14 novembre 2011

I Wilco si mettono in proprio e continuano l'evoluzione musicale con The Whole Love

Ottavo album per i Wilco, band di Chicago con ormai quasi vent’anni di attitvità alle spalle. “The Whole Love”, che succede a due anni di distanza a “Wilco (The Album)” rappresenta un altro passo nell’evoluzione artistica nella carriera di Jeff Tweedy e soci, nonché il primo prodotto dalla propria etichetta, la dBpm.
Art of Almost è l’ipnotico pezzo che introduce il disco: un synth in loop precede l’alienata voce di Tweedy: il tutto prima che la mini-suite si chiuda in un rumorismi di chitarra e tastiere degne dei King Crimson più sperimentali. Una scelta tanto coraggiosa quanto lodevole. In I Might, Damned On Me e Standing O si sentono echi beat anni ’60 (vedi Kinks e primi Who), oltre che i Wilco vecchio stile. In Sunloathe la chitarra slide e il piano fanno da padrone in una lenta elegia. Non manca pure lo swing da club d’elite (Capitol City), oltre che gioielli acustici per fare respirare un album a 360°. Degli esempi? Black Moon, accompagnata da archi a mo’ di “White Album” dei Beatles, e la lunga e dolce One Sunday Morning, final track in cui c’è un evidente citazione nella musica e nelle liriche di “Sunday Morning” dei Velvet Underground.
Tutto questo in un lavoro molto tattico in cui il sound prima accelera, poi rallenta, come se fosse un lungo allenamento al parco in cui la band testa tutte le sue capacità. Nonostante sia sempre rimasto un gruppo di nicchia è incredibile come nei Wilco si possa intravedere un “trait d’union” tra il rock indie che fu (R.E.M.) e che è ora (gli Arcade Fire devono qualcosa anche a Tweedy e soci, basta sentire Born Alone per capire). Le diverse sfumature che si colgono nell’album sono l’ennesima conferma che i chicaghesi raramente sbagliano un colpo. Sicuramente “Yankee Hotel Foxtrot” resta una vetta irrangiungibile, ma “The Whole Love” non lascerà delusi sia i fan dei Wilco, sia nuovi ascoltatori alla ricerca di indie rock di ottima fattura.
Marco Pagliari

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