Il 9 maggio i Bad Love Experience sono stati ospiti di un nostro secret show in uno spazio molto speciale a Vigevano Abbiamo approfittato della serata per un'intervista alla band di Livorno.
Partiamo dal nuovo album, e in particolare dal corto che
ne fa un po' la summa: come vi è venuta questa idea?
L'idea era quella di mettere la musica in immagine, cercare
di raccontare le canzoni attraverso qualcosa di visivo che simbolizzasse quelli
che sono i contenuti del disco. La sfida era questa, e pensiamo di essere
riusciti a realizzare quello che volevamo.
La traccia d'apertura, Inner animal, con la sua
atmosfera anni 70 funziona ottimamente come introduzione. Ci sono state
influenze cinematografiche dietro alle vostre scelte nella realizzazione?
No le immagini sono nate in base a quello che ci
trasmettevano le canzoni, non abbiamo seguito un qualche modello. Tutto è nato
da un soggetto che io (Valerio ndr.) avevo scritto, legato a quello che raccontano
i testi, e poi da lì ci siamo trovati continuativamente per delle sessioni di
brainstorming per buttare giù idee e vedere come poter rappresentare
efficacemente ogni brano, cercando di rendergli giustizia e non fare una cosa
campata per aria.
Soprattutto nell'ultimo brano, Believe nothing, si
sente una maggiore incisività della componente elettronica. E' una cosa che
avevate pianificato o è stata una naturale conseguenza della vostra
esplorazione sonora, magari figlia anche dell'ingresso nella formazione di Ivan
Rossi?
L'influenza elettronica era forse una delle poche cose che
avevamo pianificato per questo nuovo album. Ci siamo contaminati con questo
tipo di musica a livello di ascolti negli ultimi anni, e lavorando a livello
digitale già avevamo un po' sperimentato in passato fra plug-in e batterie
elettroniche, per cui diciamo che è stato un po' un connubio fra una
pianificazione e la spontaneità del fare musica che viene per forza di cose
influenzata da quello che ti piace. L'inserimento di Ivan Rossi ha sicuramente
aiutato da questo punto di vista, è una cosa che è andata di pari passo col suo
ingresso, lui è un ingegnere del suono che ha lavorato molto sulla sintesi
analogica e grazie alla sua abilità coi sintetizzatori siamo riusciti a fare un'elettronica
“suonata”, non con suoni basati su campionamenti ma bensì ricreati da lui. E'
stata una bela esperienza.
Anche il vostro precedente album Pacifico aveva
molte influenze, soprattutto a livello geografico visto che fra le fisarmoniche
di Dream eater e Cotton candy che creano un'atmosfera a metà fra
le vie di Parigi ed i Balcani e le suggestioni sudamericane di Samba to hell
sembra quasi che vi siate imbarcati in un ideale giro del mondo in musica. Era
questa l'idea di partenza, visto anche il titolo che omaggia l'oceano?
Pacifico era per noi proprio un oceano musicale, ben
rappresentato dall'immagine che abbiamo scelto come copertina. L'album era un
po' come una città in cui ci è piaciuto perderci, non è stata minimamente
pianificata l'idea di mettere brani così ad ampio raggio: in quel periodo
facevamo molte jam session in sala prove e le idee venivano fuori in maniera
veloce e molto variegata, inoltre avevamo cominciato a provare strumenti nuovi
come l'ukulele che aveva comprato il nostro bassista Emanuele ed avevamo la
smania di inserirli tutti. La sfida era quella di creare qualcosa di
riconoscibile come nostro pur inserendo tutte queste sonorità nuove, ci siamo
fatti anche aiutare da tanti altri musicisti per la sua realizzazione. Il tema
del viaggio è stato comunque un motore molto importante.
Andando ancora più a ritroso vi volevo chiedere come è
nata l'opportunità di inserire tre vostri brani dall'album Rainy days
nella colonna sonora de La prima cosa bella di Paolo Virzì.
L'avevamo conosciuto l'estate prima della realizzazione del
film, mentre stava realizzando un documentario su un cantautore della nostra
città che si chiama Bobo Rondelli, visto che ci aveva intervistato assieme ad
altre band della scena livornese per avere qualche opinione da parte dei
musicisti della città. Ne è nata una conoscenza che ci ha portato ad apparire
nel film nei panni di una band anni 70, visto che il nostro stile musicale era
affine a quel periodo, e durante le riprese gli lasciammo il disco sul set.
Finite le riprese ed il montaggio ci chiamarono per dirci che avevano ascoltato
il disco e volevano inserire alcuni brani nella colonna sonora, ed è stata una
bella soddisfazione quando abbiamo saputo anche della nomination per i David di
Donatello.
Il brano scelto per la candidatura è stato 21st
century boy: era anche per voi il migliore dei tre che avete messo a
disposizione per il film?
Penso di sì. Era stato comunque il singolo di lancio del
nostro disco, e inoltre è stato inserito da Virzì in uno dei momenti più forti
e rilevanti del film. Non me l'hanno mai fatta questa domanda, ma pensandoci un
attimo direi che è stata la scelta giusta! (Ridono) Vedendo il film da
“esterno” penso che anche noi saremmo stati colpiti principalmente da quella.
In tutti i vostri dischi avete collaborato con un
produttore di Milwaukee, Justin Perkins. Come siete arrivati a decidere di
trovare un produttore oltreoceano? E' una questione di sensibilità sonora?
Come produttore ha fatto con noi Rainy days e Pacifico,
quest'ultimo anche assieme ad Ivan. L'abbiamo conosciuto in maniera casuale:
mentre eravamo in casa di un amico che aveva prodotto il nostro primo disco
omonimo gli abbiamo parlato della nostra ricerca di un produttore per il nuovo
album, e lui ci ha passato il vinile di una band che si chiama Yesterday
kids di Milwaukee. Rimanemmo impressionati dal fatto che era stato
registrato completamente dal bassista, che si era occupato anche degli
arrangiamenti, e lì ci venne l'idea di contattare un americano per farci
registrare e produrre il disco. Lo contattammo via mail e lui ci rispose
gentilmente di fargli sentire qualcosa, e che se fosse stato possibile avrebbe
collaborato volentieri...e s'è fatto! L'approccio da rock americano nella
produzione di Rainy days si sente molto ed è quello che ci ha
caratterizzato in quel periodo, è stato un incontro fra il nostro farlo da
italiani ed il suo modo di sentirlo da americano. Ci è servito molto anche su
cose come la pronuncia, sul modo di lavorare ostinato e produttivo. Gli Stati Uniti
hanno un tale background di musicisti che sicuramente può avere una sensibilità
maggiore verso un certo tipo di musica, è sempre un po' casuale trovare la
persona giusta per lavora sul tuo disco: Justin è sicuramente riuscito a tirar
fuori il meglio nei due dischi in cui ci ha accompagnato come produttore.
Ho visto che avete partecipato al progetto Song Reader
di Beck con una vostra versione di Eyes that says I love you. Com'è
stata l'esperienza, e cosa pensate della versione che ne ha fatto successivamente
Jarvis Cocker?
Sinceramente non l'abbiamo sentita, peccato non sia stata
scelta la nostra però! (Ridono) E' stata una bella esperienza, abbiamo
collaborato con un sacco di musicisti per realizzarla ed aveva un arrangiamento
notevole, siamo contenti di quella canzone ma spiace che alla fine non abbia
avuto modo di avere grande risalto. E' stato il frutto di un qualcosa che era
sì Bad love experience ma allo stesso tempo era anche un lavoro
collettivo fra una ventina di persone. L'idea di base è partita da Ivan, che ha
prodotto anche i nostri ultimi due album, e che aveva seguito tutto il progetto
di Beck comprando il libro con gli spartiti: abbiamo scelto Eyes that says I
love you assieme a Beppe Scardino, un bravissimo sassofonista che fa
parte della scena jazz italiana che ha lavorato con noi, e pian piano che
andavamo avanti nell'elaborazione si sono aggiunti sempre più amici, tutti lì a
prestare la loro energia per un qualcosa che era già scritto ma che lasciava
molto spazio all'improvvisazione, visto che alla fine le uniche regole
“imposte” da Beck erano la linea vocale, una linea di piano ed il tempo. La
soddisfazione per la realizzazione rimane al di là del poco riscontro ricevuto,
anche se so che la canzone è finita su un blog americano dove è stata segnalata
come una delle versioni migliori del brano...qualche soddisfazione ce la siamo
tolta insomma, anche se da italiani è sempre difficile proporsi oltreoceano.
Rimanendo sul tema estero sono curioso di sapere le
vostre impressioni su come ci si sente a suonare al di fuori del nostro paese,
e che tipo di accoglienza si trova.
Abbiamo girato un po' in Europa, da Francia ed Inghilterra a
paesi dell'est come Russia, Lituania, Estonia e Lettonia, ed è un'esperienza
formativa ed anche coesiva per il gruppo. Abbiamo notato che il pubblico
straniero ti ascolta ed interagisce di più, e capiscono anche di più quello che
canti. E' una questione di connessione direi, è gente cresciuta con l'idea che
sia importante promuovere la cultura e non soltanto uscire a sballarsi per cui,
quando gli suoni di fronte, pensano che se sei lì è perché qualcosa da dire ce
l'hai e se ne può anche imparare. Qui non c'è più un bacino di utenza con tutta
questa voglia di ascoltare, ben vengano allora realtà piccole ma con una dose
di attenzione concentrata sulla musica come possono essere appunto gli house
concert. Ovvio che a livello di business il discorso è diverso, ma sono strade
che realtà come le nostre devono percorrere se non vogliono scomparire perché
se non fai parte di quelle dieci-quindici band che riempiono i locali fai
veramente fatica...non esiste più una fascia media, o meglio non ci sono più
locali che possono permettersi di campare proponendo concerti di band come noi
o tantissime altre realtà. Bisogna ripartire dal basso insomma, è molto
stimolante...ed è anche bello suonare ad orari umani, visto che nei locali i
concerti iniziano a notte fonda mentre in Inghilterra si suona alle otto di
sera! (Ridono)
Pacifico era uscito per Black Candy, ora invece
avete deciso di autoprodurvi per questo Believe nothing. A cosa è dovuta
questa scelta?
E' collegato a quanto detto prima...il supporto
dell'etichetta è valido fino a quando ci sono sintonia di intenti e
disponibilità per fare quello che si vuol fare, noi siamo una band piuttosto
estrosa ed a cui piace sperimentare e Black Candy è invece una realtà che non
poteva metterci a disposizione più di quanto già avevamo ottenuto. Abbiamo
deciso così di lanciare la nostra etichetta (Inner Animal ndr.), e in
collaborazione con Ivan e la sua etichetta (Retroazione Compagnie Fonografiche
ndr.) abbiamo deciso di ripartire dal basso, proponendo la nostra idea di fare
musica. E' una scelta di amor proprio, il voler portare avanti il proprio modo
di fare le cose collaborando ed aiutandoci anche con le altre band che fanno
parte della scena musicale della zona. L'entità dell'etichetta ora non ha più
molto senso, a meno che tu non ne trovi una che abbia la voglia e le
possibilità di investire su di te perché altrimenti ti ritrovi a pagare lo
studio, pagare a metà la realizzazione dei video...Black Candy ci dava il suo
sostegno, ma questo significava anche rapportarsi al discorso guadagni-vendite
in una maniera non paritaria. C'erano più limitazioni che opportunità quindi
meglio fare le cose da soli, è dura ma così si fa quel che si può fare senza
andare oltre...ed è anche più semplice fare i conti alla fine!
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