C’è un incontro fra molti mondi
nella musica di Julitha Ryan: quello fra l’Australia, terra d’origine della
songwriter, e l’Italia, grazie alla presenza di collaboratori d’eccezione in
fase di realizzazione e produzione provenienti da varie band nostrane, fra cui
spiccano il co-produttore Giovanni Calella (Adam Carpet e Kalweit And The
Spokes fra i suoi crediti) ed i membri dei Guignol Pier Adduce ed Enrico
Berton; quello fra diverse influenze musicali, fluttuando morbidamente il disco
fra folk, atmosfere psichedeliche da fine anni 60 ed un retrogusto pop che
rende il tutto più leggero; quello, infine, fra il piano e la voce
caratteristica di Julitha con gli altri strumenti, in un disco che non si fa
mancare elementi “accessori” che ampliano il suo orizzonte.
Bastano pochi brani per rendersi
conto di quanto a Julitha piaccia svariare fra le influenze, e se il singolo Bonfire mette in evidenza la matrice pop
che si fa apprezzare qua e là (ben evidenziata dai cori in sottofondo) ed una
luminosità di fondo che raramente si adombra, ben di più viene svelato dalla
seguente traccia, Like a jail: qui il
ritmo si fa più frenetico, in un connubio lisergico che pesca dalla
psichedelica ma altrettanto dal funky, apparendo come un piacevolissimo scontro
fra una colonna sonora da film poliziesco e l’ariosità di certe atmosfere
sixties, rievocate grazie anche a suoni vintage piacevoli ed avvolgenti.
Alternando brani più elettrici (Something’s gotta give, pacata ma
giocata sulla chitarra elettrica che centellina note di grande impatto emotivo)
a momenti intimistici più marcati (Woman
walks her cat) Julitha svolge un percorso musicale lungo otto canzoni che
ha l’unico difetto di compiacersi eccessivamente. Per una Big brass bell che riesce a mantenersi interessante lungo tutti i
cinque abbondanti minuti di durata, alternando efficacemente i vari strumenti
davanti ai riflettori (plauso in particolare all’organo, ed ai fiati che
compaiono da metà brano) bisogna fare i conti con una Woman walks her cat che invece non riesce a crescere efficacemente,
ed appare da questo punto di vista ancora più eccessiva la lunghissima traccia
finale There is no turning back, a
cui non basta rivestirsi di riverberi ed atmosfere dilatate per risultare
qualcosa più di un accompagnamento lisergico alla fine dell’ascolto. E’ come se
Julitha esagerasse nel recitare i suoi testi come mantra, ricordandosi solo a
tratti di dare sterzate musicali che avvalorino le sue particolari doti vocali:
un esempio felice da questo punto di vista è rappresentato da Zeehan, che abbina ad un raffinato
arrangiamento (prerogativa questa di tutti i brani) un improvvisa iniezione
d’epicità a metà brano, ed è efficace pur nella sua brevità anche la parentesi
strumentale di Memento, struggente
nelle sue atmosfere jazz che combinano agli accordi del piano ora i fiati, ora
la chitarra elettrica, ora un coro quasi gospel.
Rivedibile solo nella sua tendenza
a rimirarsi troppo allo specchio in alcuni frangenti, The winter journey è a
conti fatti un album godibile, vario e pieno zeppo di finezze musicali che
testimoniano della cura con cui è stato composto: il gemellaggio
Italia-Australia funziona, speriamo che continui e porti a risultati ancora
migliori. Stefano Ficagna
Tracklist:
1. Bonfire
2. Like a jail
3. Woman walks her cat
4. Memento
5. Something's gotta give
6. Zeehan
7. Big brass bell
8. There is no turning back
<3
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