28 novembre 2011

'La testa indipendente' quattro chiacchiere con le band del territorio: The Kor

Nel lontano 2003, quando tutto ebbe inizio, si facevano chiamare Keep on Ready, oggi a distanza di 8 anni per la formazione novarese molte cose sono cambiate a partire dal nome. Una band che sin dall’inizio ha mostrato la facciata più ruvida del rock nostrano, proponendo un background nutrito dalle derivazioni prettamente di stampo americano. Fraseggi di chitarra ruvidi come pietra si contrappongono alla vocalità suadente ed aggressiva della singer Sonia Rocco (la formazione attuale presenta Elvis Giudici alla chitarra, Dario Piovani al basso ed Eric Giudici alla batteria) donando all’intera cornice un connubio stilisticamente impeccabile. Nel gennaio del 2011 i quattro musicisti novaresi firmano un contratto con l’etichetta indipendente After-Life, cambiando nome in The K.O.R, e si mettono al lavoro per incidere il loro primo full lenght che uscirà nella primavera del 2012. Il primo singolo estratto, I’m Not A Bitch, è un’anteprima che mette in luce le stesse attitudini di sempre:un rock genuino e trascinante che fa eco ad un leggero, e quanto mai orecchiabile, sospiro pop. Incontriamo i ragazzi per addentrarci maggiormente nelle dinamiche di questa formazione.

Come nasce la musica dei The K.O.R?
I nostri brani nascono sicuramente dalla voglia di creare o far rivivere, a chi ci ascolta, un tempo passato che ritorna, suoni non troppo elaborati ma con giri musicali e parole che rimangono in testa.

Avete un album in uscita, ce ne parlate un po’?
Beh che dire?! Bad Influence, questo è il titolo del nostro disco, nasce proprio da questa voglia di emergere, dal fatto che dopo tanti anni finalmente abbiamo trovato una formazione tale da portarci a pensare di fare quel passo in più, su cui forse prima non avremmo mai pensato. Un titolo non a caso, tutto collegato ai nostri brani, chi non è o ha avuto una "cattiva influenza" nella propria vita? Un uomo o una donna che ci han fatto soffrire, il mondo che ci circonda che scuote tutto, la scuola, la musica (vista in senso buono del termine),questo noi vogliamo raccontarlo in 10 brani.
Grazie alla collaborazione con Marco Germani, direttore artistico e produttore per After Life, ci auguriamo che l'uscita del nostro disco ci possa portare ancora più in alto.

Quali sono le difficoltà maggiori per un musicista del nostro territorio?
Il fatto che il piccolo mondo della musica emergente è diventato chiuso, i locali prediligono forse di più proporre gruppi cover e tributi, piuttosto che qualcuno che propone qualcosa di nuovo, anche per colpa della cultura musicale del paese che si accontenta dei soliti grandi successi. Pochi sono rimasti i locali che lo fanno fare, ma a volte neanche quello, non tanto per la non voglia del gestore, ma anche per le spese da sostenere per mantenere i live.

Cantare in inglese è una scelta commerciale o tecnica?
Non c'è un perchè di questa scelta, forse musicalmente ci piace di più interpretare ciò che sentiamo in lingua inglese ma non è sempre così, abbiamo in repertorio anche brani in italiano, sia cover che nostri e uno di questi sarà presente nell'album.

Come si vedono i The K.O.R fra dieci anni?
La forza di questo gruppo è quella di raggiungere le mete e porsene delle altre più ambiziose, nel 2003 sognavamo solo un palco mentre ora stiamo addirittura incidendo un disco ufficiale, quindi possiamo tranquillamente dire che se la magia continua, saremo sicuramente almeno un gradino più in alto, una meta ambita sarebbe conquistare l'estero.

Paolo Pavone

24 novembre 2011

La regina è morta, ma l’impero esiste ancora: il ricordo indelebile di Freddie Mercury a 20 anni dalla scomparsa

Era il 24 novembre 1991 quando si spense Farrokh Bulsara, conosciuto al mondo come Freddie Mercury, leader dei Queen, rockstar affermata e una delle più grandi voci di tutti i tempi. A vent’anni dalla morte lo ricordiamo calorosamente come tanti fan della “Regina” perché il suo personaggio è semplicemente un’icona incancellabile. Il vuoto lasciato dal frontman della band inglese è inevitabile, ma il suo carisma ha lasciato il segno: questo perché molte rockstar lo hanno emulato (per loro stessa ammissione) e, soprattutto, la gente oggi lo conosce quanto John Lennon, altra icona del Pop moderno.
Persona schiva e timida, Mercury sul palco si trasformava nell’entertainer perfetto per le platee e, dal punto di vista musicale, ha lasciato in eredità un vero e proprio impero di idee e di ricordi. I Queen dei giorni nostri (di cui sono rimasti solo Brian May e Roger Taylor) hanno ben poco da dire, ma basti pensare al successo del musical “We Will Rock You” per comprendere quanto le loro hit siano entrate dentro i cuori e le menti della gente. Canzoni come Bohemian Rhapsody, Somebody To Love, We Will Rock You, We Are The Champions e via dicendo non hanno solo scritto la storia del rock, ma hanno creato un proselitismo per cui ancora oggi è impossibile non considerare i Queen come un gruppo cult.
E il successo di massa lo devono specialmente alla loro voce: anima del gruppo, fornitore di idee (assieme a Brian May), frontman statuario. Mercury però non è il classico cantante Rock con venature shouter: la sua influenza tenorile-classica gli ha permesso di essere versatile il più possibile (ad esempio, pensate alla disco di Another One Bites The Dust e mettetela a confronto con la fase crooner anni ’50 della cover di The Great Pretender: due mondi distantissimi. E questa sua duttilità non può lasciare indifferente l’ascoltatore. Una voce pulita con un’estensione vocale spaventosa che ha unito le masse (ma non sempre la critica) che ancora oggi idolatrano l’artista nato a Stole Town, nello Zanzibar, 65 anni fa.
Uno stile, quello del frontman dei Queen, che ha trovato diversi eredi pronti a raccoglierne l’eredità. George Michael è quello con il tono di voce più simile, Justin Hawkins (leader dei Darkness) è l’imitatore maniacale di Mercury, Brandon Flowers (dei Killers) prende molti spunti dalle sue idee compositive e dalla sua tecnica tenorile. Quello che si avvicina di più a Freddie per quanto riguarda l’approccio sul palco è probabilmente Robbie Williams, che per sua stessa ammissione (la cover di We Will Rock You ne è la testimonianza) è cresciuto con le hit dei Queen. E – udite, udite – persino Serj Tankjan, l’uomo di spicco dei System Of A Down, ha dichiarato qualche anno fa di essere un appassionato della ‘Regina’ e di essere stato molto influenzato da Mercury.A vent’anni di distanza lo spirito di Freddie, la regina del Rock, è ancora vivo ed è destinato a non andarsene. “I still love you”: questo canta in These Are The Days Of Our Lives, il cui video ritrae il cantante dei Queen con un volto scavato, poco tempo prima che si spegnesse in quel tragico 24 novembre 1991. E noi lo amiamo ancora. Marco Pagliari

Kasabian live@Alcatraz - Milano 20 novembre 2011

Diciotto brani, novanta minuti di adrenalinico e potente set, una fila impressionante di singoli sparati uno dietro l’altro.
Quello che subito colpisce è l’inizio del concerto con cinque fortunatissimi singoli uno di seguito all’altro! Si capisce subito che i Kasabian sono in serata, la scena è tutta per Serge Pizzorno e Tom Meighan, si perché sono comunque loro la vera anima della band mentre gli altri sotto fanno suono (e che suono) si lanciano cenni di intesa si scambiano battute.Una grande band in grande forma e un grande pubblico che salta, balla, canta e non si ferma nemmeno un momento in piena sintonia con chi è sul palco.
Solo due momenti un po’ più delicati, “La Fee Verte” e Goodbye Kiss”, in mezzo a un mix micidiale tra elettronica, psichedelica e una Fast Fuse con tanto ci citazione “tarantiniana”.
Ma il meglio deve ancora venire perché dopo che LSF chiude la prima parte, c’è un encore strepitoso con una botta di elettronica che fa tremare lo stomaco e muovere la gambe.
Scorrendo quattro album i Kasabian hanno ormai una scaletta da fare invidia a chiunque e se “Velocirator!” non si è confermato come disco definitivo è sicuramente quello della svolta, perché siamo di fronte a una band che ha davvero fatto il salto di qualità. Daniele Bertozzi

Setlist: Days Are Forgotten, Shoot The Runner, Velociraptor!, Underdog, Where Did All The Love Go?, I.D., I Hear Voices, Take Aim, Club Foot, Re-wired, Empire, La Fée Verte, Fast Fuse, Pulp Fiction Theme, Goodbye Kiss, L.S.F. (Lost Souls Forever), Switchblade Smiles, Vlad The Impaler, Fire.

18 novembre 2011

Hurley: per i Weezer un album interlocutorio

Quasi un anno fa era uscito, senza molto clamore, l’ottavo album dei Weezer, intitolato Hurley. Sulla copertina, senza scritte e fronzoli vari, era raffigurato per l’appunto Hurley, un personaggio della serie televisiva Lost. L’uscita discografica era passata abbastanza inosservata, anche perché i Weezer erano appena passati dalla Geffen alla Epitaph, piccola etichetta che però ha dato ai quattro californiani la possibilità di comporre la musica che volevano, senza pressioni discografiche particolari.
L’album era uscito in quello che per i Weezer non era certo un momento di gran forma: Rivers Cuomo, il leader della band, era reduce da una lunga convalescenza per un grave incidente stradale, e il disco risulta malinconico e di basso profilo nonostante voglia sembrare un album festoso e ben prodotto. C’è però un altro recente evento, anch’esso tragico, che ha fatto nuovamente parlare dei Weezer e di Hurley. L’ex bassista della band, Mikey Welsh, a fine settembre, aveva scritto su Twitter di un sogno riguardante la sua morte a Chicago la settimana successiva per un attacco cardiaco. E purtroppo, per quanto folle e macabra possa sembrare questa storia, è esattamente ciò che è successo ad ottobre. L’inquietante evento ha quindi involontariamente fatto da traino per l’album uscito ormai da un anno. Un disco che già dalla copertina non si capisce in che direzione voglia andare.
Forse i Weezer vorrebbero solo tornare a quei bei tempi in cui facevano casino con i loro strumenti senza essere sfiorati dalle grandi tragedie della vita. Purtroppo, però, il quartetto californiano risulta parecchio fuori età per incarnare i valori alternativi di cui vorrebbe ancora essere portavoce. Lo si capisce già dall’iniziale Memories, che non è male, ha un buon ritmo, è ben prodotta, ha un po’ di elettronica che ricorda i Kasabian, però parla della nostalgia della band per il proprio passato. Anche nel secondo brano, Ruling me, ci sono richiami ai bei momenti che furono. Stavolta nel bellissimo ritornello, molto melodioso, che ricorda addirittura il primo album. Una delle tracce migliori dell’album, ancora fresca nonostante siano passati vent’anni dall’esordio. Bello anche il ritornello di Unspoken: è in momenti come questo che la band sembra ancora viva ed attuale.
Where’s my sex? è stato scritto appositamente per essere il brano di punta dell’album. Una canzone punk rock che gioca sui doppi sensi e ha come punto di forza una serie di cambi di tempo che ricordano Jesus of Suburbia dei Green Day e The Decline dei NOFX. Sullo stesso genere è abbastanza allegra e trascinante anche Smart girls.
Uno dei lati negativi dell’album è costituito da un paio di brani, come Run away e Hang on, situati a metà album, che non sanno bene che direzione prendere. Altri brani non pienamente convincenti sono Trainwrecks e Brave new world, classiche canzonette emo di ultima generazione (i Weezer forse non ricordano di essere stati considerati emo, tanti anni fa, quando questo non era ancora totalmente un insulto). Il disco chiude sugli stessi toni con cui era iniziato, cioè parlando di malinconia, stavolta con Time flies, un brano acustico, praticamente folk. Per quanto riguarda le bonus tracks, All my friends are insect non è male ed è un brano surf rock abbastanza originale, mentre I want to be something è una ballata acustica molto semplice; c’è poi un remix di Represent, allegra canzone che Cuomo aveva scritto per accompagnare la nazionale USA agli scorsi mondiali di calcio, ed una strana (nel senso di inaspettata e abbastanza inutile) cover di Viva la vida dei Coldplay.
In definitiva, Hurley non è né un buon lavoro né un cattivo lavoro. E’ un disco in cui molte scelte sono difficili da capire (partendo dalla copertina per arrivare all’accostamento di brani che non c’entrano molto tra di loro e per finire con la cover dei Coldplay che di senso ne ha veramente poco). E’ anche un album con forti richiami al passato, che in più di un occasione può indurre l’ascoltatore ad ascoltare tutta la discografia dei Weezer alla ricerca delle perle che il gruppo californiano aveva prodotto in passato. Non può considerarsi un ottimo album, invece, per chi dai Weezer cerca qualcosa di bello ed innovativo nel presente. Marco Maresca

16 novembre 2011

'La testa indipendente' quattro chiacchiere con le band del territorio: I Mauve

I Mauve nascono nel 2005 a Verbania dall’incontro tra la batterista Elda Belfanti e il cantante-chitarrista Carlo Tosi (la formazione al completo presenta una seconda chitarra curata da Alberto Corsi ed una parte ritmica affidata a Matteo Frova). Contraddistinti da un’anima ruvida e prettamente underground, i Mauve si muovono da subito alla ricerca di una dimensione sonora che possa risultare grintosa e slegata, uno step che si concretizza nel 2007 con l’uscita del loro primo full lenght Kitchen Love. Emergono subito aspetti profondamente indie rock contaminati da riverberi new wave con un’attitudine shoegaze che ne completa l’intelaiatura timbrica. Sospinti dagli ottimi riscontri i quattro musicisti piemontesi iniziano un’intensa attività live che li vede impegnati a solcare numerosi palcoscenici italiani. Nel 2010 si chiudono in studio per registrare il loro secondo disco, The Night All Crickets Died, pubblicato dalla giovane etichetta piemontese Face Like a Frog Records. Il nuovo lavoro presenta una maggiore disinvoltura che sposa perfettamente la tensione creativa che si respira nei suoni dei Mauve, un’energia che sa trascinare senza dare troppi strattoni. Cerchiamo di entrare maggiormente nel dettaglio incontrando la band.

La vostra formazione si rifà molto a realtà non proprio italiane, chi vi ha ispirato maggiormente?
ELDA: Una domanda scomoda per iniziare col piede giusto. Potrei citare la triade Mogwai-Giardini-Sonic Youth, ma come vedi qualcosa di italiano c'è. Triade a parte, le influenze per ognuno di noi sono molte e spesso molto diverse. Prendi il Frova che osanna Frusciante, Alberto ultimamente in fissa con i vecchi successi Red Hot, Carlo con i suoi mille gruppi sconosciuti ed io che vago nelle cose un po' più cattive senza dimenticare l'indie italico.
ALBERTO: Abbiamo sempre ascoltato anche gruppi italiani, anzi, forse inizialmente ci accostavamo maggiormente all’indie italiano anni novanta rispetto ad ora. Anche se ci sono ancora gruppi interessanti, non dobbiamo per forza cercarli oltremanica. O oltreoceano.

Nel vostro ultimo disco, nella parte testuale, si respira un’aria quasi fiabesca.
FROVA: Sì lo penso anch’io, specie nelle parti di Elda. Da piccolo niente mi terrorizzava più di Biancaneve!
ELDA: Non era nelle mie intenzioni...il testo crudo e senza giri di parole di Grasshopper mi rispecchia di più. I grilli che passano a miglior vita con il gelo dell'inverno, i pavoni che ghignano altezzosi ed i draghi che bevono il thè come signore eleganti sono tutta metafora, non fatevi ingannare.

Per una formazione giovane come la vostra quali sono le priorità?
ALBERTO: Suonare il più possibile ovviamente, cercando di farsi conoscere ma allo stesso tempo cercando di conoscere nuove realtà e nuovi gruppi, magari giovani come noi. Fare musica propria e produrla oggi, è sempre più difficile, ma resta sicuramente la nostra priorità.

Un tempo si facevano le tournèe per promuovere il disco, oggi per poterlo produrre. Penalizza le dinamiche di una band?
FROVA: l’autoproduzione è una realtà, l’autofinanziamento una conseguenza necessaria. Se questo penalizzi le dinamiche non lo so…forse per certi versi le valorizza, nel senso che la necessità di fare cassa ci fa suonare dappertutto! Naturalmente scherzo, suonare è una passione, per cui più date abbiamo e meglio è a prescindere da questioni economiche. In definitiva non so risponderti, dovrei pensarci.
ALBERTO: Non credo, o per promuovere, o per produrre un disco, in ogni caso suonare resta una necessità a cui non si può rinunciare.

I prossimi progetti dei Mauve?
FROVA: Un nuovo video, il secondo tratto dal nuovo disco. È ancora tutto in via di definizione, ma ci sono già ottime idee.
ELDA: Siamo già alle prese con nuovi pezzi. Abbiamo molto materiale con cui cimentarci.
ALBERTO: Il cammino di Santiago. Naturalmente suonando ogni sera in ostello.

Paolo Pavone

15 novembre 2011

Chissenefrega con chi sta Roberta!

Commento brevemente il concerto dei Verdena dell'11 novembre scorso al Leonkavallo di Milano.
Premessa, sono andato al concerto da solo perchè proprio avevo voglia di ascoltare un "lungo e noioso" , riporto le parole di altri naturalmente, loro concerto visto che ne ero in astinenza da tre mesi. Poi in apertura c'erano i Bancale che proprio non potevo perdere ... peccato per la ricerca del posteggio che mi ha fatto ritardare. Vabbè eccomi in coda.
Il pubblico del Leonkavallo non ha nulla di alternativo ed è mooolto uniformato in tutto, dall'abbigliamento (per gli uomini, ad esempio, sono molto in voga camicie a quadrettoni scozzesi di una particolare tipologia di azzurro, cuffie di lana un po' larghe di una particolare tonalità di verde - pazienza se al Leonkavallo si muore di caldo - grossi occhialoni da snob, rigorosamente neri...; per le donne c'è qualche possibilità in più nel vestiario, ma gli occhiali sono irrinunciabili) alle acconciature. Pace.
Gironzolo, come di consueto, e mi guardo in giro. Incontro anche gente conosciuta che mi invita a fermarmi con loro. Bene. Sono anche pressochè in prima fila.
Il concerto inizia. Ci sono decine di fotografi che non smettono mai di fare foto. Due ore di concerto, due ore di foto. Sul palco, sotto al palco, nascosti dietro gli amplificatori, accanto alla cassa della batteria. Perchè?
Il set è lungo e bellissimo. Purtroppo non c'è quasi nessun pezzo da "Il suicidio dei samurai", e nemmeno da "Solo un grande sasso", i miei dischi preferiti, ma ci sono delle chicche interessanti e golose come "Stenuo", ripescata da "Valvonauta ep" e molte altre.
Lo show purtroppo è rovinato dai commenti dei miei vicini di spazio, che non perdono occasione per esaminare una vasta gamma di cose: dall'abbigliamento dei quattro sul palco, fino ai gossip sulle frequentazioni amorose, lo stato di famiglia, il reddito, il numero di peli del naso dei poveri Verdena. E meno male che sul palco parlano poco, altrimenti chi so io scriverebbe pagine di esegesi di ogni parola. In particolare mi ha stupito - negativamente ovvio - l'informazione sui love affairs di Roberta di cui, a quanto pare, sono uno dei pochi preseti a non essere al corrente. Chissenefrega. Tolta la musica, che poi è il motivo per cui sono qui, sembrava di essere a un concerto dei Dari. Con tutto il rispetto per i Dari e senza voler metterla giù dura a tutti i costi.
Naturalmente non ho fatto foto nè video... lo hanno fatto molti altri. Quindi vi posto uno dei pezzi a mio avviso più riusciti della serata "Angie".
Per stasera è tutto. Il gatto sta bene e vi saluta. Cordialmente vostro.
Roberto Conti

14 novembre 2011

Cade il Governo Berlusconi? Fabrizio Coppola festeggia regalando una canzone...

Milano, 14 novembre 2001 - "Respirare lavorare, continuare a costruire, perdere e ricominciare, distruggere e ricostruire". Così cita il ritornello del brano di Fabrizio Coppola, che mai fu più legato all'attualità del paese come ora. Una canzone politica, adottata dal candidato Stefano Boeri per le amministrative milanesi dello scorso giugno, racconta della necessità di azzerare tutto per ripartire da zero. Ora che il Governo Berlusconi è caduto, Fabrizio Coppola desidera regalare questo brano dal proprio sito, per festeggiare con tutti quelli che hanno voglia di farlo, la possibilità di ripartire dopo 15 anni in cui le migliori intelligenze e i migliori talenti sono stati esclusi dalla vita pubblica del Paese. "Respirare lavorare è un’assunzione di responsabilità, una chiamata alle armi dell’intelligenza e dell’impegno. È per questo che sarei contento se anche altri artisti aderissero ad iniziative simili, perché è arrivato finalmente il momento di liberare tutte le energie del nostro paese". Cosi Fabrizio Coppola, che dal suo sito continua: "Oggi è un giorno importante. Siamo solo all’inizio, ma è bello poter pensare che si inizia a risalire. Per festeggiare la fine della fine insieme a voi, da oggi e per una settimana il mio nuovo singolo Respirare lavorare e il relativo video saranno in free download". "Respirare Lavorare" è in free download dal sito www.fabrizio-coppola.net fino a domenica 20 novembre. r.co.

I Wilco si mettono in proprio e continuano l'evoluzione musicale con The Whole Love

Ottavo album per i Wilco, band di Chicago con ormai quasi vent’anni di attitvità alle spalle. “The Whole Love”, che succede a due anni di distanza a “Wilco (The Album)” rappresenta un altro passo nell’evoluzione artistica nella carriera di Jeff Tweedy e soci, nonché il primo prodotto dalla propria etichetta, la dBpm.
Art of Almost è l’ipnotico pezzo che introduce il disco: un synth in loop precede l’alienata voce di Tweedy: il tutto prima che la mini-suite si chiuda in un rumorismi di chitarra e tastiere degne dei King Crimson più sperimentali. Una scelta tanto coraggiosa quanto lodevole. In I Might, Damned On Me e Standing O si sentono echi beat anni ’60 (vedi Kinks e primi Who), oltre che i Wilco vecchio stile. In Sunloathe la chitarra slide e il piano fanno da padrone in una lenta elegia. Non manca pure lo swing da club d’elite (Capitol City), oltre che gioielli acustici per fare respirare un album a 360°. Degli esempi? Black Moon, accompagnata da archi a mo’ di “White Album” dei Beatles, e la lunga e dolce One Sunday Morning, final track in cui c’è un evidente citazione nella musica e nelle liriche di “Sunday Morning” dei Velvet Underground.
Tutto questo in un lavoro molto tattico in cui il sound prima accelera, poi rallenta, come se fosse un lungo allenamento al parco in cui la band testa tutte le sue capacità. Nonostante sia sempre rimasto un gruppo di nicchia è incredibile come nei Wilco si possa intravedere un “trait d’union” tra il rock indie che fu (R.E.M.) e che è ora (gli Arcade Fire devono qualcosa anche a Tweedy e soci, basta sentire Born Alone per capire). Le diverse sfumature che si colgono nell’album sono l’ennesima conferma che i chicaghesi raramente sbagliano un colpo. Sicuramente “Yankee Hotel Foxtrot” resta una vetta irrangiungibile, ma “The Whole Love” non lascerà delusi sia i fan dei Wilco, sia nuovi ascoltatori alla ricerca di indie rock di ottima fattura.
Marco Pagliari

10 novembre 2011

Christian Frascella racconta "La sfuriata di Bet" e come è difficile essere scrittori a Torino (audiointervista)

Christian Frascella è intervenuto alla MelBookstore di Novara per presentare il suo ultimo romanzo La sfuriata di Bet (Einaudi) lo scorso 13 ottobre. Con il taglio ironico e sferzante che aveva contraddistinto il suo ottimo libro d’esordio, Mia sorella è una foca monaca, lo scrittore torinese percorre ancora una volta i temi dell’adolescenza, scegliendo di raccontare le gesta rabbiose di una teenager dalle idee un po’ confuse. A moderare il critico letterario Roberto Carnero. r.co.

(l'audio impiega alcuni secondi a caricarsi)





Alcune battute della presentazione:

Ho voluto dare un ritratto di una generazione di giovani con cui mi sono confrontato in prima persona

Ho lavorato in fabbrica facendo i turni, poi ho venduto assicurazioni al telefono, facevo il “temporeggiatore”. Ho fatto un po’ di tutto insomma. Quello che ho sempre voluto fare è scrivere

Se a Torino vuoi vivere di scrittura ma non sei uno che vende 100milioni di copie devi avere per forza a che fare con la scuola Holden. Mi hanno proposto un facile test di ingresso e poi parlai con uno dei direttori, Alessandro Baricco, che nel 1997 mi chiese 15 milioni (allora di lire). Mi hanno respinto come allievo, ma curiosamente quando ho pubblicato “Mia sorella è una foca monaca” mi hanno chiamato come docente per tenere un corso di scrittura creativa. Naturalmente ho rifiutato

Gli omini del rock di Fausto Gilberti (audiointervista)

Fausto Gilberti è stato ospite alla libreria MelBookstrore di Novara per presentare il libro Rockstars (Corraini edizioni). Intervistato dal giornalista Roberto Conti ne è venuta fuori un'interessante chiacchierata che ha ripercorso la genesi del libro: Gilberti ha rappresentato tutti i musicisti che appartengono alla storia del rock, dagli Anni 50 ad oggi, da lui più apprezzati ed amati.

(l'audio impiega alcuni secondi a caricarsi)



Qualche citazione dall'incontro:

Bruce Springsteen è rimasto fuori dalla raccolta perchè proprio non mi piaceva

In Italia non ci sono vere rock star. Vasco Rossi, ne è un esempio: oltre Chiasso non lo conosce nessuno

Da quando mi hanno rubato l'I-pod ho recuperato un giradischi e ho ricominciato ad ascoltare musica dai vinili

Se avessi dovuto includere nella raccolta altre band italiane avrei inserito la PFM

Ho realizzato altri libri, tra questi Mr Dildo, un volume di illustrazioni pornografiche in cui i testi sono stati tratti da siti porno e completati con miei disegni

Ho realizzato la copertina del disco dei Bancale. Me lo hanno chiesto loro: li ho ascoltati e mi sono sembrati un gruppo interessante e nuovo

7 novembre 2011

'Ascolti emergenti' di novembre

Fraulein Rottenmeier - Elettronica maccheronica **
I Fraulein Rottenmeier sono Giorgio Laini alla voce, Mauro Comelli al basso e Franco Bruna alla batteria, programmazione beat e synth. L’album si intitola Elettronica maccheronica ed effettivamente è un divertente misto tra dance, pop e punk. I testi sono rigorosamente in italiano, ho trovato qualche spunto interessante di pop e dance alla Depeche Mode anche se non mi hanno convinto in tutti i brani. Sul palco si presentano vestiti da pagliacci decadenti e metropolitani, così come sulla copertina del disco, portando in scena uno spettacolo coinvolgente e teatrale per cui mi piacerebbe appunto vederli dal vivo. Tra i brani che mi sono piaciuti di più ci sono Dancefloor e La conoscenza. Marco Colombo


Luca Lastilla - A casa da te **/
Luca Lastilla è un cantautore e ci presenta questo A casa da te, album composto da 12 pezzi, distribuito da Warner Bros Italy. Il disco è ben suonato ed arrangiato, e si sente; il genere è un pop molto commerciale ed orecchiabile con le classiche sonorità italiane degli ultimi anni. A casa da te non è altro che la versione in italiano del brano Home di Michael Bublè e che lo stesso Lastilla ha così commentato: “Ci sono tanti motivi per cui un cantante decide di interpretare un brano creato da altri... ma penso che il motivo principale sia comunque l'emozione che quel determinato brano riesce a suscitare nelle corde dell'anima di un artista”. Evviva la fantasia! Brani sicuramente radiofonici anche se di Lastilla non abbiamo sentito parlare molto ultimamente. Forse proprio perché le canzoni pur essendo molto orecchiabili mancano di quell’originalità che potrebbe fare la differenza. Tra i miei brani preferiti Briciole sulla pelle e Tutto inutile, le più convincenti a mio modesto parere. Marco Colombo


Underdose - A Mara dolce **
Gli Underdose sono Sergio Guida alla voce, Roberto Premazzi al basso, Fabio Zago alla batteria, Andrea Cribioli alla chitarra, Paolo Bottini alle tastire. Nascono nel 2009 e incidono questo primo disco che suona un po’ crossover un po’ rock e a volte con qualche puntatina a un pop commerciale senza mai convincermi. Eppure gli Underdose sono stati uno dei 21 gruppi semifinalisti del tour Music Fest 2010 con i brani Edera e Polvere. Tra i pezzi che mi sono piaciuti di più spiccano Neve su marte, molto radiofonica e Sara. m.c.

Sperimentare nel pop di massa? Ci provano i Coldplay

Mylo Xyloto? C’è qualcosa di fresco in quel titolo, che non ha nessun significato recondito. Siamo una band con parecchia storia alle spalle e penso che sia bello aver pensato a un nome che invece non ha nessuna storia. Abbiamo avuto quel titolo scritto su una lavagna per circa due anni. Altri erano più significativi, ma a noi piaceva questo, è tutto ciò che possiamo dire per difenderlo”. Queste le parole del leader del Coldplay, Chris Martin, rilasciate al tabloid inglese ‘The Sun’, che così spiega la scelta del titolo del quinto album in studio della band londinese.
Mylo Xyloto succede a Viva la vida, del 2008, rinnovando ancora la collaborazione con Brian Eno: un aspetto che li riconduce sempre più agli U2, di cui si sentono echi ricorrenti in tutti i dischi da A Rush of Blood ad oggi. Un synth apre la title-track (idea tratta da Where the streets no name? Chissà), poi via con lo speed-pop di Hurts like Heaven. Subito dopo ecco il singolo Paradise, uno dei brani più intensi del disco: apre un’orchestra epica che intona una melodia celtica, poi ecco la voce baritonale di Martin accompagnante piano e batteria ("Quando era solo una ragazza / si aspettava che il mondo / ma volò via dalla sua portata / e corse nel suo sonno / sognando il paradiso”) che precede il ritornello corale perfetto per le elegia da stadio. La naturale evoluzione di The Scientist, a livello globale.
Charlie Brown è un brano con un testo tanto beffardo (“Tutti i ragazzi / tutte le ragazze / tutto ciò che conta nel mondo / Tutti i ragazzi, tutte le ragazze / Tutta la follia che si manifesta / Tutti gli alti, tutti i bassi / Come la stanza gira, oh / Correremo selvaggi / Noi cresceremo nel buio”) che però ben si sposa al rock epico sincopato in cui la chitarra delay di Buckland (sempre più The Edge) fa da padrone in un fitto accompagnamento strumentistico (batteria, basso, piano e glockenspiel). I momenti di respiro Us against the world e U.F.O. fanno da cornice all’altro singolo Every tear is a waterfall (in cui la melodia celtica del ritornello aumenta il pathos di un’altra canzone fatta per essere intonata dalle masse) e a Major minus (il brano più aggressivo dell’album, in cui si sentono addirittura richiami al grunge e al funk).
Glissiamo su Princess of China, commercialata che fa perdere punti a un Mylo Xyloto fin lì impeccabile: il duetto con Rihanna si sposa con un testo tanto favolistico quanto banalotto. Una canzone perfetta per diventare un tormentone. Il blues di Up in flames è il preludio all’ennesimo spunto epico-romantico dell’album: Don’t let it break your heart è il manifesto di quello che i Coldpay sono oggi, sia nella musica (piano, chitarra e synth che giocano di intensità), sia nel testo (“Quando sei stanca di puntare le tue frecce/ ancora non hai mai colpito nel segno / e anche se i tuoi obiettivi sono ombre / ancora non se ne stanno andando via / andiamo, baby / Non lasciare che ti spezzi il tuo cuore”). Chiude Up with the birds, dove piano, synth e mellotron aprono alla marcia con cui Martin & co. salutano tutti con un sorriso (“Un semplice piano, ma so che un giorno / le cose belle ci verranno incontro”).Mylo Xyloto è un album ben riuscito, in cui i Coldplay hanno raggiunto la piena consapevolezza di essere una band di primo livello. Questa consapevolezza comporta due rischi: la sperimentazione, che troviamo negli intro di synth tra un pezzo e l’altro, è indubbiamente apprezzabile; meno il voler insistere allo sfinimento sulla via melodica e commerciale che li ha portati a vendere oltre 50 milioni di copie con i loro dischi (Princess of China e Every tear is a waterfall ne sono l’esempio). Non sappiamo se Mylo Xyloto è il Joshua Tree dei Coldplay, ma di certo è un segno di grande maturità acquisita nel tempo. Marco Pagliari

6 novembre 2011

Riecco i Negrita stanchi e invecchiati

Raramente i Negrita avevano fallito un colpo, prima d’ora, nella loro ricerca di un’identità musicale che gli permettesse di stare a galla. Erano riusciti a riciclarsi, ogni volta, passando indenni attraverso gli anni e le mode. Dannato vivere è il settimo album in studio per la band toscana (ottavo se consideriamo anche l’EP Paradisi per illusi), e stavolta la stanchezza è purtroppo evidente. C’è di tutto in questo album: tutto ciò che avevamo già sentito negli album precedenti, ma rivisitato in chiave stanca, disillusa, rallentata. Ci sono pezzi funky e un po’ blues che potevano andare bene per l’album d’esordio, e ciò significa che sembrano vecchi di quasi vent’anni. L’iniziale Junkie beat e la successiva Fuori controllo sono brani che cercano di essere ritmati e brillanti ma che invece risultano abbastanza noiosi fin da subito, complici anche i testi che stavolta non lasciano molto, in confronto agli album precedenti. Ci sono poi alcune ballate, anch’esse abbastanza anonime: Il giorno della verità, cantata dal chitarrista Drigo, e Dannato vivere, che dà nome all’album e ne spiega i concetti principali: la frustrazione nei confronti di una vita che non lascia mai completamente soddisfatti, e contemporaneamente la speranza di poter ancora girare per il mondo, stanchi ma liberi. Alcuni brani cercano di portare un po’ di allegria: Per le vie del borgo e Bonjour, ma risultano anch’essi abbastanza fragili e segnati da una malinconia di fondo. L’unica vera novità è rappresentata, purtroppo, dal primo singolo dell’album: Brucerò per te. Una forzata ricerca della rima baciata a tutti i costi, in un brano costruito sulla ripetizione ossessiva del giro di tastiera di una canzone dei Led Zeppelin, All my love, che ormai ha più di trent’anni. Discutibile sia la scelta di andare a ripescare quella canzone per costruirci sopra un testo orribile, sia la scelta di pubblicare quel brano come singolo. Se i Negrita non avessero avuto alle spalle già parecchi dischi, e se non fossero arrivati a quel punto in cui si pubblicano album solo perché è previsto dal contratto, probabilmente la loro nuova opera ed il relativo primo singolo non avrebbero avuto speranze di pubblicazione.
Esaurito il tempo delle critiche, c’è da dire che l’album ha anche alcuni momenti pregevoli: innanzitutto, nonostante lo scarso impatto di alcuni brani, è un disco ben prodotto ed arrangiato. Gli assoli di chitarra sono sempre molto intelligenti e curati. Un po’ meno originali, stranamente, i giri di basso, che tra l’altro in qualche canzone sono mixati ad un volume un po’ troppo alto e quasi fastidioso. I brani più elettronici funzionano bene: La vita incandescente e la finale Splendido, cantata da Drigo, brano che ha come nota positiva un crescendo finale particolarmente trascinante. Più o meno sullo stesso genere è anche il brano La musica leggera è potentissima, che però non sembra confermare ciò che viene dichiarato nel titolo. Funzionano benissimo, invece, i brani reggae, a testimonianza che forse di tutte le anime musicali dei Negrita quella che funziona meglio è proprio quella caraibica. Immobili e Un giorno di ordinaria magia sono brani ispirati e fantasiosi e forse è meglio che la band prosegua proprio su quel binario, invece di perdersi in cose morte e sepolte da vent’anni. Bella anche Panico, il brano più rock ma arrangiato in modo molto orecchiabile.
In attesa che i Negrita ci regalino un album veramente ispirato, frutto della loro arte e non solo di esigenze di pubblicazione, condoniamo questa loro opera intermedia che porta con sé una stanchezza ampiamente dichiarata e visibile nel titolo, nella copertina (orribile) ed in parecchi brani. Marco Maresca

4 novembre 2011

Gli Oasis erano più fichi, ma l'esordio di Noel Gallagher è pura classe

Ci sono due moti per affrontare l’esordio solista di Noel Gallagher, High flying birds: ascoltarlo facendo paragone agli Oasis, alla voce di Liam ai Beady Eye, ecc, oppure ascoltarlo e basta.
Ecco, io opto per la seconda… anche se in realtà di dischi solisti (o quasi) di Noel Gallagher ne abbiamo ascoltati già sette, quindi sappiamo esattamente cosa aspettarci o almeno ce ne siamo fatti un’idea nel gran parlare che si è fatto attorno a questo progetto.
Ma non è proprio così… poche chitarre e tante tastiere, una voce da brividi, una produzione ottima e tanta, tanta anima e cuore nel songwriting.
L’apertura del disco è maestosa, “Everybody’s On The Run” è un pezzo incredibile. Un intro con tanto di orchestra e coro, poi entra la voce potente e decisa fino all’apertura in un gran ritornello. La cartuccia migliore viene sparata subito, non c’è dubbio che sia il migliore pezzo di tutto il disco.
“Dream On” e “(I Wanna Live In A Dream In My) Record Machine” sono pezzi che ricordano vagamente le B-sides del periodo di Be Here Now/Standing On the Shoulder Of Giants, nulla aggiungono o tolgono al valore del disco. Buoni ma non eccelsi sono forse gli unici due pezzi “minori” del lavoro, mentre la successiva “If I Had A Gun” è davvero il singolone che ti aspetti da Noel Gallagher. Una sincera e malinconica ballata, intensa ed emozionante.
Ritmi più sostenuti per il singolo di lancio “The Death Of You And Me”, quasi una marcia per una bislacca orchestra davvero ben congeniata.
E poi? Cosa non ti aspetteresti? Di sicuro “AKA_What A Life!”, quasi un pezzo dance, affascinante e lontano dalla vena cantautorale dell’ex-Oasis. “Soldier Boys And Jesus Freaks” è un episodio al veleno con un gran testo. “AKA Broken Arrow” è il momento più “americano” del disco sponda Neil Young con un arrangiamento particolare e un risultato davvero notevole.
“(Stranded On) The Wrong Beach” potente nell’incedere e venato di blues mette in risalto una voce tra le migliori in circolazione.
“Stop The Clocks” sembra una ballata scontata senza infamia né lode, ma l’intermezzo e ancora di più il finale psichedelico elevano il pezzo di parecchio portando a degna un conclusione un disco che a primo acchito può sembrare semplice e un po’ scontato, ma che racchiude al suo interno canzoni degne di questo nome che stanno in piedi da sole che hanno un senso per gli ascoltatori e per Noel stesso che, sì, vola davvero alto!
Certo, gli Oasis erano più “fichi”, ma questa è pura classe… Daniele Bertozzi