6 giugno 2011

Premio "Provincia cronica" (III edizione - sezione racconti)
Bianchi Sergio - La catenina d'oro teutonica


Capitolo I
Mattinata fiorentina

Firenze, 4.7.1944 ore 9,30

La sirena della contraerea aveva suonato l’allarme. Gli aerei alleati, provenienti da Pontassieve, stavano andando verso Firenze. Sestilia Cencetti si era nascosta in un rifugio situato in via Sette Santi, di fronte all’omonima chiesa.
La donna, quella mattina, si era trovata in compagnia di altre persone, che inaspettatamente avevano dovuto interrompere le loro faccende quotidiane per rifugiarsi in quel luogo angusto, dove si respirava un cattivo odore, che spesso faceva tossire. Per un certo periodo il silenzio regnò sovrano, ma improvvisamente dalla parte della stazione ferroviaria di Campo di Marte si sentirono delle forti esplosioni, una più violenta dell’altra. I rifugiati, come era prevedibile, iniziarono ad agitarsi: alcuni gridarono invettive contro gli americani, i fascisti ed i tedeschi, altri si coprirono il volto con le mani. Una bambina, in braccio alla madre, piangeva di santa ragione e le sue lacrime caddero sul pavimento sporco di quel rifugio, ricordando un po’ la pioggerella primaverile , che cade dal cielo per dissetare i fiori dei campi.
“Cosa ne sarà della mia bottega? Come saranno sparpagliati i martelli, i chiodi, il mastice, le suole ed il cuoio?” si chiedeva preoccupato Giuseppino, un ciabattino che svolgeva la propria attività in via Luca Landucci, proprio vicino alla stazione ferroviaria..
“Voi vi preoccupate della vostra bottega, ma io cosa dovrei dire, visto che mia figlia abita a due passi da voi , in via Piagentina” affermò una signora di una certa età.
“Chissà che fine avranno fatto i miei amici, con cui giocavo a pallone in piazza Alberti? Speriamo che siano vivi;” si augurò un ragazzo di quindici anni, che faceva il garzone in una macelleria in Via Frusa, vicino allo stadio comunale Giovanni Berta.
Dopo circa un’ora di angosce e tormenti, finalmente suonò la sirena del cessato allarme. La vita così poteva riprendere come prima. Sestilia si alzò, salutò tutta la gente che le stava intorno, uscì dalla cantina e da via Sette Santi si incamminò verso piazza Oberdan, dove era situata la propria abitazione, sperando che fosse stata risparmiata dal quel bombardamento aereo.
La donna non credette ai propri occhi. Le sembrava di avere un incubo, ma, a poco a poco, si rese conto che invece stava vedendo la pura realtà.
Il quartiere intorno a piazza Beccarla era un cumulo di macerie: palazzi divelti, strade piene di travi e calcinacci, gente disperata che, gridando e piangendo, correva in tutte le direzioni possibili. Qua e là si notava qualcuno che pregava in ginocchio; in via Mannelli, sopra un cumulo di mattoni, si intravedeva una testa di donna e poco oltre appariva il resto del suo corpo; in via Pier Paolo Sarti, un bambino scavava tra le macerie,gridando: “Mamma, babbo, dove siete?”, ma nessuno dei due rispose al suo appello. Un passante si fermò, comprese la situazione e si mise a scavare insieme al piccolo; nelle vicinanze, invece, c’era una bambina felice e sorridente, perché aveva ritrovato sotto ad un cumulo di macerie la sua bambola.
Era un po’ danneggiata in volto e nelle gambe, ma per lei andava bene anche così, visto che, comunque, avrebbe ugualmente soddisfatto la sua fantasia. In via Landucci si trovavano a terra due buoi morti, dai loro corpi usciva del sangue, che formava un lungo fiume sulla strada. Alle spalle delle povere bestie si vedeva, capovolto a metà il carro che trainavano e vicino si trovava anche il conducente morto, disteso per terra; qualcuno diceva che si trattava di un contadino della Rufina, che portava vino e aceto ai commercianti del quartiere. In via Scipione Ammirato apparve una villetta stile liberty, rimasta in piedi a metà; i passanti si intenerirono nel vedere gli oggetti appartenenti all’intimità di una abitazione: un armadio, alcune sedie, un tavolo con al centro un cesto che conteneva frutta di stagione, una libreria con tanti libri ed un pianoforte con uno sgabello, dove sedeva un uomo, con la testa sanguinante appoggiata alla tastiera dello strumento musicale: si trattava di un noto gerarca fascista della città, che diversi anni prima aveva partecipato alla marcia su Roma. Anche lui era una delle tante vittime di quel bombardamento aereo alleato, che invece di colpire la stazione ferroviaria di Campo di Marte , per errore distrusse le abitazioni civili. Poco oltre accadde un fatto lieto in mezzo a tanta desolazione: una giovane donna, dopo essere stata estratta da un cumulo di calcinacci, assistita da un’ostetrica e da due crocerossine, diede alla luce un neonato, che probabilmente chiamerà Fortunato , vista la circostanza della sua nascita.
Sestilia, scansando a fatica calcinacci, pietre, mattoni, alberi sradicati dal terreno e caduti a terra, era riuscita a vedere tutto questo. L’orologio di Palazzo Vecchio suonava le undici, quando la donna giunse in piazza Oberdam; subito si accorse che alla sua casa era toccato il medesimo destino capitato alle altre abitazioni: era stata distrutta dal bombardamento aereo. Una signora, che aveva un’edicola di giornali in quella piazza, le si avvicinò, dicendole: “E ora, Signora, cosa farete?”
“Prenderò la corriera e andrò fuori città a San Michele a Torri, dove possiedo un casolare, con la speranza che mio marito Pierluigi torni presto dal fronte russo. E’ sergente alpino della divisione Julia” rispose, piangendo, Sestilia, mentre un ambulanza a sirene accese, che trasportava un ferito, transitava in direzione dell’ospedale di Careggi.


Capitolo II
San Michele a Torri

Il cielo era blu e i raggi del sole riscaldavano le colline intorno a Firenze. I passerotti, nascosti tra i rami degli alberi, cinguettavano, alcune lepri correvano nei campi, i fagiani con le loro eleganti penne colorate si dissetavano, bevendo le acque fresche dei torrenti, mentre i contadini tagliavano l’erba per ricavare il fieno utile a sfamare il loro bestiame.
Il fronte era lontano, voci insistenti dicevano che a Salerno era avvenuto uno sbarco alleato. Quattro soldati tedeschi stavano prendendo il sole seduti su un prato; appartenevano ad una compagnia di paracadutisti reduce dal fronte greco-albanese, i cui uomini stavano trascorrendo un periodo di riposo in Toscana, in attesa di essere inviati in qualche località di combattimento.
Albert osservava un cipresso, che tanto gli ricordava la matita con cui disegnava le alpi bavaresi. Giorge guardava un ulivo, che sembrava un cono di gelato. Il tenente Otto, studente di ingegneria all’università di Norimberga, apriva una lettera che gli aveva spedito sua madre, dove c’era scritto, tra l’altro: “…La catenina d’ora che porti al collo ti proteggerà ovunque sarai, in questa maledetta guerra, così il dolore del mio parto non sarà stato vano”.
Adolf, invece, intravide una rondine in volo e le chiese di dargli un passaggio fino al suo villaggio, situato nella vallata del Reno vicino a Colonia. Il volatile, sordo alla sua richiesta ,sparì verso la pianura Empolese.
Il sole in quel momento venne oscurato da una nube, un leggero venticello iniziò a soffiare da Montespertoli, spettinando i capelli dei giovani camerati.
Nella vicina strada sterrata transitava una donna in bicicletta. Adolf la vide, si alzò e gridando le intonò una canzone italiana assai in voga: “Ma dove vai bellezza in bicicletta?”. La donna, si fermò, appoggiò un piede a terra, tolse dalla giacca una mitragliatrice e sparò diversi colpi a ripetizione in direzione dei militi.
Adolf, Albert, Giorge rimasero uccisi all’istante. Il temente Otto riuscì a ripararsi dietro una quercia, tolse la sua pistola dalla fodera e rispose al fuoco.
La donna dopo avere esaurito le munizioni, riprese a pedalare in direzione della Val di Pesa.
Il tenente Otto, incredulo ed impaurito dell’accaduto, abbandonò il riparo, fece qualche passo incerto,si avvicinò ai corpi dei suoi poveri soldati e osservandoli, vide i loro volti con gli occhi aperti e la bocca spalancata, mentre il sangue macchiava l’erba verde di quel prato.
Un cane randagio in quel momento iniziò un lamento, in cielo apparvero dei corvi, che cercavano di raggiungere i cadaveri di quei giovani soldati. L’ufficiale, tremante ed inquieto, si guardò intorno, temendo che da qualche parte si nascondesse un altro “bandito” pronto a colpirlo; con la pistola in pugno camminò verso un sentiero scosceso, che lo avrebbe condotto al comando della sua compagnia, dove avrebbe informato i superiori del tragico episodio. Dopo pochi passi, di fronte ad un lago, il giovane vide una donna che si stava riposando, seduta per terra e con coraggio le chiese in italiano: “Cosa stai facendo qui seduta?”
“La mia casa, a Firenze, è stata distrutta da un bombardamento alleato, sono in viaggio per andare nel mio casolare di campagna” rispose la donna un po’ intimorita.
“Conosci bene questi luoghi? Sai per caso dirmi dove si trova il rifugio dei partigiani?” chiese il tenete Otto.
“No, Signore, è da molto tempo che non vengo da queste parti” rispose la donna sempre più impaurita.
“Non ti credo, donna, mi stai mentendo” asserì l’ufficiale, guardandola negli occhi.
“Mi deve credere ,le ho detto la verità” rispose Sestilia piangendo.
L’ufficiale per un attimo osservò la donna con espressione severa; si accorse che aveva i capelli neri e mossi, gli occhi marroni come le castagne: un vero tipo latino. Sestilia, viceversa, osservò l’uomo e notò che aveva i capelli biondi, gli occhi azzurri ed il suo fisico faceva pensare ad un imperatore germanico dei tempi passati.
“Sei capace di nuotare?” le chiese a quel punto Otto.
“No, Signore, perché questa domanda?” interrogò a sua volta Sestilia, molto sorpresa.
“Bene, così…” affermò Otto, eludendo la domanda e indicando il lago con la mano ordinò: “Devi camminare dentro le acque; se sarai capace di raggiungere l’altra riva, avrai salva la vita, altrimenti…”.
“Credetemi, santo cielo! Io non c’entro niente con i partigiani, sono una povera maestra d’asilo”.
Otto, per niente impietosito dalle implorazioni della donna, le puntò contro la pistola e di nuovo impose: “Cammina dentro le acque, altrimenti ti sparo”.
Sestilia, piangente e rassegnata, si fece il segno della croce e iniziò a camminare verso il lago, avendo la certezza di morire affogata. Il suo pensiero in quel momento andò al marito in Russia e alla sua casa di Firenze, distrutta dai bombardamenti, ma mentre i suoi piedi iniziarono a sfiorare l’acqua, Otto puntò la pistola verso il cielo e sparò uno, due, tre colpi e con rabbia gettò l’arma per terra, gridando: “Alt, fermati, non voglio farti del male, vieni vicino a me”.
Sestila, incredula e smarrita si girò verso l’ufficiale e con passo timido ed incerto gli andò incontro.
Le campane della chiesa di San Michele in quel momento battevano sedici rintocchi; erano le quattro del pomeriggio. Gli uccelli, impauriti da quei suoni a ripetizione, abbandonarono i rami degli alberi e volarono in cielo, dove con i loro movimenti facevano tante geometrie.
“Quanti anni hai?” chiese Otto alla donna, accennando un debole sorriso.
“Ventiquattro, Signore” rispose Sestilia, rimanendo seria in volto.
“Io, invece, venticinque, uno più di te” affermò Otto, e dopo una breve pausa, aggiunse: “Noi siamo giovani, perché dobbiamo distruggere la nostra vita per volere dei potenti?”.
“Viva la pace tra Italia e Germania!” affermò Sestilia, alzando le braccia e guardando il cielo.
“Per fare tornare la pace bisognerebbe seminare tanto grano in questi campi, in modo da ricavarne molta farina, che è indispensabile per fare il pane, il quale, dovrà essere distribuito in parti eque a tutta la popolazione del mondo, affinché nessun popolo abbia motivo di prendere in mano le armi per rivendicare la propria sopravvivenza.
La Germania, dopo la prima guerra mondiale, a causa delle pesanti sanzioni imposte dalle potenze vincitrici, si è ritrovata nella miseria: fabbriche chiuse, mancanza di generi alimentari, mendicanti per strada, che chiedevano l’elemosina. Ritengo che questa sia una delle cause, che hanno portato allo scoppio di questo conflitto, oltre naturalmente al fatto che il primo proposito di Hitler era quello di dominare il mondo intero”.
“Concordo con il tuo pensiero, però vorrei aggiungere che, se non cambia il nostro cuore, potremo anche seminare grano a volontà, ma raccoglieremo solo sterpaglia”.
“Questo è vero! Se non cambiamo la nostra anima, da agnelli, quali siamo oggi, diventeremo lupi e da lupi feroci, dittatori, pronti a scatenare altre sciagure, magari peggiori di questa”.
“Purtroppo direi che il difetto dell’uomo è che cambia faccia ed intenzioni a seconda delle sue possibilità”.
“Anche questo corrisponde a verità. Da sempre il concetto che hai espresso è una legge naturale dell’uomo e, direi, anche del mondo animale: il gatto mangia il topo, ma se il secondo avesse le capacità fisiche adatte, senz’altro farebbe altrettanto con il primo, senza nessuna pietà”.
“Vorrei esprimerti un altro mio pensiero: Un giardino ha bisogno di tante cure e di tanto amore. Se al tuo giardino darai tanto amore, le cose cresceranno e avrai tanta soddisfazione, ma prima altre cose devono seccare e certi alberi devono essere abbattuti”.
“Come potrei darti torto…”.
“Adesso, da tedesco, voglio dirti inoltre che ariani ed ebrei non dovrebbero odiarsi, perché entrambi hanno gli stessi occhi, bocca, naso, denti: non esistono razze, ma solo il genere umano.
“Anche questo che hai detto è sacrosanto, però, certe voci che ho raccolto al mercato di San Lorenzo, a Firenze, dicono di uomini, donne e bambini spinti in vagoni ferroviari e trasportati in luoghi lontani e sconosciuti…”
“Quello che dici è incredibile”.

“Un mio parente, che abita a Roma, nel quartiere di Monte Sacro, mi ha raccontato che i nazisti, per vendicare l’uccisione di loro camerati, avvenuta in via Rasella, hanno assassinato centinaia di persone innocenti”.
“Anche questo è orrendo: Non temere, presto le forze del bene trionferanno su quelle del male e l’Italia finalmente sarà libera, così, in altre vesti, potrò tornare tra queste colline a seminare tanto grano…”.
“Trionfino sulla terra gli uomini di buona volontà che la pensano come te ! A proposito, abbiamo parlato tanto, ma non ci siamo ancora presentati. Come ti chiami?”.
“Otto Müller di Norimberga, in periodo di pace studiavo ingegneria, avevo ancora pochi esami alla laurea, quando…”.
“Piacere, il mio nome è Sestilia Cencetti, prima del bombardamento aereo abitavo a Firenze, insegnavo come maestra d’asilo in un istituto religioso di Sesto Fiorentino”.
“Anche la mia città è stata bombardata dagli americani e la mia casa si è salvata per miracolo. La Germania, ormai, è un cumulo di macerie. Il mio popolo soffre a causa di quel pazzo fanatico di Hitler”.
“Credimi, Otto, questa guerra è una sciagura per tutti”.
Il sole, in quel momento, stava calando oltre il fiume Pesa. La sera bussava alle porte delle colline fiorentine, mentre qualche pipistrello svolazzava tra i tetti delle case.
Otto, improvvisamente, abbracciò Sestilia; dopo qualche secondo si svincolò da lei, fece qualche passo, si fermò, si piegò in avanti e raccolse una rosa profumata che aveva intenzione di regalare alla donna in segno di amicizia. Proprio in quell’istante, da dietro un cespuglio, partì un colpo di arma da fuoco, che andò dritta verso l’ufficiale tedesco, lo colpì e lo fece cadere a terra agonizzante.
Sestilia gli si avvicinò immediatamente, lo abbraccio intensamente, cercando di tamponargli la ferita nell’addome.
Otto, respirando a fatica e con la bava alla bocca, pronunciò a stento: “Sestilia, al collo ho una catenina d’oro, che mia madre mi regalò il giorno della mia prima comunione. Ti prego, prendila, è tua”.
La luna in qual momento apparve in cielo. Era più lucente del solito. Otto gridò: “Mamma oltrepassa le montagne e vieni a prendermi” e chiudendo gli occhi, spirò.
Sestilia, disperata, gli tolse la catenina, la osservò, vide che vi era appesa una medaglietta con un nome scritto sopra “Otto Müller”; dopo un attimo di indecisione se la mise al collo.
Nel frattempo un giovane con un fucile in mano, vestito in modo trasandato, con un cappello in testa, la barba lunga e un fazzoletto legato al collo, si era avvicinato a loro.
Sestilia, appena si accorse della sua presenza, disperata volse lo sguardo verso il lago, sulle cui acque si era posato dolcemente un corvo.
Da quel giorno Sestilia abitò nel suo casolare di San Michele a Torri, da dove si vedeva, quando non c’era foschia, il duomo di Firenze.
Suo marito Piergiorgio, dopo un periodo di prigionia, venne rimpatriato nel 1947.


Capitolo III
Strade incrociate

Era il 2 agosto 1970, ventisei anni esatti erano trascorsi da quell’alba del 2 agosto 1944, quando la quarta divisione neozelandese, a San Michele a Torri, affrontò una battaglia all’arma bianca contro la seconda divisione granatieri tedesca. La battaglia si risolse a favore dei primi, permettendo a costoro di aprirsi la strada verso Firenze, e lasciò tra quelle belle colline toscane carcasse di autoblindo, resti di munizioni, e soprattutto tanti cadaveri martoriati, coperti dalle mosche, che sotto il sole cocente, a poco a poco, si decomponevano.
Quel giorno non sembrava proprio estate. Il cielo era grigio, gli uccelli volavano bassi, un forte vento, proveniente dal nord, imperversava in tutto l’alto Mugello, facendo cadere dai pini, sui prati, le pigne per la gioia dei bambini, che le raccoglievano e le sgusciavano per mangiare i pinoli. Sestilia ed il figlio Gualtiero si erano recati nel cimitero militare tedesco del Passo della Futa per fare una visita alla tomba di Otto, ma quando giunsero nei pressi della sua croce, videro un’anziana signora vestita di nero, con le mani giunte in segno di preghiera. Le due donne, per un attimo, si guardarono a vicenda. L’una credeva di avere già visto l’altra da qualche parte, ma questo era impossibile, vista l’enorme distanza geografica che le divideva.
“Buongiorno, Signora, lei per caso è parente del tenente Otto Müller di Norimberga qui sepolto?” chiese Sestilia, trovando la forza di rompere il ghiaccio.
“Si, sono la madre, ma voi chi siete?” rispose la donna in lingua italiana, assai sorpresa e imbarazzata.
“Mi chiamo Cencetti Sestilia, abito a San Michele a Torri, una località vicino a Firenze; durante il periodo di guerra ho assistito all’agonia di suo figlio”.
Sestilia non se la sentiva di raccontare i fatti che avevano portato all’uccisione di Otto da parte di un ribelle partigiano. Non voleva aumentare il dolore della madre. “Vorrei restituirle la catenina d’oro che Otto mi diede prima di spirare e volare in cielo” disse con il cuore che le batteva a mille per l’emozione e si tolse dal collo la catenina porgendola alla donna.
L’anziana signora, con il volto segnato da profonde rughe, osservò attentamente la catenina, riconobbe che effettivamente era appartenuta ad Otto e volgendo lo sguardo verso Gualtiero gli disse: “Tu sei il figlio di questa signora?” .
“Sì, mi chiamo Gualtiero” rispose il ragazzo, mentre un passerotto si posava sulla lapide di Otto.
“Io, sono ormai vecchia e molto malata, pochi giorni di vita mi attendono e quindi non ha senso che tenga la catenina, perciò vorrei donarla a questo giovane, affinché abbia memoria di tanti ragazzi come lui, che morendo in guerra hanno interrotto prematuramente la loro gioventù e non sono potuti invecchiare come me” disse l’anziana signora, che si sorreggeva in piedi con un bastone, e subito dopo mise la catenina al collo di Gualtiero, il quale emozionato ringraziò e, guardandosi intorno, osservò le tante croci allineate proprio come dei soldati in marcia.Il sole in quel momento fece capolino tra le nubi. Sestilia e la mamma di Otto si abbracciarono, mentre nella vicina autostrada tante auto erano incolonnate dirette alle varie località di villeggiatura. Il boom economico era agli albori, la gente si divertiva, volendo dimenticare il dramma della guerra che aveva subito.

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