Al primo maggio sono andato in
quel della benemerita Cooperativa Portalupi di Vigevano a vedere il classico
concerto che anche Roma gli ha copiato… forse è il contrario, fa niente. Prima
che tutti ve ne usciate dicendo “e sticazzi!” arrivo al dunque: fra i gruppi
presenti ce n’era uno che avevo già sentito nominare ma non avevo mai
ascoltato, che da quando non posso più usare gli auricolari a lavoro mi tocca
essere selettivo con la musica e mi perdo un sacco di roba, e – rullo di
tamburi e sorpresa finta – erano i qui presenti Les fleurs des maladives. Non
ve lo aspettavate eh? Sì? Comunque la suddetta band ha fatto un gran cazzo di
casino, mi son piaciuti talmente tanto che gli ho comprato entrambi i dischi e sono
rimasto d’accordo col bassista che gli avrei fatto sapere le mie impressioni
sull’ultimo, ovvero il qui presente Il rock è morto. Siccome ogni promessa è
debito ho deciso che glielo avrei fatto sapere scrivendolo qua, perché se un
disco è una figata è bello farlo sapere anche ad altri.
Non mi fossi innamorato della
loro energia dal vivo probabilmente avrei odiato a morte una cosa che di solito
non mi va giù per niente: la mitizzazione del rock. Come diceva qualcuno anni
fa (di sicuro i Verbena, ma potrebbero averla copiata da altri la frase) non
essendo una forma di vita basata sul carbonio il rock non può essere vivo né,
quindi, morire, eppure già dal titolo Davide Noseda e compagni ci tengono a
seppellirlo, ad esaltarlo nella traccia d’apertura e, già che ci siamo,
scagliarsi verso una delle sue forme più attuali ne La grande truffa dell’indie rock. Quel che li salva, a parte la
succitata performance live, è il fatto che a) tutto ciò viene affrontato con un
sacco d’ironia e b) i testi sono davvero ben scritti. Escludendo dal computo Rock’n’roll, che non vuole essere niente
più di quella mitizzazione a cui accennavo prima, già la seguente Homo sapiens ha il pregio di essere
tagliente ed abrasiva nelle parole quanto trascinante musicalmente, col basso
distorto di Ugo Canitano a delineare atmosfere proto-stoner che esplodono
quando Davide attacca a cantare a ripetizione “la distruzione la distruzione”.
Ovviamente non è l’unico esempio, e che si tratti di immaginare una più
romantica e malinconica storia per Chernobyl,
uno dei pochi lenti del lotto, o di spiegare che il rock muore perché “ciò che
è bello non è buono, ciò che è buono non è figo, ciò che è figo non è vero e
ciò che è vero ci ha rotto il cazzo” (Il
rock è morto) Les fleurs des maladives lo fanno bene, con una voce che
convince come carisma e come metrica e, dulcis in fundo, ci mettono anche un
sacco di potenza.
Se un appunto si vuol fare alla
confezione sonora del disco è che la voce, per quanto piacevole, esce troppo
rispetto agli strumenti, un’annotazione che mi sento di fare soprattutto in
virtù di una resa sul palco ottima grazie anche ad un più azzeccato mix fra
tutti gli elementi. Il peccato è veniale, sia chiaro, perché le distorsioni
grezze che infestano l’album in ogni dove fanno in modo di donare una carica
continua e coinvolgente: le già citate Homo
sapiens e Il rock è morto sono
probabilmente gli esempi migliori, ma pestano sull’acceleratore anche Attacchi di panico, La grande truffa dell’indie rock, ottima nel rendere corpose
ritmicamente strofe che sarebbero sembrate paradossalmente troppo indie, e Naba design blues, che invece del
rischio di sembrare indie se ne fotte e riesce comunque ad essere efficace. La
corsa forsennata a cui costringono l’ascoltatore ha uno stop solo con la già
citata Chernobyl e con gli ultimi due
brani: Le tre verità (cover di
Battisti con l’ospitata di Alteria alla voce) e la conclusiva La fine dello spettacolo (ispirata dalla
tragedia del Bataclan e dedicata alle vittime) si prendono infatti più tempo,
dilatano l’atmosfera nel primo caso e la rendono più varia e mutevole nel
secondo, ma pur non perdendo d’energia sembrano meno coese ed efficaci dei
pezzi in cui riescono ad essere diretti, senza fronzoli e, nonostante questo o
forse grazie a questo, efficaci come pochi. Gemelli diversi dei lecchesi
Vintage Violence, per chi li conosce ed apprezza.
Non mi rimane granché da dire se
non ascoltate, ascoltate attentamente e, se potete, godeteveli dal vivo. Dal
qui presente operaio della critica discografica (che, diversamente dai “giornalisti
con i dischi in tasca” citati ne Il rock
è morto, nella causa persa della musica sta fra gli sconfitti) è tutto. Stefano Ficagna
Tracklist:
1. Rock'n'roll
2. Homo spaiens
3. La grande truffa dell'indie-rock
4. Attacchi di panico
5. Chernobyl
6. Naba design blues
7. La canzone del condannato
8. Il rock è morto
9. Le tre verità
10. La fine dello spettacolo
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