In Italia esistono gruppi definibili “underground”. Una
parte di essi si impegna quotidianamente a suonare, cercare di creare quel
qualcosa in più, “sbattersi”, come si
suole dire. Un’altra, invece, manda il demo a Rockit. Provando a suonare duro
ma con le vocine che sembrano quelle dei camerieri che ti chiedono la zeste de citron nello spritz, scrivendo testi
in un modo così sdoganantemente falso che nemmeno Bugo dopo essersene andato da
San Martino di Trecate, e vestendosi stretto. In questa seconda categoria
rientrano i The Giornalisti, band laziale che sforna agli albori d’autunno un
disco troppo lungo per essere “rock” e troppo arpeggiato per essere “roll” dal
titolo Vecchio.
Parto dal pezzo migliore, Cinema, perché da punk rocker
vado subito a pescare il pezzo che dal titolo sembri più diretto: non male, una
cavalcata romantica con stacchi di chitarra Washington da non sottovalutare. Per il resto, invece, l’ascolto è abbastanza tumefatto. Non
riesco a finire una canzone: si passa dagli assoli country alle sferzate
pesanti di chitarra, dalla battistiana La mano sinistra del Diavolo alla
falsamente impegnata e Autostrade umane; dagli stop’n’goes jazzeggianti alle
entrèes alla Red Hot Chili Peppers del Dave Navarro più gradevole. Vecchio suona benino
ma suona noioso, troppi sfarzi e troppi giri di basso per un full lenght
prodotto con evidenti sforzi economici.
“Fosse stato meglio che non ci fummo mai conobbi” direbbe mi
madre: il saper suonare bene non significa divertire suonando, e soprattutto
divertirti.
I testi? “Ma di certo
non si può dire che non ci piaccia il bere, che non ci piaccia quando il vino
filtra tra le vene e il bicchiere” l’exploit migliore. Accordi rubati al
più onesto, vivibile e sincero punk rock, ma espressi in maniera forzatamente
new wave.
Finisco con il dire che non sia obbligatorio il “suonare
come”. Basta il “suonare”. E purtroppo i The Giornalisti, secondo me, nel 2012,
hanno pensato troppo. Andrea Vecchio
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