Arrivano da Pisa, e la
provenienza toscana spiega anche la citazione nel titolo (e non solo in quello,
tutta la canzone è una sorta di omaggio) del film con Benigni e Troisi. Cosa
abbia portato però gli Etruschi from Lakota a realizzare un concept album sul
mondo agrario e sul bisogno di tornare a zappare la terra piuttosto che fare i
modaioli andando a Londra per sentirsi migliori (parole mutuate dalla seconda
canzone, Cornflakes), realizzato con eterogeneo mix di influenze
d'oltreoceano legate perlopiù al panorama country-folk...beh, questo è un
discorso che andrebbe approfondito con loro, ammesso che rispondano seriamente
viste le dosi di ironia che liberano all'interno di Non ci resta che ridere.
Country-folk si è detto, ma anche
qualcosa di italico a parte citazioni di santi qua e là: nella sua aggressività
e nel cantato piacevolmente isterico di Dario Canal la band toscana sembra
infatti convogliare in maniera più libera ed eterogenea quei germi che mi
avevano fatto apprezzare i primi due lavori degli Il pan del diavolo (l'ultimo
album non è che mi fa schifo, è che il tempo è quello che è e non sono ancora
riuscito ad ascoltarlo. E nella precedente frase ci sono un sacco di “è”).
Libertà dettata dal giocare allegramente coi sottogeneri, mischiando al blues
sofferto e arrancante di Il contadino magro le suggestioni gospel di Mezzogiorno
di grano (a cui fa da apripista il divertissement Gioioso baccano),
passando per il country scatenato di Abramo e quello più intimo e quasi
pop dell'intensa Erismo, dal testo così vibrante ed intenso da potergli
perdonare anche la ridondanza con cui utilizzano ravvicinate le parole “morto”
e “defunto”. I testi sono appunto un'altra delle frecce migliori nell'arco
degli Etruschi from Lakota, dalla critica a chi lascia la terra per il più
semplice lavoro dipendente da “schiavo del padrone” (Collo rosso)
passando per l'ironica immagine di una generazione attratta “dall'Inghiltera”
(rigorosamente con una r sola) della già citata Cornflakes, dove entra
volutamente qualche influenza indie e pure una citazione meno strana di quanto
può sembrare di Who said dei Planet funk...il tutto per arrivare alla resa dei
conti in San Pietro, col contadino bestemmiatore che rifiuta il paradiso
di fronte alle offerte troppo angeliche di un riposo a cui lui non vuol
sottostare.
Un album studiato egregiamente
questo secondo degli Etruschi from Lakota, che unisce idealmente l'amore per la
terra degli indiani (non per niente nella traccia d'apertura si rimarca come,
fermando Colombo come volevano fare Troisi e Benigni, riavremmo “Toro Seduto in
cambio dei texani”) a quello degli agricoltori delle nostre terre, legando il
tutto saldamente con le suggestioni musicali degli Stati Uniti ed
un'irriverenza tipicamente toscana. Fra banjo, armonica, violini e quant'altro
è decisamente un piacere perdersi nella storia dell'agricoltore Abramo, una
storia che val la pena di ascoltare. Stefano Ficagna
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