23 maggio 2017

Terra, Le Luci della centrale elettrica in questi anni dieci

Vidi suonare Le Luci della centrale elettrica nell'estate del 2008, in un paesino umbro vicino al confine con la Toscana. Mi ricordo che c'erano le Olimpiadi di Pechino e che fosse il 22 agosto, me lo ricordo benissimo perchè il giorno dopo, assieme ad amici che mi stavano ospitando ad Arezzo, andammo tutti insieme a vedere i Neurosis a Senigallia. Non c'era molta gente, forse perchè era appena finito un temporalaccio, e l'atmosfera era quella di un concertino tra i boschi, pochi astanti e qualche teglia di patatine fritte. Io non avevo ancora ascoltato molto di Brondi, solo qualche canzone qua e là dal suo Canzoni da spiaggia deturpata, uscito pochi mesi prima. Rimasi colpito da quei pochi istanti di concerto, da solo su quel palchetto rustico e gli ontani sullo sfondo: comprai disco e poster e scambiai anche qualche parola con lui, dopo. Mi chiese da dove arrivassi e cosa facessi durante quella vacanza e io gli risposi che il giorno dopo saremmo andati a vedere i Neurosis nelle Marche e mi disse che non li conosceva.
Sono passati quasi dieci anni anni da quel concerto e sono trascorsi dieci anni tondi dal suo debutto discografico, e marcare questo lasso temporale con un album come Terra, uscito due mesi fa sempre La Tempesta dischi, la trovo una cosa stupefacente. In senso ovviamente negativo. Gli artisti cambiano, il pubblico e le sue voglie anche, ma mi sembra che Vasco Brondi abbia alquanto esagerato, stavolta. Si avvale di collaborazioni artisticamente e sulla carta eccellenti, come Dragogna dei Ministri alla chitarra e D'Erasmo (già con PFM, Dente, Silvestri e Cristicchi) al violino, sceglie di parlare alla aggiornatissima pancia della sua rocciosa utenza, ma dimostra di aver perso del tutto la vena scapigliata, malinconica e disperatamente autoreferenziale nella sua intelligenza dei primi lavori, che lo avevano reso unico nelle sue produzioni, almeno sino a Cara catastrofe. Terra non cattura l'attenzione, e ti invoglia ad ascoltare altro (anche suo, soprattutto suo), non emoziona, è un disco insipido persino a livello musicale, se si prendono come esempio canzoni che sfiorano il folk e strizzano l'occhio alle richieste del momento come Mannarino, l'ignoranza dei backstage e i piedi nudi al Mi Ami. Stelle marine su tutte, ma anche Nel profondo Veneto, troppo densa di cori e vaneggiamenti nonostante una buona idea iniziale. Eppure, l'incipit del disco non appare così snervante: A forma di fulmine ricalca in modo esaustivo il canovaccio brondiano di sempre, ma se prima avevamo la chitarra ora ci troviamo di fronte a una struttura incentrata su un elementare pianoforte e su pause troppo lunghe. Qui rompe l'incantesimo e si rivela troppo festaiola e forzatamente accattivante, mentre Coprifuoco è dispersiva e musicalmente antitetica, con un inizio marcatamente tribale e un argomento spigoloso trattato in maniera troppo leggera. Già, gli argomenti trattati. Tornando alla disamina sul tempo che passa, forse sono io che non mi sono adeguato alle voglie e ai trends dell'epoca e forse sono sempre io a non essere stato al passo con le sue canzoni, ma scrivere un intero brano sulle attività social di internet dallo stesso Vasco Brondi che un tempo prafrasava con nonchalance Gaetano, non me lo sarei mai aspettato. "Cantami o diva l'ira della rete", recita Iperconnessi, proseguendo in una check-list di tutto ciò che di hater e mainstream esista nel mondo virtuale. E con ciò mi fermo, ribadendo il concetto dell'inutilità di un disco come questo e rimanendone anche molto amareggiato. I colori non sono più il giallo ocra e il grigio, sinestetici e rivelatori; la sua musica, ormai, non è più un'accorata esaltazione, un endemico coro generazionale, fatevene una ragione. Per quanto mi riguarda, speravo francamente di trovare altro, in un disco di Brondi, seppur pubblicato in questi anni dieci. Andrea Vecchio

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