17 settembre 2011

Il rigogolo del bosco di Leri


I camini della centrale si specchiano nell’acqua come se avessero una seconda anima.
Da quando venticinque anni fa l’avevano costruita, era diventata la signora incontrastata delle risaie, come una madre austera e dominante vigila su di loro.
Il grigio antracite delle due torri, soprattutto quando dalle Alpi arriva a grandi passi fragorosi un temporale, si fonde con il colore del cielo in un’osmosi fra tre elementi.
Io lavoro come custode in questo luogo nel contempo macabro e meraviglioso: accanto al mio gabbiotto, afoso in estate e ancor meno ospitale nel gelido inverno, sorge la villa padronale che appartenne a Camillo Benso conte di Cavour. Per anni è stata abbandonata all’incuria ed è diventata la casa di uno stormo di taccole, corvidi maestri dell’aria che nella quiete della dimora hanno insediato una colonia dove allevare la prole.
Da poche settimane, per i 150 anni dell’Unità d’Italia, hanno deciso di ristrutturare la villa (capriccio che il Governo ha dovuto soddisfare per quietare il trasformismo politico dei “responsabili” parlamentari locali), anche se per ora c’è solo una gigantesca impalcatura tricolore, visibile fin dalla strada delle grange.
Tutta la vegetazione che in anni di completo abbandono aveva preso possesso della villa e del cortile è stata rimossa e con essa se n’è andato anche il fascino misterioso che si respirava entrando di soppiatto nell’aia, in cui l’erba era talmente alta da nascondere gli attrezzi agricoli di un tempo, ancora disseminati qua e là, come se la corte fosse stata abbandonata in tutta fretta.
Scostando le imposte alle finestre, si potevano intravedere nel buio i brandelli dei decori e gli stucchi che affrescavano le volte e le pareti; mentre nell’ingresso una gigantesca statua decapitata di papà Cavour toglieva ogni dubbio sulla proprietà dell’immobile.
Nonostante l’abbandono, erano in molti a venire in pellegrinaggio.
Tra sedicenti esploratori, amanti della natura che attorno alla villa è rigogliosa più che mai e coppiette in cerca di un luogo isolato (e non particolarmente igienico) ove appartarsi, il via vai di gente era relativamente intenso.
Ora abbiamo un’impalcatura propagandistica che resterà per anni.
Addio mistero, addio esplorazioni, addio coppiette, addio taccole con piccoli al seguito.

Ma torniamo al mio lavoro nella centrale che doveva essere nucleare, e poi dopo il referendum del 1987 è stata convertita in turbogas.
Dalla mia sedia girevole ho l’illusione di vivere in un posto incontaminato: accanto alle torri, da un lato ci sono le risaie pullulanti di ardeidi e di anatre, dall’altro c’è il bosco di Leri, un lembo di quello che rimane del paesaggio padano originario, prima che la monocultura risicola uniformasse tutto. Anche nel bosco, complici i fumi che escono dai camini che spingono anche il più ingenuo cacciatore a tenersi a distanza, è tutto un fiorire di specie che altrimenti difficilmente si vedrebbero.
L’averla accompagna la volpe nel suo girovagare, quasi volesse tenerla sotto controllo. Il tasso fa capolino prima del tramonto e va a rovistare nell’unico cassonetto, posizionato proprio davanti all’ingresso della centrale, vicino al mio gabbiotto.
L’altra sera, facendo il giro perimetrale dell’impianto, mi sono imbattuto persino nella carcassa di un capriolo. Riposa in pace.
Sono confinato qui da sei anni: il massimo che mi viene richiesto è schiacciare un tasto rosso per aprire il cancello automatico e cigolante che conduce i camion e gli odiosi ingegneri energetici (ancor di più lo sono quelli gestionali, anche se sono meno numerosi dei primi) all’area recintata dell’impianto.
Non ho colleghi e la mia completa solitudine è spezzata solamente da queste presenze naturali di cui poco fa vi ho riferito.
La mia è una scelta meditata e nel contempo obbligata.
Anni fa ero un giornalista stimato, abitavo e lavoravo in una media città della provincia piemontese, dove la precarietà che i trentacinquenni di oggi sono costretti a vivere mi ha portato nel tempo a diventare aggressivo e disilluso. Non ho figli. Non ne voglio e non me li potrei permettere.
Non so se conoscete le regole del lavoro giornalistico degli Anni Zero, ma non tedierei nemmeno il mio peggior nemico entrando nel discorso.
Sunteggiando: le tutele non esistono e i soldi sono pochi.
Ergo, chi fa il proprio lavoro onestamente e non si mette a novanta a favore del politico di turno, prima o poi viene spazzato via.
A me è successo esattamente questo, e sono finito a trascorrere i miei giorni nel gabbiotto del custode di una centrale a turbogas immersa nel nulla delle risaie vercellesi.
In questo luogo, nonostante tutto, ho un’esistenza da molti punti di vista più appagante.
Quando ogni due settimane ho mezza giornata libera vado a trovare la mia unica amica, Clara. Abita a Castelmerlino, località composta unicamente dalla sua casa e da un piccolo cimitero abbandonato.
L’unica abitazione nel raggio di quindici chilometri, ovviamente immersa nel nulla delle risaie.
Clara si sostenta dell’eredità che le ha lasciato un ricco zio agricoltore. Ma nonostante i denari vive come una mentecatta, circondata di gatti a cui peraltro sono allergico.
Quando ci vediamo mi parla lungamente di Goya di cui sa tutto, fino a quando la sua gola non si annoia e decide di zittirsi di colpo.
Quasi sempre mi offre dell’oppio e dopo averlo fumato i nostri corpi, nel frattempo diventati simili a marmellate umane, si accasciano sul letto matrimoniale con il copriletto rosa antico, come la cascina che lo ospita.
A metà strada tra il sonno e la veglia, lotto senza violenza per sottrarmi al suo abbraccio, apro gli occhi e mi scopro dentro Clara.
La penetro con tale lentezza che lei nemmeno apre gli occhi. Questo rituale si ripete con puntualità ogni volta che ci vediamo, regalandoci una felicità fisica e palpabile.
Al risveglio le parlo degli animali che popolano i dintorni della centrale, mentre l’oppio ci lascia un fastidiosissimo prurito, il più classico dei suoi effetti collaterali.
Poi attacco raccontando aneddoti relativi a quando stavo in città e ogni giorno incontravo una marea di gente. Ero io che a quel punto la inondavo con una Babele di parole.
Al termine del discorso mi incupivo di colpo. Mi sentivo come un naufrago e comprendevo che questa era la rappresentazione più esatta dell’uomo che insegue quel che fu un giorno e non lo trova.

A quel punto lei mi faceva notare il suono flautato che proveniva dagli alberi appena fuori dalla casa. «È un rigogolo. Sai che è difficilissimo vederlo. È strano che ce ne sia uno proprio qui, vicino alla centrale».Sulle sue labbra si abbozzava un sorriso silenzioso e breve. E mentre pensavo alla fragilità della vita, ai pigri e timidi omaggi che a volte rendiamo ai nostri amori, capii che l’amavo e che ero ragionevolmente felice di dividere con lei il presente e il futuro in questo luogo contaminato e forse proprio per questo ancora così ospitale.

Roberto Conti

foto di Diana Debord

7 commenti:

  1. Hai fatto bene a specificare cosa avrebbero potuto/dovuto cogliere.
    A me è piaciuto molto, soprattutto le citazioni musicali

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  2. Anche la foto è molto bella: rappresenta una sorta di spirito del bosco?

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  3. grazie Milena :)
    la foto rappresenta il rapporto che gli esseri umani instaurano con la natura: spesso viene intesa soltanto come una risorsa da sfruttare senza considerare le conseguenze, anche tragiche, che questo sfruttamento può portare. quando la tecnologia ed il progresso sfuggono al nostro controllo possiamo fare ben poco!

    sul mio sito trovi tutta la serie: http://www.debored.it/portfolio_world.php

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  4. ma dov'è questo posto? carino il racconto, atmosfere sinestesiche notevoli!...

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  5. Amo la tua scrittura, so da dove attinge la sua ispirazione

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  6. Roby, questo racconto mi ha colpito tanto... per com'è scritto e per tutto il mondo naturale che emerge dal contesto!!! BRAVO!!!

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