Il
30 agosto
scorso si è concluso il Todays
Festival,
primo capitolo di una kermesse musicale che farà molto discutere
in positivo
sulle cosiddette “tendenze musicali alternative” che ormai fanno parte della
quotidianità di
chi segue, in modo anche sommario, un certo tipo di realtà lungo
lo stivale Il
festival, tenutosi nell’area all’aperto dello Spazio 211 a Torino,
infatti, ha
saputo coniugare generi musicali anche radicalmente diversi (si
pensi agli
immensi Church of Violence in
scaletta
prima dei Verdena) per attitudine ed è stato seguito da una marea
di presenze
offrendo prezzi realmente accessibili: tre serate, tre sold out.
Alle
20
iniziano gli Anthony
Laszlo, duo che
ha girato l’Italia durante tutta l’estate e che si fa promotore di
un genere
che fatto così, a mio parere, non va bene. Chitarra e batteria
abbastanza
pestate ma con testi in italiano al limite della filastrocca e
dello
pseudo-alternativismo. Poesia zero, tanto movimento ed al limite
dell’antipatia.
Molto rivedibili. Dopo di loro i Dardust,
elettronica alla Mogwai (e alla 65 days of Static, come mi
suggerisce Mattia,
mio compare di trasferta) che
poco
calzava col mood della serata ma che è risultato comunque
orecchiabile e
divertente. Dopo di loro, Levante.
Accolta dal pubblico come una stella, ammetto di averne sentito
parlare ben
poco. Canzoni in italiano con una buona dose di indierock ma che a
me,
personalmente, non hanno per niente colpito.
Domenica
30
è stata la serata degli Interpol,
in
tour per il loro ultimo lavoro su Matador, “El Pintor”, anagramma
del loro
stesso nome. Non sapevo
nemmeno cosa
avrei potuto aspettarmi, certo è che, per arrivare al sodo, sono
stati
violenti, corrucciati, annoiati, malinconici, indifendibili e
macchinosi. Si
fanno aspettare per più di mezz’ora e quando arrivano attaccano
senza troppe
manfrine con Say hello to
the angels,
brano con il quale da anni ormai aprono i loro concerti.
L’ambientazione è
tetra, sebbene il cortile strabocchi di gente, di grida, di birre
e di
movimenti. Certi ridono per l’italiano col quale Banks ringrazia
il pubblico,
altri, fanno foto, altri ancora sono in fila ai gabinetti parlando
della
giornata lavorativa del giorno dopo, non curandosi della cupezza
che si sta
impossessando dell’ambiente che vivono, come in un film
horror.Perché gli
Interpol sono tetri. Sono mestamente impacciati, sono irriducibili
nel loro
perseverare mansueto e malinconico sulle chitarre e sulle linee di
basso, sono
lasciati a loro stessi tra i movimenti di Kessler alle smorfie di
Banks, come
lo sono su disco. Non si autocompiaciono come non amano entrare in
competizione. Così arriva Evil
come
arrivano Everything is
wrong e Slow Hands, sino ad una PDA
nemmeno
presentata, a freddo. Che si interrompe al solito “Sleep tonight”
del secondo
ritornello lasciando la
Barriera di
Milano col fiato sospeso. Ma tanto tutti sapevano come sarebbe
andata a finire.
La coda strumentale è stata chirurgica e maledettamente da camera,
cioè quando
ti metti in camera, chiudi le porte e fai finta di suonare. Chiudono con All the rage back home dopo essere
rientrati dalla pausa prima del congedo finale con Untitled.
E
non
importa che non abbiano
suonato né i due
Obstacles né NYC : io e Mattia ce ne torniamo a casa osservando
la gente che
affolla i bus per tornare in centro. Perchè i divani sono e
rimangono sempre
duecento, sui quali dormire. Andrea Vecchio
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