaccano senza troppe manfrine con Say hello to the angels, brano con il quale da anni ormai aprono i loro concerti. L’ambientazione è tetra, sebbene il cortile strabocchi di gente, di grida, di birre e di movimenti. Certi ridono per l’italiano col quale Banks ringrazia il pubblico, altri, fanno foto, altri ancora sono in fila ai gabinetti parlando della giornata lavorativa del giorno dopo, non curandosi della cupezza che si sta impossessando dell’ambiente che vivono, come in un film horror.Perché gli Interpol sono tetri. Sono mestamente impacciati, sono irriducibili nel loro perseverare mansueto e malinconico sulle chitarre e sulle linee di basso, sono lasciati a loro stessi tra i movimenti di Kessler alle smorfie di Banks, come lo sono su disco. Non si autocompiaciono come non amano entrare in competizione. Così arriva Evil come arrivano Everything is wrong e Slow Hands, sino ad una PDA nemmeno presentata, a freddo. Che si interrompe al solito “Sleep tonight” del secondo ritornello  lasciando la Barriera di Milano col fiato sospeso. Ma tanto tutti sapevano come sarebbe andata a finire. La coda strumentale è stata chirurgica e maledettamente da camera, cioè quando ti metti in camera, chiudi le porte e fai finta di suonare.  Chiudono con All the rage back home dopo essere rientrati dalla pausa prima del congedo finale con Untitled.
E non importa  che non abbiano suonato né i due  Obstacles NYC : io e Mattia ce ne torniamo a casa osservando la gente che affolla i bus per tornare in centro. Perchè i divani sono e rimangono sempre duecento, sui quali dormire. Andrea Vecchio

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