11 maggio 2017

Namvuc, mitteleuropeismo ai piedi del Tarvisio

Si arriva ad un'età in cui, finalmente, ognuno di noi può ammettere di aver scritto e ascoltato tanto. In cui ciascuno di noi capisce che la curiosità non sia una capacità innata, bensì una possibilità che dobbiamo sviluppare ed allenare passo dopo passo, disco dopo disco, concerto dopo concerto. Però non tutti ( io no di certo sia ben chiaro) suonano negli Zeman e hanno idee come quelle che hanno dato vita al loro ultimo disco, uscito tre settimane fa per To Lose La Track.

Parlare di sconfitte e di mancate vittorie non è facile, anzi. Bisogna farlo senza falsamente piangersi addosso, senza risultare scontati e soprattutto conoscendosi bene, sfruttando autoironia e criterio. Gli Zeman hanno quindi scritto un disco completo nella sua intelligente arrendevolezza. "Non abbiamo mai vinto un cazzo" affronta le mattine in cui ti accorgi, al semaforo prima di arrivare al lavoro, di aver dimenticato a casa il pranzo e di non aver dietro soldi a sufficienza nemmeno per i tarallini al distributore dell'area break. Suona come un disco ricco e affettuoso, che non si inserisce assolutamente tra le fila delle tematiche generazional-brufolose riguardanti autocommiserazione e lotta quotidiana che tanto tirano al giorno d'oggi, soprattutto nel panorama indie italiano. Perché gli Zeman sanno fare le cose, tutto qui. "Namvuc" contiene, per esempio, Breve storia di un concerto di merda, che nient'altro è che la canzone che tutti gli over 35 che ascoltano certa musica avrebbero voluto scrivere su ciò che hanno vissuto da sempre. Ci siamo capiti, no?Non ci troveranno mi ricorda gli Happy Mondays, per come sia strutturata. Tastiere nelle ultime parti dei ritornelli (insistenti come non mai) e stacco che finisce col basso prima della ripresa della strofa. Come per Manchester, che andava fiera delle distanza da Londra, si sente che sia una canzone "diversa", sofferente e legata alla loro città, Udine. "Non mi troveranno nel riflesso dei tuoi occhi", perché lassù c'è gente come gli Zeman che si fa da secoli chilometri per andare a vedere i concerti a Milano, nelle location, nelle situazioni, nei pasti frugali, nelle scene. Mitteleuropeismo montano, ai piedi del Tarvisio, ad oltranza. E penso che il gruppo lo metta in chiaro da subito, questo sentimento di appartenenza. Ma questa è una particolarità che viene discussa molto più apertamente in Le cose più strane: produci, consuma, crepa. Smettila di smettere è forse la meno cantabile dell'album, e suona un po' forzata. Devi solo farmi male invece è ricca di metafore ed è un brano ondeggiante tra post punk e pop, mentre La rivoluzione è un misto tra insoddisfazione cosmogonica e Interpol al Letterman Show: il testo è stato scritto da un poeta udinese e parla di quando non riesci a fare le cose con serenità, nemmeno uscire di casa. E quando mai?
Gli Zeman, con questo loro secondo full-length, diventano prepotentemente l'eponimo italiano di un modo di far musica intelligente e distaccato, che utilizza greve ironia e indubbia classe per parlare alle ossa, più che al cuore. Andrea Vecchio

Nessun commento:

Posta un commento