Doveva intitolarsi Cephalophore il nuovo album dei Pixies. Il titolo è poi cambiato in fase finale ed ora il disco, uscito per Pixiesmusic / PIAS, si intitola Head carrier ma il concetto è lo stesso. I cefalofori, nella tradizione cristiana, sono quei santi che dopo il martirio per decapitazione hanno miracolosamente preso tra le mani la propria testa. Giusta metafora per una band che tra gli anni '80 e '90 è stata fondamentale, poi è morta per qualche tempo ed è tornata in vita recentemente ma con una forma necessariamente diversa.
Che i martiri siano gli stessi Pixies oppure il loro pubblico oppure tutti quelli che hanno contribuito ad una certa scena musicale e culturale, poco importa, perché l'album racchiude tutti questi santi decapitati, partendo da chi porta in mano la propria testa nell'iniziale Head carrier, e concludendo con tutta la schiera dei santi di lassù e anche di quaggiù con la finale All the saints. Il percorso verso la santità dei Pixies percorre dinamiche a volte poco note. Per esempio è cambiato il produttore, che non è più Gil Norton, che ha accompagnato la band per tanti anni, prima e dopo la morte e resurrezione, ma un altro britannico: il giovane e moderno Tom Dalgety. Il motivo del cambio? Non se n'è parlato molto. Pare sia stato motivato dalla necessità di orecchie fresche e non assuefatte, che potessero fornire nuovi spunti e nuovi approcci. C'è in effetti qualcosa di nuovo nel disco: ad esempio il divertente brano Um chagga lagga nel quale i Pixies fanno casino come fossero agli esordi di Come on pilgrim ma filtrano il tutto attraverso i gusti del rock alternativo di questi anni, dove il far casino coincide con suoni saturi e accordature basse come nello stoner rock. Altra questione avvolta nel mistero è l'enigmatica figura della bassista: come mai Paz Lenchantin sia riuscita a fregiarsi del titolo di componente ufficiale della band mentre Kim Shattuck no, ma ancora prima ci sarebbe da interrogarsi sulle motivazioni ufficiali, mai troppo chiarite, che hanno portato Kim Deal ad andarsene di nuovo nel 2013 proprio quando i Pixies già stavano preparando il proprio ritorno discografico. Dinamiche interne alla band avvolte nel mistero proprio come le vite dei santi. Indie Cindy soffriva tantissimo la mancanza di una voce femminile, mentre il nuovo album vede addirittura la presenza di un brano, All I think about now, interamente cantato (e parzialmente scritto) dalla nuova bassista. C'è da dire che la vita a volte è strana: il brano cantato da Paz Lenchantin pare essere dedicato proprio a Kim Deal. Terzo ed ultimo mistero da affrontare: il chitarrista Joey Santiago, che negli ultimi concerti sembrava il più sano e divertente dei quattro, si trova ora in una clinica di riabilitazione in preparazione del nuovo tour. La band sembra trattare questa notizia come positiva: forse il chitarrista ha necessità di togliersi gli ultimi fantasmi dalla testa, ora che la band sta tornando ad essere qualcosa di serio e duraturo. Eppure, anche nel nuovo disco, Santiago si sfoga rumorosamente e fa divertire, ad esempio in Talent oppure in Oona, brano che non sfigura con il repertorio dei bei tempi. A proposito dei vecchi tempi: il finale dell'album fa una bella figura, con Plaster of Paris che ricorda un po' gli anni '80 e tutta una serie di band alternative come The Replacements o Camper Van Beethoven, e soprattutto la finale All the saints, che conclude il disco in maniera sognante come Havalina ai tempi di Bossanova. Chitarra meravigliosa. Ci sono invece punti da chiarire: l'iniziale Head carrier, potenzialmente ottima traccia, che vorrebbe esplodere però non può farlo perché soffre di tempi rallentati e di aggressività tenuta a bada. Altro problema: i brani in cui la band sembra non credere abbastanza, come Classic masher troppo allegrotta o Baal's back troppo urlata (urlare a cinquant'anni richiede una convinzione ed una motivazione oltremodo superiori a quelle richieste a vent'anni). Tenement song è un po' come il brano Indie Cindy nel disco precedente: troppo elaborato, troppo "solista", troppo diverso dal resto del repertorio. Il duetto tra Black Francis e Paz Lenchantin in Bel esprit è un po' sprecato: funzionerebbe meglio se ci fosse Kim Deal (ma la storia non si fa con i se). Non male, invece, Might as well be gone: inizialmente sembrerebbe riproporre le strutture di Velouria, invece sfocia poi in qualcos'altro, che musicalmente rappresenta i nuovi Pixies, i quali presumibilmente continueranno su questa strada perché sembrano essersi ormai stabilizzati, pronti a consegnarci in dono le proprie teste sui palchi dei principali festival internazionali ancora per tanti anni. Marco Maresca
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