Il vostro nuovo EP è cantato in inglese, con l'eccezione di Non mi volto mai, cantata in italiano. Come mai questa scelta? E' casuale o c'è un progetto preciso?
La scelta di realizzare un brano in italiano è stata una sorta di necessità: dopo anni passati a fare concerti in tutt'Italia, ci si rende conto che le tematiche portate nei brani in inglese sono difficilmente assimilabili. Pochi di noi credo abbiano la possibilità di capire e cogliere un pezzo in un'altra lingua durante un concerto. L'italiano è quindi una nuova sfida, per noi e per il nostro pubblico.
Qual è la last chance che cantate nell'EP?
La “last chance” è riferita semplicemente ad un brano, Ring my alarm, ma in realtà è un'esortazione: quando le cose non vanno, ogni tanto bisogna darsi una scossa, un ultimatum. Viviamo in tempi parecchio statici, dove rimanere fermi ed attendere sembra spesso l'unica possibilità. Noi crediamo nel movimento e nel cambiamento personale, anche a costo di metterci alle strette per riuscirci.
Personalmente, nel titolo del brano Non mi volto mai leggo un invito a guardare sempre avanti. Cosa intendevate trasmettere?
In effetti hai colto l'idea del brano. Esteriormente può sembrare un classico pezzo di denuncia: passano infatti in rassegna tutta una serie di atteggiamenti e situazioni che spesso ci troviamo a vivere o peggio ancora ad incarnare. Tutto ciò viene però messo in chiave propositiva, solo ammettendo i propri errori e le proprie bassezze morali ci si può liberare del peggio che alberga in noi.
Now think about it, col suo videoclip è stato scelto per la rotazione su MTV (nella piattaforma New generation) tra gennaio e febbraio scorsi. Ci sono molti artisti che pensano che la musica debba utilizzare altri “mezzi” per arrivare al pubblico. Voi cosa ne pensate?
La musica al giorno d'oggi credo debba usare ogni mezzo possibile per poter arrivare al pubblico. Viviamo in un mondo in cui i nuovi media hanno da un lato aperto molte possibilità e dall'altro abituato le persone a consumare voracemente e spesso superficialmente la musica. La vera sfida e quella di poter arrivare a un pubblico senza perdersi nella sconfinata ed indifferenziata offerta musicale presente in ogni media.
Siete sulla scena dal 2005. Cosa vi ha dato soddisfazione finora, professionalmente parlando, e in cosa vi sentite cambiati (se c'è un cambiamento) dagli inizi?
La soddisfazione principale e quella di aver avuto la possibilità di fare questo mestiere fino ad oggi. Ogni concerto, ogni sorriso, ogni messaggio e segno di stima vanno a costituire la linfa vitale per una band. Il grande potere della musica è quello di poter regalare attimi di evasione dalle pressioni e dagli stress quotidiani. Noi, in questo mondo, siamo sicuramente cambiati molto, al contrario di quanto si possa pensare, per noi il vero cambiamento è stato la consapevolezza. La consapevolezza di noi stessi e delle nostre possibilità.
In Italia il reggae viene ancora poco considerato. Invece grandi e vetusti artisti internazionali hanno da sempre apprezzato e fatto proprio il ritmo reggae: penso ad esempio a Mick Jagger che già in tempi non sospetti duettava con un giovane Peter Tosh. Siete mai stati tentati dal cambiare genere, lasciandovi magari tentare dalle mode del momento?
La straordinaria forza del reggae, che a nostro avviso lo distingue da molti altri generi, è quella di essere prima di tutto un modo di prendere e viversi le cose. Pensare di abbandonare il reggae vorrebbe dire abbandonare il nostro modo di essere e di vedere il mondo che ci circonda. Detto questo noi siamo degli appassionati di black music a 360°, quindi risulta spontaneo per noi comunicare e mescolare i vari generi che all'interno di questo grande mondo esistono e coesistono, senza farci mai grandi calcoli utilitaristici.
Spesso la gente pensa al reggae in base a certi stereotipi/pregiudizi passati attraverso gli anni: dreadlocks, joint, ecc... Ma in realtà molti ascoltano la musica e basta, senza dover necessariamente diventare adepti della cultura rasta. Cosa pensate di questo?
Noi apparteniamo sicuramente a quella parte di mondo del reggae che ne riconosce le radici sia musicali sia culturali, senza però esserne schiavi. Oggettivamente la Jamaica si trova dall'altra parte del mondo, la loro società, il loro modo di essere ed agire hanno spesso pochi punti di contatto con noi. Risulta quindi normale e spontaneo dare una lettura personale di questo genere sia dal punto di vista musicale sia comunicativo.
Dai musicisti jamaicani (ma non solo) arrivano spesso brani d'amore e non solo di protesta o di accusa. L'ulteriore dimostrazione che il reggae è una musica per tutti che può portare anche il sole dopo la tempesta. Non solo protesta, machismo o proclami omofobici (per i quali alcuni musicisti dell'isola sono particolarmente famosi), ma anche e soprattutto pace e amore per tutto il mondo su riddim ben elaborati. I Dotvibes da che parte si mettono in tutto ciò?
Noi siamo sempre stati molto attenti alle tematiche che arrivavano dagli artisti giamaicani. La loro cultura va presa e considerata a 360 °. E' ovvio che siamo assolutamente schierati dal lato "buono", dal lato più consapevole e positivo di questo movimento. Bisogna però rendersi conto che in questo mondo coesistono anime diverse, con i loro pregi e i loro difetti.
Il reggae può essere anche mezzo per comunicare ai “leader” della Terra dello stato in cui versa il pianeta (Luciano). Siete d'accordo? Cosa vorreste comunicare voi?
È sicuramente vero che il reggae ha un grande potere comunicativo: lo ha sempre avuto e credo che continuerà ad averlo, a patto che gli artisti d'oggi e di domani sentano ancora come prioritarie queste tematiche. Noi personalmente crediamo nei piccoli cambiamenti, quindi per noi è spontaneo rivolgerci a gente come noi, comuni cittadini piuttosto che grandi leader. I cambiamenti sono sempre partiti e sempre partiranno dal basso.
In Italia, a parte Rototom e qualche altra manifestazione di nicchia, non mi pare ci sia molto altro. Cosa pensate di questi limiti sul territorio nazionale? Ci sono dei cambiamenti all'orizzonte o è sempre tutto lasciato all'iniziativa di pochi?
In Italia siamo purtroppo in una situazione parecchio delicata in questi anni. Il problema non riguarda semplicemente il mondo del reggae. Vi è un impoverimento degli interessi artistici e culturali, di cui chiaramente risente anche il mondo della musica. In questo Paese vi sono enormi difficoltà organizzative che rendono molto ardua l'attività dei festival. Allo stesso tempo ci si rende conto che il problema principale siamo noi, come popolo. Molti giovani hanno perso l'interesse nei confronti della musica così come la conoscevamo fino a qualche anno fa. Forse tutto sta cambiando e siamo noi un po' troppo ottusi per vederlo... Vedremo nei prossimi anni se questo cambiamento sarà in meglio o in peggio.
Che progetti ci sono per il prossimo futuro in casa Dotvibes?
I Dotvibes porteranno a conclusione il tour estivo a settembre per poi dedicarsi alla lavorazione del nuovo videoclip che uscirà a ottobre. Dopo si ripartirà a fare date nei club invernali per poi lavorare ai nuovi pezzi per il 2014.
Alessandra Terrone
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