6 giugno 2011

Premio "Provincia cronica" (III edizione - sezione racconti)
Emanuela Bosisio - Io valgo


Dedicato a Papa Karol Wojtyla, nel giorno della sua beatificazione; egli un giorno disse: “Tu vali in quanto vale il tuo cuore”.
E ispirato alla vicenda di Iman Al-Obeidi, avvocato di Bengasi sequestrata e violentata da un manipolo di balordi miliziani del regime libico. Nuovamente oltraggiata e prelevata in un hotel di Tripoli, dove si era recata - ancora sotto shock - per raccontare la sua storia ai giornalisti stranieri lì riuniti per un incontro.

Adesso tutto mi sembra brutto e sporco e inutile, e della mia vita non so cosa farne né che ne sarà.
Ma spero con tutto il cuore che il mio gesto, dettato da una disperazione immane, possa rappresentare una svolta.
Un esempio su cui dovrebbero riflettere le donne che, lontane dai regimi dispotici come quello del mio paese, passano il tempo bighellonando, concentrate nella massima preoccupazione di come riempire le proprie giornate, mentre dovrebbero vergognarsi di rendere così insulsa la loro preziosa esistenza.
A me, invece, le ore le hanno riempite quelli che mi hanno presa e tenuta sotto sequestro per due giorni per poi lasciarmi andare ferita, umiliata, violata nel corpo e nell'anima.
Vigliacchi. E come tutti i vigliacchi hanno agito in gruppo; quindici predatori per una sola vittima: donna, giovane, istruita, con la sola colpa di stare dalla parte opposta della barricata.
Sono un avvocato, di storie sciagurate ne ho sentite tante e in cuor mio so che riuscirò a riprendere il controllo della mia vita. Ma intanto sono riusciti a farmi sembrare ciò che non sono: un essere debole, in grado di manifestare la mia frustrazione solo urlando, facendo scenate in pubblico. Però non avrei mai immaginato che la mia ribellione, il mio gesto clamoroso di denuncia potesse avere un epilogo tanto assurdo da mettermi in una condizione ancora peggiore di quella in cui mi ero trovata da sequestrata.
Stavo semplicemente uscendo da Bengasi per andare ad ascoltare un cliente: il mio mestiere è difendere la gente e pensavo di avere massima libertà di movimento nel mio paese. Certo so benissimo in quale periodo stiamo vivendo, in questo paese esasperato da oltre 40 anni di oppressione.
Proprio per questo, per il clima incandescente di quaggiù, noi avvocati abbiamo molto più lavoro del solito, tanto che persino una donna gode di maggior stima e viene ricercata come difensore.
Il mio cliente (a proposito: chissà se dopo quel che è successo mi vorrà ancora ingaggiare) abita fuori Bengasi, dovevo compiere un discreto viaggio per raggiungerlo, ma mi hanno fermata in periferia. Pensavo a un controllo, mi sembrava rassicurante che si vigilasse su chi entrava e usciva dalla città... ma mi sono dovuta ricredere; in realtà ho capito che non avrei passato un buon momento nell'istante esatto in cui mi sono resa conto che si trattava degli uomini del regime.
Temevo un interrogatorio, magari ore a spiegare sotto il sole chi sono e dove intendevo andare. Mentre confabulavano e si avvicinavano preparavo mentalmente il mio discorso, che sarebbe stato un semplice resoconto della verità; mi ero imposta di tenere un atteggiamento calmo e umile.
I loro sguardi facevano paura...

Non mi hanno dato il tempo di spiegare.
Mi hanno afferrata mentre ancora stavo scendendo dall'auto; mi hanno fatta salire a forza sulla loro jeep; non riuscivo nemmeno a urlare, pensavo che se l'avessi fatto avrei peggiorato la mia situazione. Mi sono ripromessa di stare brava, magari mi stavano portando davanti a un loro superiore e a lui avrei spiegato tutto. Non dovevo dimostrarmi ribelle.
Invece mi hanno portata in un edficio diroccato; ho sentito che telefonavano a qualcuno e dopo poco tempo erano di più, erano tanti, erano troppi e si sono avventati su di me vociando, ridendo come delle iene immonde; mi guardavano e pensavano a cosa farmi, a come divertirsi col mio corpo. Poi hanno agito, ognuno aveva in mente la sua idea perversa e la metteva in pratica, per il proprio piacere e il divertimento dei compagni che osservavano.
Sono passate ore ed ore; a malapena ho visto farsi notte due volte, poi tornare mattina per la terza volta. Non ho mangiato nulla, non ho bevuto nulla.
Non so bene cos'è successo: a un certo punto hanno cominciato a litigare, a spingersi, a scazzottarsi; forse volevano un altro turno su di me, forse qualcuno pretendeva di avere la precedenza, forse non si sono trovati d'accordo su chi dovesse farmi fuori... fatto sta che, ubbidendo a non so quale istinto, mi sono alzata contro la mia stessa volontà e, non vista nella penombra, sono scappata e, nello stesso momento in cui non ho più sentito le loro voci, ho cercato di attirare l'attenzione di qualcuno. Finita per finita, dovevo giocare la mia ultima carta.

Dovevo sembrare un'indemoniata; molti si sono scansati al mio passaggio, ma qualcuno ha fermato la mia folle fuga e mi ha portata in casa sua.
Inconsciamente mi rifiutavo di entrare, temevo forse di trovarmi in un'altra prigione. Invece mi hanno aiutata, rifocillata confortata; avevano un giornale sul tavolo, ho letto che a Tripoli era stata convocata dal regime una conferenza stampa con grande clamore, ed erano presenti decine e decine di giornalisti occidentali.
Ho subito capito che dovevo andare là, dritta nella tana del lupo, a tutti i costi; era la mia occasione di riscatto. Non ricordo nemmeno come ci sono arrivata: ricordo di avere ringraziato i miei soccorritori e di essere salita su un autobus scassato e quasi vuoto, guidato da un autista ciarliero che mi avrà raccontato la storia della sua vita, ma io non lo ascoltavo: avevo in mente solo la mia disavventura da far conoscere, attrice straziata resa egoista dall'angoscia.
Quando sono arrivata mi sono precipitata nell'hotel così com'ero: sporca e ancora sanguinante, scapigliata e lacerata, per denunciare ciò che mi avevano fatto quelle bestie capaci di strapparmi il cuore a morsi, di ridurre la vita umana a un fantoccio da sfregiare in tutti i modi, lasciandogli solo lacrime agli occhi e voce per gridare.
Con queste sole risorse mi sono presentata dove pensavo avrei trovato chi era in grado di ascoltare la mia sventurata esperienza e aiutarmi.
Quando sono riuscita ad attirare l'attenzione è successo un fatto increscioso: sono stata tradita dalla mia stessa stirpe.
I giornalisti occidentali erano pronti ad ascoltare il mio racconto, a farlo conoscere a tutto il mondo, non fosse altro che per fare il loro “sporco lavoro”.
Ma proprio mentre stavo riuscendo a spiegare ciò che mi era successo sono stata fermata da altri esseri ignobili, che non venivano da lontano: erano i miei stessi consanguinei, fratelli divisi da un odio atavico che l'origine comune alimenta invece di cancellarlo.
Anche lì mi hanno messa a tacere, mi hanno mostrato un coltello, hanno incappucciato il mio viso sfregiato, mi hanno presa per i polsi già segnati dai lacci con cui mi avevano tenuta segregata, per allontanarmi dalla ribalta e portarmi via.
Le cronache di regime hanno riferito che sono stata condotta in ospedale, classificandomi come “mentalmente disturbata”.
Pazza scalmanata, sovversiva prezzolata, così mi hanno chiamata i più gentili; ignobile puttana, mi hanno definita i meno raffinati. Le cronache ufficiali hanno detto che conoscevo i miei aguzzini, che mi pagavano per andare a letto con loro, che sono stata comprata per tradirli.
E, come se tutto questo non bastasse io, giovane laureata di Bengasi passata sulla strada sbagliata in un momento quanto mai inopportuno, caduta nelle mani di esseri ripugnanti, ho dovuto constatare un altro fatto sconvolgente che mi ha ferita più del dovermi assoggettare a quegli uomini, più della privazione della libertà, più del sopportare la lordura che mi hanno versato addosso, del dolore provocato dalle botte e dai graffi: il vedere che tra la folla che si è avventata contro di me, riconoscibili come due fiori scarlatti in mezzo all'immondizia, c'erano due donne; e sono state proprio loro a minacciarmi con un coltello e a incappucciarmi.
Due ragazze col velo, che facevano parte della coreografia; due giovani libiche come me che, anziché mostrare solidarietà, hanno abbracciato la causa dei miei carnefici, probabilmente terrorizzate dalla mia audacia e dalle conseguenze terribili che potevano ricadere anche su di loro, a causa di una donna che aveva osato reagire ed opporsi alla sottomissione femminile, considerata legge nella mia religione.
Ma io non mi arrenderò: io valgo e saprò farmi valere in questo mondo che sa mostrare odio verso i più deboli, inevitabilmente asservito agli arroganti.
In questo mondo così ingiusto coi giusti, da non riuscire a vedere la propria bassezza.
Dove il coraggio viene annientato anziché premiato; dove una donna che ha studiato e si è emancipata per sentirsi degna della vita ricevuta in dono da Dio viene umiliata e offesa nel profondo del cuore.
Una donna che, nonostante tutto, continuerà a lottare e a valere infinitamente più di tutti coloro che hanno causato questo smisurato orrore.

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