Quest'anno una delle rarissime incursioni nel mainstream
internazionale la dedichiamo ai Weezer. Alcune loro uscite discografiche, tra
cui Hurley, erano risultate
inquietanti. E invece ecco un inaspettato album pieno di speranza, intitolato Everything will be alright in the end,
targato Republic records. Col nuovo disco i Weezer celebrano (nel vero senso
della parola) i vent'anni dall'esordio e si riaffidano al loro primo
produttore, Ric Ocasek.
Che il disco prometta lo si intuisce già dalla copertina, e poi dal primo brano, che per lo meno ha un piglio diverso dalle ultime cose fatte. Ain't got nobody è infatti un inno rock allegro e ritmato, dedicato alle persone sole (e forse in qualche modo fiere di esserlo, ma non troppo). Dopo l'inizio solidale, ecco il singolone Back to the shack. Nel testo Rivers Cuomo chiede scusa al pubblico per quanto fatto, musicalmente, negli ultimi anni (può stupire, ma chi ascolta abitualmente i Weezer sa che il dichiararsi così apertamente nei brani è una cosa che la band fa spesso). Il cantante, nel testo, dichiara di voler ripartire dal '94, anno d'esordio. Ecco quindi che il resto dell'album manterrà la promessa: nel bene o nel male ascolteremo un disco del '94. Eulogy for a rock band piace, eccome: è un brano in pieno stile Weezer (sebbene ora la band abbia bisogno di parecchi co-autori per reimparare a scrivere le proprie canzoni). Anche l'argomento è particolare: è un addio alla band che i Weezer erano quindici anni prima. La consapevolezza che quei tempi non ci saranno mai più. Ma, visto il momento, potrebbe parlare anche di quella mitica generazione di rockstar che sta scomparendo a causa dell'età avanzata. Lonely girl è spettacolare: puro stile Weezer. Rimane in testa dal primo ascolto. I've had it up to here, scritta con Justin Hawkins dei Darkness, ha un altro ritornello splendido e parla del ritrovato desiderio di autenticità. The British are coming è un brano a tema storico sui tempi in cui l'invasione britannica non era musicale ma bellica. Da Vinci è una romantica canzone pop radiofonica simile per tema alla nostrana Come un pittore dei Modà. Qualcosa in contrario? Fa parte dello stile dei Weezer. Fanno bene. Poi c'è la prima cosa veramente inaspettata: Go away, un pezzo che probabilmente il gruppo avrebbe sempre voluto fare ma non c'era mai riuscito, finché collaborava solo con artisti totalmente fuori dal proprio giro, nel (peraltro inutile) tentativo di avvicinarsi ad un pubblico che non era il proprio. Ecco quindi un duetto con una che con la musica dei Weezer ci va a nozze: Bethany Cosentino dei Best coast. Go away risulta quindi un succosissimo brano in stile bubblegum in cui un duetto da Grease si scontra con le chitarre distorte dei Weezer. Cleopatra, che parla del liberarsi dalle persone care che purtroppo esercitano un subdolo controllo su di noi, è il secondo singolo, e quindi per forza di cose non può suonare come una canzone del '94. Da segnalare un tentativo abbastanza riuscito di assolo sullo stile di Billy Corgan sul finale (gli assoli sono notevoli in tutto il disco: spesso meglio che agli esordi). La finale Foolish father (la figura paterna ricorre spesso) gode di un ritornello apertissimo che sfocia in inno da stadio ripetendo come un mantra che alla fine tutto andrà bene. Fine? No, perché c'è un'altra cosa totalmente inaspettata. Una suite in tre atti, intitolata The futurescope trilogy che sta da qualche parte tra il glam rock, il progressive, i Muse, i Foo fighters, i Queen. La suite inizia con una pomposa introduzione strumentale, I. The waste land, che in quanto a rigida drammaticità farebbe impallidire Funeral for a friend di Elton John. L'ouverture sfocia poi nel coro da stadio di II. Anonymous, un brano misterioso (spirituale? Cuomo pratica la meditazione...) dedicato ad un nemico senza nome che, una volta affrontato a viso aperto, acquisisce un'identità e si trasforma addirittura in amico da ringraziare. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi finale strabordante in stile Queen con III. Return to Ithaca, altro brano strumentale col quale si conclude in maniera totalmente inattesa un disco che alla fine lascia quel mezzo sorriso sul volto, come dopo il gran finale dei fuochi d'artificio. E' un album di revival? Sì, ma non puzza di vecchio. Per un attimo si torna davvero ai tempi delle superiori ma senza provare nostalgia. E' un album costruito? Sì, perché i Weezer fanno ancora molta fatica a tornare per davvero ai livelli dei primi due album. Hanno bisogno di ben sette co-autori. E' un album valido? Sì, è il loro disco più bello dopo i primi due. Ma attenzione: la pomposità, l'atmosfera allegrotta, gli assoli curati, servono a coprire il fatto che fondamentalmente, a parte alcune eccezioni, c'è ancora il fantasma di non riuscire a scrivere una canzone che sia valida per più di un minuto e mezzo. I ritornelli son meravigliosi come agli esordi, le melodie restano in testa, i pezzi sono belli a tratti. Ma ai tempi di Hurley ci eravamo augurati che i Weezer facessero proprio un disco come questo, e la band ci ha accontentati, e quindi c'è ancora speranza (chi l'avrebbe mai detto?) che alla fine tutto andrà bene per davvero. Marco Maresca
Che il disco prometta lo si intuisce già dalla copertina, e poi dal primo brano, che per lo meno ha un piglio diverso dalle ultime cose fatte. Ain't got nobody è infatti un inno rock allegro e ritmato, dedicato alle persone sole (e forse in qualche modo fiere di esserlo, ma non troppo). Dopo l'inizio solidale, ecco il singolone Back to the shack. Nel testo Rivers Cuomo chiede scusa al pubblico per quanto fatto, musicalmente, negli ultimi anni (può stupire, ma chi ascolta abitualmente i Weezer sa che il dichiararsi così apertamente nei brani è una cosa che la band fa spesso). Il cantante, nel testo, dichiara di voler ripartire dal '94, anno d'esordio. Ecco quindi che il resto dell'album manterrà la promessa: nel bene o nel male ascolteremo un disco del '94. Eulogy for a rock band piace, eccome: è un brano in pieno stile Weezer (sebbene ora la band abbia bisogno di parecchi co-autori per reimparare a scrivere le proprie canzoni). Anche l'argomento è particolare: è un addio alla band che i Weezer erano quindici anni prima. La consapevolezza che quei tempi non ci saranno mai più. Ma, visto il momento, potrebbe parlare anche di quella mitica generazione di rockstar che sta scomparendo a causa dell'età avanzata. Lonely girl è spettacolare: puro stile Weezer. Rimane in testa dal primo ascolto. I've had it up to here, scritta con Justin Hawkins dei Darkness, ha un altro ritornello splendido e parla del ritrovato desiderio di autenticità. The British are coming è un brano a tema storico sui tempi in cui l'invasione britannica non era musicale ma bellica. Da Vinci è una romantica canzone pop radiofonica simile per tema alla nostrana Come un pittore dei Modà. Qualcosa in contrario? Fa parte dello stile dei Weezer. Fanno bene. Poi c'è la prima cosa veramente inaspettata: Go away, un pezzo che probabilmente il gruppo avrebbe sempre voluto fare ma non c'era mai riuscito, finché collaborava solo con artisti totalmente fuori dal proprio giro, nel (peraltro inutile) tentativo di avvicinarsi ad un pubblico che non era il proprio. Ecco quindi un duetto con una che con la musica dei Weezer ci va a nozze: Bethany Cosentino dei Best coast. Go away risulta quindi un succosissimo brano in stile bubblegum in cui un duetto da Grease si scontra con le chitarre distorte dei Weezer. Cleopatra, che parla del liberarsi dalle persone care che purtroppo esercitano un subdolo controllo su di noi, è il secondo singolo, e quindi per forza di cose non può suonare come una canzone del '94. Da segnalare un tentativo abbastanza riuscito di assolo sullo stile di Billy Corgan sul finale (gli assoli sono notevoli in tutto il disco: spesso meglio che agli esordi). La finale Foolish father (la figura paterna ricorre spesso) gode di un ritornello apertissimo che sfocia in inno da stadio ripetendo come un mantra che alla fine tutto andrà bene. Fine? No, perché c'è un'altra cosa totalmente inaspettata. Una suite in tre atti, intitolata The futurescope trilogy che sta da qualche parte tra il glam rock, il progressive, i Muse, i Foo fighters, i Queen. La suite inizia con una pomposa introduzione strumentale, I. The waste land, che in quanto a rigida drammaticità farebbe impallidire Funeral for a friend di Elton John. L'ouverture sfocia poi nel coro da stadio di II. Anonymous, un brano misterioso (spirituale? Cuomo pratica la meditazione...) dedicato ad un nemico senza nome che, una volta affrontato a viso aperto, acquisisce un'identità e si trasforma addirittura in amico da ringraziare. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi finale strabordante in stile Queen con III. Return to Ithaca, altro brano strumentale col quale si conclude in maniera totalmente inattesa un disco che alla fine lascia quel mezzo sorriso sul volto, come dopo il gran finale dei fuochi d'artificio. E' un album di revival? Sì, ma non puzza di vecchio. Per un attimo si torna davvero ai tempi delle superiori ma senza provare nostalgia. E' un album costruito? Sì, perché i Weezer fanno ancora molta fatica a tornare per davvero ai livelli dei primi due album. Hanno bisogno di ben sette co-autori. E' un album valido? Sì, è il loro disco più bello dopo i primi due. Ma attenzione: la pomposità, l'atmosfera allegrotta, gli assoli curati, servono a coprire il fatto che fondamentalmente, a parte alcune eccezioni, c'è ancora il fantasma di non riuscire a scrivere una canzone che sia valida per più di un minuto e mezzo. I ritornelli son meravigliosi come agli esordi, le melodie restano in testa, i pezzi sono belli a tratti. Ma ai tempi di Hurley ci eravamo augurati che i Weezer facessero proprio un disco come questo, e la band ci ha accontentati, e quindi c'è ancora speranza (chi l'avrebbe mai detto?) che alla fine tutto andrà bene per davvero. Marco Maresca
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