13 febbraio 2010

Lo spettacolo “circense” di Vinicio Capossela è andato in scena venerdì scorso a Borgomanero come apertura del calendario del Parco culturale dedicato alle terre del vino e del riso. Vinicio ha plasmato il suo “Solo show” sull’evento, celebrando la ritualità dell’inverno, del vino e soprattutto del riso, nelle sue varietà: il riso sardonico, il riso di scherno, quello amaro, di gioia, quello che abbonda sulla bocca dei tanti intervenuti alla serata inaugurale (metà delle poltrone del Teatro Nuovo, tutto esaurito, erano riservate alle autorità, visibilmente sorridenti per l’ottimo esito della serata, chiaramente pre-elettorale; un po’ meno lo erano invece quanti non sono riusciti ad accaparrarsi uno dei preziosi, ed economici, tagliandi, terminati in un soffio appena aperte le prevendite).
Nella prima parte dello spettacolo, in realtà, il circo ha un aspetto po' dimesso, sono pochi i trucchi e c'è più un'aria di raccoglimento, di risata sottile, di scherzo leggero: l’atmosfera è invernale e nebbiosa, avvolgente come una calda e ruvida coperta. Le canzoni, sia recenti che della discografia passata, così come le letture, sono come mantra dove domina l'estetica della semplicità, del sussurro. La voce bassa, fumosa e un po' sulfurea, è segno distintivo del cantautore anomalo, insofferente alle strutture tradizionali: Vinicio cerca attraverso la musica un contatto empatico con il pubblico. E lo conquista in fretta sfoderando al momento opportuno qualche hit assai orecchiabile come “Marajà” o “I pagliacci”.
Il circo vero, quello colorato, sgargiante, caciarone, arriva poco dopo, il tempo di qualche trucchetto e gioco di prestigio. I banner di scena disegnati da Davide Toffolo risaltano illuminati da occhi di bue colorati e Capossela si tuffa nel vecchio repertorio, con molti recuperi da “Canzoni a Manovella”. Il basso tuba, il flicorno o il trombone, evocano una vecchia banda che suona lontana e festosa; un repertorio poi di rumoristica varia e pittoresca fa respirare i brani di una profondità inquieta. C’è anche un magnetofono nell’ampio set di strumenti utilizzati dai cinque musicisti. Goduria interminabile. Ma il top, anche nelle parole, è una sorta di antico blues salmodiante, “La faccia della terra”, pezzo nato in America, registrato a Tucson con i Calexico, tra gli episodi più riusciti. E ci sono un sacco di trovate, che hanno come protagonisti le bestie, che aggiungono grande valore evocativo alla rappresentazione: il maiale, la scimmia, il corvo “torvo”, il toro del “Ballo di San Vito” che esce scampanante quasi nel finale ed inscena un etnologico duello con un’altra bestia rituale. Eccoli nel finale i coriandoli, i tamburi, le piroette: uno spettacolo che ha coinvolto occhi e orecchie con arrangiamenti che scoprono ogni volta chiavi nuove per pezzi notissimi ma non certo consumati. Piano piano gli spettatori si alzano, ballano, si agitano, come se il teatro fosse un'enorme pista da ballo. Si chiude il sipario e si riapre per un bis al piano. r.co.


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