30 ottobre 2004

La mia droga si chiama Julie - Intervista a Julie's Haircut

Julie's Haircut sono una delle più interessanti indie rock band italiane emerse negli ultimi anni. Capaci di mettere insieme il feeling di gruppi alternativi americani come Flaming Lips e Pavement con una conoscenza effettiva del rock e di come si fa una buona canzone. Prima nella scuderia di Gamma Pop (con "Fever In The Funk House",1998 e "Stars Never Looked So Bright", 2000), hanno inciso per la Homesleep il terzo album "Adult Situations" (2003), che ha ricevuto critiche lusinghiere anche da riviste estere.
L'intervista risale all'estate del 2001, appena dopo averli scoperti in un concerto a Castano Primo (casa mia). È stata nei cassetti un bel po' in attesa che facessimo il sito, assieme a complementi che poi credo di avere perso. L'ultimo disco allora era Stars Never Looked So Bright. L'ho lasciata integralmente com'è anche se avrei dovuto forse tagliare alcune cose.
A dispetto delle domande, spesso pedanti e troppo lunghe - mi scuso sia con gli intervistati che con i lettori - Luca G (Luca Giovanardi) e Nicola (Nicola Caleffi), i due cantanti-chitarristi del gruppo emiliano, hanno dato risposte intelligenti e interessanti delle quali va dato loro atto (grazie, ragazzi).
Dimostrandosi, in questo, persone di spirito e ricche di passione per quello che fanno. Nonostante chi li intervistasse non fosse all'altezza.I due primi album stanno per essere ristampati. I Julie's Haircut sono anche passati da Bologna all'Independent Days. Nell'occasione l'intenzione dei nostri era di prendere per la gola i Sonic Youth offrendo ai newyorchesi prelibati prodotti gastronomici della loro terra (pare che l'aceto balsamico di Luca Lumaca, il regista dei clip dei Julie's, sia irresistibile). Buona lettura.

La musica
Inizio con una premessa, spero non troppo lunga. Ho individuato nel vostro lavoro un interscambio continuo tra passato e presente. Voglio dire, quello che mi è piaciuto subito, sentendovi suonare dal vivo per la prima volta - oltre, logicamente, alle canzoni - è stato il fatto che voi, pur avendo dei legami fortissimi con la tradizione rock e pop, non vi limitiate ad un recupero filologico di certe sonorità, in altre parole non suonate rock "alla maniera di X" o "alla maniera degli anni Y", ma suonate Rock (and roll), punto e basta.
Mi avete fatto tornare alla mente un saggio di T. S. Eliot che ho letto l'anno scorso, "Tradizione e talento individuale". Secondo Eliot la tradizione (lui si riferisce alla poesia, ma le sue riflessioni possono essere applicate all'intero campo delle arti) non è un patrimonio che si può ereditare facilmente, ma va conquistata con fatica per mezzo dell'acquisizione del senso storico, cioè dell'essere consapevoli che il passato non solo è passato, ma anche presente, e che tutte le opere del passato compongono un ordine ideale simultaneo che si modifica del tutto, anche se di poco, ogni qualvolta vi sia introdotta un'opera d'arte veramente nuova. Questo attesta la coerenza tra antico e nuovo: se la nuova opera fosse soltanto conforme a quella del passato, essa non sarebbe neppure conforme, poiché non sarebbe nuova e quindi nemmeno opera d'arte ecc. ecc. ecc.

Domanda retorica: anche per voi il passato è qualcosa di sempre vivo, attuale, presente?
Una vostra frase ricorrente è "la tradizione è rivoluzionaria". Cosa mi potete dire, al riguardo?
Nicola: Credo sia fondamentale, in ogni approccio creativo, tenere ben presente il fatto che c'è una tradizione alle nostre spalle che ci ha "formati". Questo è un aspetto che non tutti hanno chiarito a se stessi in modo cosciente, ma di cui ognuno di noi, in modo del tutto singolare, ha fatto esperienza. I dischi che abbiamo ascoltato, i libri letti, le persone incontrate, le cose dette e quelle non dette: tutto ciò ha formato una nostra precisa personalità e in modo più o meno diretto si rispecchia anche in quello che "produciamo".

Cerco di spiegarmi meglio. Molte vostre scelte estetiche e iconografiche, dalla strumentazione, che indicate con molta precisione, ai soggetti delle copertine (il ritratto di Angela Davis di Felix Beltràn, "Tuttestelle" di Mario Schifano), pur richiamando il passato, la "Tradizione", non suonano come qualcosa di archeologico, solo per il gusto della citazione, ma di fresco, vivo e attuale, come dicevo: ho l'impressione che vogliano ricreare una particolare atmosfera, la stessa che credo voi respiriate quando ascoltate e fate musica, ma in modo più sottile e allusivo che esplicito. E' così?
Nicola: Credo che molto sia dovuto al fatto che, come già detto, ognuno di noi compie delle esperienze di vita molto variegate, fin dall'infanzia. Soprattutto le cose vissute da bambini e da ragazzi sono fondamentali, rimangono dentro di noi e ritornano sempre anche nella vita adulta. Detto questo, il fatto di citare elementi da un passato che magari non abbiamo neanche vissuto direttamente (gli anni '60) è un risultato di questo processo mentale e vitale, che viene rivissuto e rielaborato in modo consapevole, ma non come "progetto" estetico strutturato. Citare la pop art degli anni '60, ad esempio, è un modo per ribadire i legami psichici e sentimentali con un certo approccio 'visionario' al mondo, non certo una scelta legata al revival del lounge o del vintage…

Un esempio di ciò è il fatto che abbiate chiamato il vostro primo album "Fever in the Funk House", sostenendo che esso non era certo funk nel senso letterale del termine, ma nello spirito. Cos'è per voi lo "spirito del funk"? Ha a che fare con il sesso, come la musica cui si riferisce? Ce n'è uno anche nel rock? Se sì, in che cosa sentite che si differenziano? Che cosa hanno invece in comune?
Nicola: Il titolo è una citazione da un brano dei Rolling Stones da "Exile on Main Street". E' una specie di omaggio a un modo istintivo e corporale di "sentire" la musica, una sorta di rivendicazione di un approccio sensuale e pre-informatizzato che oggi non è più molto in voga se non in proposte come quelle di gruppi come Make-Up e Old Time Relijun. E' qualcosa che non è strettamente legato ad un genere musicale specifico, lo si può ritrovare nel jazz, nel soul, nel rock e nel punk, così come anche nella migliore letteratura…

Avete altre influenze extramusicali particolari oltre alla pittura, per esempio il cinema? Vi ho letto citare Scorsese quale fonte di ispirazione e in "Sweet Me" c'è quel gioco di parole riguardo a Tarantino… voi come la vedete?
Nicola: Il cinema è sicuramente una delle fonti di ispirazione più importanti, ma non tanto per le citazioni. Più che altro per il tentativo di costruire le canzoni, sia dal punto di vista dei testi che delle ambientazioni sonore, come se fossero dei piccoli film, non tanto con delle trame, storie o personaggi ma come contenitori per delle scene, dei "quadri" ambientali e umani che colpiscano l'immaginazione. Da questo punto di vista un'altra ispirazione importante viene da certi scrittori come De Lillo o Pynchon, che riescono in poche righe a rendere davvero "concreti" stati d'animo e pensieri.
Luca: Siamo tutti appassionati di cinema. Penso che certe nostre canzoni nascano proprio in maggior misura da un confronto con certi film visti piuttosto che con certe canzoni ascoltate. Penso a pezzi come "Pass the Ashtray" o "When Did it Start Going Wrong". Su di me hanno questo effetto: ascoltandole evocano delle immagini, proprio come se fossero fotogrammi di un film. Anche i testi di quel genere di canzoni secondo me sono affreschi di scene, come abbozzi di sceneggiatura. Come dice Nicola, non certo film compiuti, ma scene evocative. Scorsese, Lynch, Cronenberg, Kubrick credo che influenzino il nostro modo di scrivere almeno quanto Lennon, McCartney, Richards o Townshend.

Io sono uno studente di Lettere specializzando in Storia del Cinema irrecuperabilmente fissato per David Lynch, e proprio questo mi ha fatto venire in mente qualcosa che potrebbe fare al caso nostro. Lui ama citare gli anni '50 perché sono il periodo in cui è cresciuto, ma non solo. Molto di film come "Velluto Blu" e "Cuore Selvaggio" (l'uso delle canzoni di Roy Orbison o Elvis Presley, per esempio) rimanda all'immaginario di quegli anni, ma il tempo in cui si svolgono i suoi film è indefinibile, fluttuante. Ho avvertito una simile impressione proprio ascoltando il vostro ultimo album, "Stars Never Looked So Bright" e, in generale, la vostra musica, può appartenere, che so, ai '60 come a qualsiasi altra epoca. C'è tutto, posso sentirci gli Stooges ("Hot Pants") come i Sonic Youth ("Geza X"), i Velvet Underground ("Everything is Alright") come i Pavement ("Sextown"), assieme a un'anima molto nera, nel senso di soul, ma anche psichedelica ("Love Session Nr.1"), senza che ciò m'impedisca di rendermi conto che si tratta sempre e comunque dei Julie's Haircut, perché ciò che viene fuori dal CD è la vostra personalità, formatasi e maturata proprio grazie agli ascolti fatti in passato, per cui anche l'approccio a questi ultimi risulta spontaneo, soggettivo, vostro, insomma. Che dite?
Nicola: L'idea di dare un suono "classico" all'album c'era sin dall'inizio, era una scelta abbastanza consapevole e per certi versi in contrasto con il suono di "Fever", che per vari motivi, anche di budget e tempo, appartiene più a un tipo di produzione indie rock. Per quanto riguarda l'eterogeneità degli stili, è qualcosa che ci viene spontaneo, un risultato del fatto che siamo in cinque a comporre e arrangiare i pezzi… Il fatto che quello che emerge alla fine è l'impronta della band non può che farci piacere, significa che forse anche noi abbiamo uno stile abbastanza definito e riconoscibile.

Parlo per esperienza personale, dato che mi accorgo ogni giorno di più di quanto la mia visione del mondo sia stata influenzata dalla musica: non pensate anche voi che chiunque abbia un rapporto profondo con essa, anche solo da ascoltatore appassionato, finisca per "essere" anche un po' dei dischi che ha amato, che essi cioè diventino una parte, più o meno piccola, di lui, o di lei, e della sua sensibilità? E' chiaro che se poi si diventa musicisti, quest'aspetto emergerà con un'evidenza ancora maggiore.
Nicola: Sono d'accordo con te. Anche nel mio caso la musica contribuisce in modo determinante a formare la mia personalità giorno dopo giorno, è uno degli elementi centrali della mia vita.Luca: Sottoscrivo, ovviamente. Non credo che ci sbatteremmo così tanto se non fosse sempre stato così. Per noi la musica non è un "hobby", come si sente a volte dire, è uno degli aspetti che tengono in piedi la nostra vita. Per questo per me risulta a volte molto problematico avere rapporti agevoli con persone per cui la musica non ha un ruolo così centrale. La cosa mi rincresce, in certi casi, ma mi rendo conto che non posso farci nulla, perché l'amore viscerale per la musica è una delle parti più determinanti della mia personalità, non si tratta di una semplice passione. L'ascolto di determinate cose determina per me stati d'animo e atteggiamenti da cui non posso divincolarmi, fanno di me quello che sono, insieme a tanti altri fattori, ovviamente.

Il vostro eclettismo è qualcosa di pensato o di più istintivo e spontaneo?
Nicola: E' decisamente spontaneo, nel senso che non si preclude alcuna scelta in un verso o nell'altro. E' chiaro che il giorno che avremo in repertorio soltanto pezzi veloci o ballate occorrerà fare qualche riflessione.

Qual è il vostro approccio di massima al lavoro in studio (per ulteriori approfondimenti si potrà ricorrere allo Studio Report presente sul vostro sito) e quanta e quale importanza rivestono figure come il "Reverend" Fabio Vecchi e Andrea Rovacchi?
Trovate nel suono vintage e analogico qualità particolari di cui invece apparecchiature più moderne difettano?
Nicola: Il lavoro di studio è uno degli aspetti più gratificanti e insieme frustranti della vita di un gruppo. Occorre avere tanta pazienza, e cercare di combinare al massimo le tue capacità di musicista con quanto ti offrono le macchine, per riuscire ad avere un risultato che si avvicini il più possibile al suono che hai in testa. Da questo punto di vista uno degli aspetti più complicati è ancora quello del missaggio. Devo comunque dire che sono soddisfatto di (quasi) tutte le cose che abbiamo registrato con Andrea. Preferiamo il suono analogico a quello digitale, proprio per una questione di sonorità e "colori". Però, a scanso di equivoci, anche noi usiamo Pro Tools quando serve…

C'è qualche gruppo o musicista contemporaneo, in qualsiasi ambito, con cui vi sentite particolarmente in sintonia o che apprezzate in modo particolare?
Nicola: Decisamente i Flaming Lips, il gruppo che più di tutti in questi quindici anni ha saputo rivoluzionare e attualizzare, in modo davvero non revivalistico, il pop e la psichedelia. Dopo loro gruppi come e musicisti come Primal Scream, DJ Shadow, Queens of the Stone Age…

Il pubblico
Sapete essere molto versatili mantenendo in ogni caso una vostra identità stilistica ed espressiva. La cosa che apprezzo di più in un gruppo è che sia il suo stile peculiare a identificarlo, più che il cosiddetto "genere" di appartenenza. Dato che il vostro stile è particolarmente composito, non trovate che gruppi rock più completi ma difficilmente definibili, come voi, siano sfavoriti rispetto a proposte più immediate e facilmente etichettabili?Nicola: Può essere. Sicuramente se suoni un genere facilmente riconoscibile e codificato come lo ska, il punk o il reggae hai più possibilità di farti sentire, per il fatto che oggi il pubblico che segue il rock è abituato a ragionare un po' a compartimenti stagni, e tende spesso ad appiattirsi sullo stile o la "tendenza" del momento, ha poca voglia di approfondire o cercare qualcosa di più insolito. Ma non è che trent'anni fa le cose fossero molto diverse: i Velvet dovevano combattere contro un pubblico che seguiva la scena hippie, gli Stooges e i Suicide avevano di fronte il folk-rock e il progressive delle stazioni radio, e forse se nel '79 non suonavi punk, wave o rock da stazione FM era difficile trovare ingaggi. E' che allora c'era più spontaneità, più voglia di partecipazione dal basso, l'industria non controllava proprio del tutto i processi che legano un musicista al pubblico…

Magari mi sbaglierò, ma ho abbastanza bene in mente ciò che è successo a Castano Primo. Ho notato il vostro imbarazzo per la reazione apatica del pubblico (che voi avete anche tentato di coinvolgere, ma con scarsi risultati), cioè di quegli stessi miei conterranei o concittadini più o meno punk che preferivano pogare sulle versioni accelerate de "Il triangolo" o "YMCA" (non ho nulla contro i P.A.Y., anzi trovo che la loro sia una provocazione intelligente: quanti dei suddetti ammetterebbero di apprezzare Renato Zero o i Village People?) piuttosto che prestare attenzione a una performance più particolare come la vostra.Recentemente avete aperto, tra gli altri, per i Marlene Kuntz: quando vi esibite per platee diverse dalla vostra, che tipo di riscontri registrate? C'è qualche episodio che vi è capitato che vi ha colpito, nel bene o nel male? Un movimento musicale indipendente che sia unito e compatto non può e deve anche ampliare l'apertura mentale di chi ascolta musica (Cosa ne pensate, a proposito, dell'idea del "Tora Tora Festival")? Il vostro pubblico è abbastanza eterogeneo o ha caratteristiche definite? Che rapporto avete con chi vi segue?
Nicola: Suonare con gruppi come i Marlene ti permette di esibirti davanti a platee molto più ampie delle solite, e quindi ti dà la possibilità di arrivare anche a gente che non ti conosce, o che magari aveva soltanto sentito parlare del gruppo dai giornali. In genere la reazione è sempre positiva, ed è particolarmente bello vedere qualcuno nelle prime file che canta i pezzi. Il "Tora Tora" poteva essere una buona idea, il problema è che alla fine si è risolto nel festival della Mescal, i gruppi coinvolti erano sempre gli stessi, non c'è stata una vera apertura verso gruppi meno noti… comunque è stata una loro scelta e non mi sento di criticarla. C'è un ottimo rapporto con "il nostro pubblico", se vogliamo chiamarlo così: sono ragazzi e ragazze molto vitali, quando ci contattano per e.mail è sempre interessante conoscere le loro opinioni.

La vostra scelta di cantare in inglese mi appare del tutto sensata e consona al vostro stile musicale. In che termini questo può rappresentare un vantaggio o uno svantaggio? Il rischio non è proprio quello di essere, come dicevo prima, troppo atipici, dei pesci fuor d'acqua un po' dappertutto? Avete ragione a considerarvi orgogliosamente "di nicchia", ma alla lunga, la cosa può anche risultare un po' frustrante? Tra i possibili rimedi, oltre al mutuo sostegno tra gruppi (anche se una "scena" può essere un'altra delle etichette di cui parlavamo poc'anzi) con esempi come la SUB (a cui credo terrete particolarmente), c'è senz'altro il rivolgervi all'estero. Avete fatto ulteriori tentativi in questo senso, con case discografiche straniere? Io non vi ritengo per niente inferiori a tante proposte che arrivano dal panorama anglosassone.
Nicola: Qualcosa sembra si stia muovendo, anche se per il momento non c'è nulla di concreto. Farsi conoscere all'estero sarebbe sicuramente una possibilità in più rispetto al nostro mercato, che ormai mi sembra più che saturo. Una precisazione: noi non ci definiamo "di nicchia", è la situazione reale che ci costringe ad esserlo.

Avete progetti per suonare ancora fuori dall'Italia? Dove avete suonato, oltre alla Croazia, e come vi hanno accolti? Dove suonerete nei prossimi mesi?
Nicola: La Croazia è stata l'unica vera esperienza estera, per il resto abbiamo suonato un po' in tutta Italia isole comprese. Le esperienze al sud, in Sicilia e in Sardegna sono tra quelle che ricordiamo con più affetto, ma anche concerti molto intensi e un pubblico molto caloroso in paesi di provincia del Nord. Nei prossimi mesi suoneremo soprattutto nel centro nord, prima di prenderci una pausa per iniziare a pensare al nuovo disco.

Luca mi ha detto che sono pochi gli esempi di uso credibile dell'italiano in un contesto rock, e tutti abbastanza distanti da quello che voi fate. Volevo chiedervi a chi si poteva riferire e in che cosa sentite che costoro si differenziano da voi.
Nicola: Soprattutto gli Afterhours e i Massimo Volume. La differenza sostanziale è nell'uso del cantato, che Agnelli mi sembra riesca a conciliare molto bene con la struttura "rock" dei pezzi, mentre un gruppo come il nostro è molto più legato, ovviamente, a stili angloamericani. Ho amato molto anche l'album "Conflitto" degli Assalti Frontali.

L'ispirazione
Adesso le domande filosofiche. Dato che stiamo vagliando la possibilità di occuparci approfonditamente di questo tema, volevamo chiedervi: secondo voi la musica viene dal dolore (o dallo "star male" essere arrabbiati o altro) o si può scrivere musica anche se si è del tutto contenti di sé e della propria vita?
Nicola: Non credo esista una condizione privilegiata per scrivere buona musica. E' vero che molti dei dischi che preferisco sono nati da situazioni esistenziali difficili se non disperate, per cui forse lo "stare male" aiuta il processo creativo, ma non è una regola.
Luca: I pensieri che nascono in momenti "difficili" sono solitamente più profondi di quelli che ti vengono durante un pranzo di nozze o un compleanno. Per questo possono generare un processo creativo e un risultato più interessanti.

C'è qualcosa in particolare che vi ha spinti a suonare, oltre all'amore per la musica? Esprimervi con essa vi aiuta a stare meglio con voi stessi?
Nicola: Il motivo principale che ci ha spinto a suonare, e credo di parlare per tutti, è il divertimento. Fare qualcosa che ti faccia stare bene, insieme ad altre persone, questa è la ragione.

A me sembrate aperti e positivi, ma in modo tutto vostro, con una spina nel fianco, per parafrasare gli Smiths. Usate l'ironia in un modo che mi piace, consapevoli di come ci si possano dire cose cattivissime o anche profondissime. Dedicare in concerto "Everything is Alright" al ministro Ruggiero dopo che se n'è uscito con quella frase che definire infame è veramente poco, può essere più finemente feroce di tutti gli insulti che si meriterebbe quel tizio, mentre il vostro sense of humour a mio avviso rende molto più efficace il senso di malinconia di "Pass The Ashtray", crepuscolare ma senza patetismi né sentimentalismi. Pensate anche voi che il rock'n'roll più vero, che da sempre esprime molto bene rabbia, frustrazione, disagio, non possa quasi fare a meno di esprimere un certo sentire "contro", da "losers" o da "outsiders", anche quando lo tratta in modo ludico e ironico?
Nicola: Mah… Sono d'accordo sulla compresenza nella nostra musica di un lato positivo e di un aspetto più oscuro, credo sia una delle nostre caratteristiche peculiari. Per quanto riguarda l'essere "contro", oggi il rock come siamo abituati a conoscerlo, pronto da consumare, è tutto tranne che "contro". Come ha detto James Ellroy, è "ribellione istituzionalizzata" - tranne pochissimi esempi. Mi piace di più pensare a una funzione "politica" del rock in chiave privata, come a qualcosa che ti trasforma la vita dall'interno. Come dicevano gli Husker Du, "la rivoluzione inizia a casa propria, magari davanti allo specchio del bagno".

Chill out zone
Veniamo alle domande semiserie (molto semi e pochissimo serie) e un po' più rilassanti. Spero che le citazioni siano giuste, nel caso non fosse così vi autorizzo a redarguirmi pubblicamente:Quale di queste frasi vorreste fosse usata al vostro riguardo?A) "It's only rock'n'roll, but I like it" (Rolling Stones)B) "Thank God it's rock'n'roll (and I like it!)" (io, ma con più di un dubbio che qualcuno mi abbia preceduto)
Nicola: La seconda mi sembra decisamente più appropriata…Quale frase tra queste scegliereste per rappresentare meglio la vostra opinione in materia:
A) "Rock'n'roll will never die" (Neil Young)
B) "Dicono che il rock è morto solo quelli che non sanno fare il rock" (Iggy Pop)
Nicola: … … …"

Andare ad un party straordinario e starsene tutta sera in un angolo guardando le copertine dei dischi senza rivolgere la parola a nessuno è molto Julie's Haircut". Cosa ne dite di "andare a un concerto nel tuo paese, startene da solo per tutto il tempo e rivolgere la parola solo al chitarrista (Luca G) della band che ti ha folgorato?" Sono stato un po' Julie's Haircut anch'io? Il vostro è un vivere inimitabile come quello di D'Annunzio o ciascuno, nel suo piccolo, può essere un po' Julie's Haircut?
Nicola: Tutti nel loro piccolo possono essere un po' Julie's Haircut. La prima cosa da fare è non seguire l'indicazione che ho appena dato…

Avete visto per caso "Quasi famosi" di Cameron Crowe? Come film in sé non mi ha detto poi così tanto, visto che è piuttosto convenzionale, più interessante è piuttosto il ritratto di un mito del giornalismo rock come Lester Bangs, che fa da guida spirituale al giovanissimo protagonista. Chi è la vostra guida spirituale? Dovendo scegliervi un guru, su chi puntereste? Mi sembrava interessante sapere anche la vostra opinione su "My Generation" di Barbara Kopple, se siete riusciti a vederlo.
Nicola: Ho visto "Quasi Famosi" e non mi è piaciuto, mi sembra una visione troppo all'acqua di rose di un periodo che è stato sicuramente più contraddittorio. Di Lester Bangs ho invece letto l'ottima biografia, scritta da Jim De Rogatis, "Let It Blurt", e ne viene fuori un personaggio geniale, "fuori dalle righe", in molti sensi, ma anche con grossi problemi esistenziali. Non ho visto invece "My Generation", che mi sembrava un film più interessante.
Un guru spirituale? Potrebbero essercene diversi, tra i tanti sceglierei Johnny Cash e James Brown.

Bene, se fin qui avete resistito, sappiate che vi aspettano le due domande "marzulliane" che vi metteranno K.O. peggio di 300 chili di Sumopower!Che domanda si farebbero i Julie's Haircut e come si risponderebbero?Il rock'n'roll è un sogno o aiuta anche a vivere meglio?
Nicola: Il rock 'n' roll è un sogno e aiuta anche a vivere meglio.
Tommaso Iannini

A room of one's own: a colloquio con Fernanda Pivano

Successe che, più o meno tre mesi fa, la chiamai: avevo le gambe che tremavano più di quella volta là al concerto della scuola, e sudavo gelido. Mentre ascoltavo il tu... tu... tu... del telefono, arriva la sua voce: stanca e lucida e profonda. All'inizio mi mandò educatamente affanculo perché stava dormendo (erano le due e mezza). Poi la richiamai verso sera e le spiegai che volevo intervistarla; sulle prime era un po' restia, diceva che era stanca, che anche lei doveva lavorare, che non voleva essere disturbata, che aveva 86 anni e anche lei doveva campare in qualche maniera...poi, sentendo la mia voce, mi chiese quanti anni avevo, io le dissi la mia età e...oplà...cambiò tutto. Si comportò quasi da nonna, mi chiamava "Caro", poi mi disse una cosa strana: "Pensa quanto tempo hai ancora per sbagliare...", mi incoraggiò dicendo che quell'intervista sarebbe stata molto meglio di quella pubblicata qualche giorno prima su Repubblica. Io mi ero preparato una sfilza di domande che non finiva più...gliene lessi solo una di quelle, perché poi chiacchierammo per un'ora intera.E mi raccontò tutto, da quando era piccola, ragazza, e via discorrendo, dei suoi amici americani, tutti gli scrittori e poeti e via dicendo. Avrei voluto chiederle più cose ma non ci riuscivo perché continuavamo a parlare e faticavo a stare dietro alle sue parole perché stavo scrivendo a mano. Poi abbiamo parlato di attualità, siamo arrivati al discorso di un ragazzo americano di diciassette anni che ha scritto un libro, Nick McDonnell (il libro si chiama Twelve), lei lo ha conosciuto e ha scritto anche la presentazione di copertina. Io lo conoscevo sto tizio, e le ho detto (testuali parole...): "Grazie al cazzo, lui però aveva entrambi i genitori scrittori, non ha avuto problemi per farsi pubblicare". Lei si è messa a ridere e io ho continuato: "Noi mortali invece come facciamo?" Lei infatti ha risposto che al giorno d'oggi, se non hai delle conoscenze, è impossibile che ti pubblichino un libro. E così le ho spiegato la mia passione per la scrittura, il mio sogno nel cassetto, e lei cosa mi ha detto?..."Io l'ho capito subito che sei un ragazzo molto intelligente, Luca, l'ho capito dalle prime domande che mi hai fatto, perché hai dimostrato di conoscere molto bene l'argomento...una cosa molto rara per un ragazzino, anche da quello che ci siamo detti al di fuori dell'argomento "beat generation..." E allora scrivi questo cazzo di libro! Fai il romanzo generazionale, maledizione! che in Italia mancano i giovani scrittori. Scrivi quello che vedi, però, non dare giudizi, non criticare, perché poi diventi un prete, un moralista! Fai che siano gli altri a formulare giudizi in base a quello che hai scritto…Oggi è fondamentale, perché gli editori non hanno capito che non si può sempre scrivere come il Manzoni, bisogna evolversi.So che ce la puoi fare, non mi permetterei mai di darti questi consigli se no. E poi, il giorno in cui lo scriverai, lo dedicherai a questa povera vecchietta...e mi porterai fuori a cena..."Piangevo più di quella volta che ho ascoltato l'assolo di armonica di The River sotto la pioggia di S. Siro. E così, da quel giorno, non faccio altro che pensare a quella conversazione. Tutto il giorno, la mattina quando mi sveglio, il pomeriggio quando studio, quando mangio, e soprattutto la notte, quando mi è concesso più spazio per sognare.

Partiamo dall'inizio. Tutti, penso, da ragazzi hanno un sogno nel cassetto. Il suo era diventare traduttrice?
No, non esattamente. Mi piaceva scrivere, ma mai poesie. Mi piaceva raccontare ciò che vedevo. A nove anni ho scritto il mio primo romanzo. Ma alla maturità mi avevano bocciato al tema di italiano, me e il mio compagno Primo Levi. Fu allora che decisi di bruciare il romanzo che scrissi da bambina.Beh, non avevano visto molto giusto i professori.Già (ride) ma sai, ti parlo di settant'anni fa. Oggi molte cose sono cambiate, per fortuna.

Invece come si avvicinò al mestiere di traduttrice?
Sai, ai tempi non sapevo nemmeno che esistesse la professione di traduttrice. Era una cosa del tutto nuova. Comunque, nacque tutto da Cesare Pavese, che era stato per un periodo anche mio professore a Torino, poi lo spedirono al confino, lo ammanettarono durante una lezione, in classe, davanti ai miei occhi… comunque, fu lui, in seguito, a mettermi in mano per la prima volta l'Antologia di Spoon River. Mi stavo laureando, e stavo lavorando a una tesi sullo scrittore inglese Percy Bysshe Shelley. Lui mi disse di provare con un autore americano ma io non riuscivo a cogliere le differenza tra le due letterature, glielo confessai, la cosa lo divertì particolarmente e mi diede del materiale statunitense, tra cui Whitman, Hemingway e l'Antologia di E. Lee Masters. Inoltre mi consigliò di fare la tesi di laurea su Moby Dick di Melville. Cosa che poi feci.

Fu in quel momento che tradusse l'Antologia?
Successe che mi innamorai di quelle poesie, della loro rivoluzionaria tenerezza, e presi subito a tradurle per conto mio, senza nessuna aspirazione professionale. Custodivo i fogli segretamente in un cassetto, non so come ma Pavese trovò il manoscritto, e mi disse sorridendo: "Allora hai capito che differenza c'è!" Lo portò all'Einaudi e fu pubblicato subito.Come ha accolto, molto tempo dopo, la trasposizione musicale dell'Antologia nel disco Non al denaro non all'amore né al cielo di Fabrizio De Andrè?Ero molto, molto commossa. Io e Fabrizio eravamo molto amici. Mi chiese se ero disposta ad accompagnarlo in quell'avventura in sala registrazione. Ne fui entusiasta. Quell'album l'avevamo fatto insieme.Mi ricordo di aver visto un video in cui lei consegna un premio a De Andrè, e lo consacra miglior poeta italiano contemporaneo…E ne sono fermamente convinta tutt'ora. Non abbiamo molti poeti e scrittori contemporanei, Fabrizio l'aveva forgiata, la poesia. E poi aveva quella voce così profonda e magica…La sua era la voce degli angeli. Era ineguagliabile. E non mi stancherò mai di affermare che lui non era il Bob Dylan italiano, come molti sostengono, era Bob Dylan a essere il De Andrè americano.Concordo pienamente, con tutto.

A proposito di America, come si è avvicinata alla cultura americana e agli scrittori beat?Dovetti aspettare prima di compiere il mio primo viaggio negli Stati Uniti. Il passato antifascista di mio padre aveva creato qualche sospetto nelle autorità americane, e ci misero un po' a darmi il visto.Mi accostai a loro soprattutto grazie a William Carlos Williams, che incontrai a Portorico. Era il 1956, e stava lavorando all'introduzione di un libro di poesia di un ragazzo che prometteva bene: Allen Ginsberg.Lui si che aveva visto giusto…Sì, ma non era ancora Urlo. Quello uscì in seguito. Si trattava, se non ricordo male, di Empty Mirror. Da lì in poi conobbi tutti gli altri ragazzi americani.

Mi racconti…com'erano?
Oh, è stato il periodo più bello della mia vita. Erano dei geni assoluti, anche se i critici, spesso e volentieri, li stroncavano.Posso immaginare…Eh, ma…quella era l'America di McCarthy, della caccia alle streghe. Loro erano i primi a parlare in maniera così schietta di libertà. Erano tutti anti-fascisti, come me, instaurammo subito uno splendido rapporto d' amicizia. Come mi divertivo con loro! Mi stupivano sempre; erano veramente persone brillanti. Sognavano di ribaltare il mondo,quello che a loro stava troppo stretto. E Allo stesso modo avevano ribaltato anche la scrittura. Qui entra in gioco il be bop, l' improvvisazione, se non sbaglio. Certo, Kerouac aveva rotto con i canoni classici, s' illudeva di mettere in prosa il be bop di Charlie Parker, questo soprattutto ne I sotterranei: romanzo precedente a On the road.

Si conoscevano Jack Kerouac e Charlie Parker?
Si, erano molto amici. Entrambi grandissimi artisti. La cosa che mi dispiace di più di Charlie Parker è che non possiamo trovare molti dischi, in quanto imperversava la guerra, e il materiale impiegato per i vinili era di impiego bellico. Un vero peccato. "Bird" era il poeta dell' improvvisazione … Poveretto, finì male … era così giovane.

Gli scrittori beat facevano uso di droga, vero?
Si, ma non confondiamo con le schifezze che assumono oggi molti ragazzi. Loro erano più che altro sperimentatori. Sognavano una sorta di droga telematica che gli permettesse la comunicazione dei pensieri, più che altro droghe di origine sudamericana. Alcuni scrissero trattati su questi esperimenti. Scienziati o no, Burroughs è stato invitato all'Università di Harvard come consulente del Center for Research in Personality, Ginsberg è stato uno dei relatori ufficiali di un ambulatorio medico. Svolgevano indagini sul peyote e sui costumi rituali degli indiani Mazatec della foresta messicane di Oaxaca.Le loro droghe non davano assuefazione. Un giorno Ginsberg mi disse: "Trattano i tossicomani come i nazisti trattavano gli ebrei" e mi spiegò che la marijuana è molto meno dannosa del whisky. Ed è considerata illecita. Sia chiaro che non voglio assumere le difese di nessun tipo di stupefacente, proprio io, che ho sempre sopportato a fatica anche le pillole per il mal di testa.

In cosa si distinguevano, secondo lei?
Beh, il genio era sicuramente Kerouac: è stato lui il fondatore. Gregory Corso invece era il poeta per eccellenza.Credevo fosse Ginsberg…Non metto di certo in dubbio le sue superbe doti poetiche, ma più che altro era grande nelle "relazioni pubbliche", il coordinatore di tutto, senza di lui non sapremmo neanche chi sono. Poi c'era Neal Cassady (ride) era il più matto, prendeva in giro tutti, mi divertivo un mondo quando c' era anche lui. Era il loro modello, aveva un fascino irresistibile, non per niente era il co-protagonista di On the road (Dean Moriarty) ma erano tutti dei bravi ragazzi…Nell'intervista uscita su Repubblica lei ha affermato che Ferlinghetti era solo un mercante…Si, e lo confermo, tra le sue poesie e quelle degli altri c'era una differenza abissale. La sua vita era più che altro nella casa editrice, la City Lights.

Facciamo un salto indietro, Hemingway come lo conobbe? Mi ricordo che lei disse, in un'intervista, che le sue parole erano come "stelle cadute dal cielo".
Bla bla bla…(ride) come sono brava vero? (ride nuovamente). Comunque, lo conobbi grazie all' incarico che avevo avuto da Einaudi di tradurre Addio alle armi. Era un libro proibito per i nazi-fascisti, ma io lo tradussi lo stesso, rischiai di finire ad Auschwitz, ma per fortuna non accadde. A guerra finita uscì il libro e da lì nacque la nostra stupenda amicizia.Mi sono sempre chiesto cosa pensasse Hemingway degli scrittori beat.Lui non li approvava, il loro era un modo diverso di concepire l' anti-fascismo. L'incomprensione era reciproca. Tieni conto del fatto che avevano vent' anni di differenza, praticamente due generazioni differenti.

Una curiosità: com' era Bukowski?
So che eravate amici.Oh beh, era un grandissimo scrittore, ma completamente diverso da tutti gli altri. Completamente anarchico, più espressionista nel vedere il mondo: aveva "orrore della realtà", la sognava e la scriveva. Diceva anche che nei suoi racconti ci metteva sempre un po' di sesso solo per venderli… ed era vero! Comunque era adorabile, ogni volta che ci incontravamo mi faceva il baciamano e mi regalava un mazzo di rose. Non l'avrei mai detto.E invece era un vero cavaliere.

E ora? Cosa è rimasto della "letteratura dei sogni "?
A mio avviso, l'unica autrice che ha portato avanti i loro ideali, è Patti Smith. Una donna che io stimo molto, ha saputo fronteggiare problemi personali gravissimi con grinta e forza. Inoltre è una straordinaria poetessa, con la "p" maiuscola. Un romanzo che ho gradito molto e ha cercato di proseguire sulla scia dei beat, è Le Mille Luci di New York [di Jay McInerney, N.d.R.], un libro che ci parla di libertà, ma ha anche dovuto rompere quella leggenda della droga che ancora oggi li perseguita.

Un' ultima domanda, che cosa le hanno insegnato questi romanzi e tutti i suoi amici americani? Il bene più prezioso che abbiamo, che io ho visto vacillare piano piano fino a scomparire del tutto. La libertà, ragazzo mio, la libertà.
Luca Ottolenghi

Il rock dei Ratoblanco "crea scompiglio"

Capita di partire per fare un'intervista e trovarsi lì a snocciolare le domande e appuntare le risposte in modo automatico. Capita altre volte di finire a chiacchierare, consumando tutto il tempo a disposizione, senza che ne resti neanche un po' per quello che, da brava inviata, ti eri proposta di chiedere. In questo caso quello che ti resta è materiale più difficile da ordinare, ma sicuramente più gratificante.Marco Mezzetti ha 36 anni e ne ha dedicati un bel po' ai Ratoblanco, la band toscana con cui suona, canta e per la quale scrive canzoni che meritano di essere ascoltate. Non sono brava a mettere etichette e trovare definizioni, quindi non mi sforzerò per descrivere con due parole cosa e come suonano i Ratoblanco.Dirò solamente che nei loro lavori e ancora di più nelle loro esibizioni dal vivo si sentono una freschezza e una gioia di fare musica per le quali non si può che provare rispetto. Tecnicamente perfettibili (come chiunque altro), concentrati e appassionati nelle loro performance, i Ratoblanco passano da momenti punk a tenere ballate, da testi naif a immagini teneramente evocative. Marco ne è quasi sempre l'autore e non posso che essere curiosa, anzi entusiasta, di conoscerlo.

Siamo d'accordo di incontrarci per pranzo: oggetto, tra l'altro, il nuovo lavoro del gruppo (dal titolo programmatico) Crea scompiglio edito dalla Sonar/Audioglobe; arrivo qualche minuto prima di lui e mentre lo aspetto, sotto il sole, penso che è il 21 di settembre e non ho mai capito se è l'ultimo giorno d'estate o il primo d'autunno, e non so quale delle due ipotesi metta più malinconia…Ci sediamo di fronte a un vassoio di pomodoro, mozzarella, prosciutto e una bottiglia di acqua gasata. Non voglio partire subito con l'intervista, voglio prima farmi un'idea della persona che ho di fronte. Altrimenti (e questo gliel'ho detto) tanto valeva che gli spedissi le domande per posta elettronica. Mi congratulo con lui per il disco, gli confesso che mi piace molto, anche se non è sempre stato così. "Me lo hanno detto in molti," commenta lui, "sembra proprio che siano necessari diversi ascolti per farsi piacere Crea Scompiglio, e pensare che temevano di aver fatto un disco troppo semplice, troppo ascoltabile. "È proprio questo il punto, confermo io (rischiando di passare un po' da snob): ci si potrebbe "scoraggiare" dopo i primissimi ascolti, non tanto perché l'album sembri troppo complesso, al contrario perché si può pensare che ci abbia già detto tutto quello che aveva da dire, sia nella musica che nei testi. Invece no. Ci sono sfumature, rifiniture, dettagli che non si colgono da subito, ma che vale la pena di scoprire. Come è bello scoprire, quasi per caso, che Marco Mezzetti è un estimatore dei Pearl Jam; i suoi album preferiti sono No Code (il disco con cui il gruppo si è definitivamente sganciato dalle origini e ha trovato una sua strada, una sua originalità) e Versus (contiene i pezzi più belli, anche se le ballate sono un po' noiose…- ...questa è pesante, ma te la concedo, va'…). Gli piace il modo in cui Vedder e compagni scelgono ed eseguono le cover, non sono mai scontate o scopiazzate.Fa autocritica su alcune delle sue canzoni, anche con ironia, storcendo il naso per alcuni passaggi meno riusciti o per frammenti di testi non all'altezza di altri. "Scrivere in inglese è sicuramente più semplice, anche perché nei paesi anglosassoni la critica non ti spara addosso se quello che dici non è abbastanza cervellotico o alternativo.
Da noi, quando un gruppo evolve verso un linguaggio più comprensibile si dice che ha tradito. È successo così a moltissime band italiane, che magari hanno trovato poi il successo del pubblico ma sono state attaccate dalla critica e dai loro primi fan. Nei paesi anglofoni "pop" è un genere, non una denigrazione. Da noi no. Eppure, prendi un gruppo come gli Strokes, acclamati dalla nostra critica, traduci i loro testi e guarda che effetto fa. Chi potrebbe cantarli, in italiano? Nessuno meglio delle Vibrazioni, che però suscitano tutt'altri commenti…
I testi di questi gruppi sono semplicissimi, come lo erano le liriche di Elvis e di tutto il primo rock: mi piace una ragazza, ha gli occhi belli, passo a prenderla con la mia macchina, usciamo a fare un giro... da noi se uno scrive una canzone così viene coperto di ridicolo. Forse è per via anche dell'influenza dei cantautori, che si fa ancora sentire e per la quale "quella" e solo quella è la bella musica, in Italia. Il testo, in altri paesi, è assolutamente secondario, quasi nessuno ci fa caso. Da noi no".Da appassionata di scrittura musicale e semiotica del testo, questa parte non può che appassionarmi. Ma com'è scrivere canzoni? Si riesce a essere soddisfatti e ad avere la certezza, o la concreta speranza, di aver saputo trasmettere quello che ci stava a cuore o che avevamo nella testa? I rischi sono sempre i due estremi, dire troppo poco o troppo. In entrambi i casi, il testo "non funziona". "Quando lavoro sui testi mi accorgo quanto sia difficile la sintesi" commenta Marco, e riflettiamo insieme come le canzoni più belle siano spesso brevi, compiute nella loro sobrietà da sembrare perfette come una linea rotonda tracciata a mano che si chiude nel punto dove era iniziata formando un cerchio esatto.Restando sui testi, personalmente trovo che i Ratoblanco diano il meglio quando si sganciano dalla politica e dall'attualità.
Soprattutto in Crea Scompiglio, pur essendo innegabile la forza di brani di "protesta" (come Non li sopporto più, dedicata all'ipocrisia della realtà politico-sociale locale, o La Libertà (inno all'indipendenza e al tempo stesso denuncia delle contraddizioni del mondo occidentale), le punte più alte sono toccate da brani come Luna Piena (che ricorda il De Gregori di Bellamore), Penso a Te (pochi versi ripetuti come un mantra d'amore e chiusi da un coro che sembra una ninna nanna africana). Musicalmente non si può forse fare la stessa affermazione, e da questo punto di vista i brani più "agitati" sono sicuramente convincenti.Ma la composizione non è forse la parte più complessa di quell'impresa che è la realizzazione di un album. "È difficilissimo autoprodursi (come abbiamo praticamente fatto per Crea Scompiglio) e riuscire a ottenere un suono pulito come quello che abbiamo raggiunto, anche la qualità degli arrangiamenti è sopra la media. Un merito è stato anche dello studio dove abbiamo registrato, che si trova sulla Cassia, appena fuori Siena. Un posto dove abbiamo lavorato bene e dove vorremmo lavorare anche in futuro. Da un lato, forse, sarebbe più facile andare lontano, staccare da tutto e da tutti per una settimana e stare in studio a giornate intere. Così però avevamo il vantaggio di poter uscire dal lavoro, o concludere i nostri impegni quotidiani e scappare a registrare, a qualunque ora." Già, perché i Ratoblanco fanno tutti altre cose, chi studia e chi lavora. "La musica come professione non mi è mai sembrato un obiettivo raggiungibile, realistico. Sono pochissimi quelli che ce la fanno. Credo che non mi si presenterà mai la decisione di scegliere tra lavorare e fare il musicista professionista" (e lo dice con un sorriso sincero più che con rassegnazione).E' indubbio che nello scrivere canzoni uno non porti solo il suo istinto o le sue sensazioni, ma anche tutto il bagaglio della propria formazione musicale, di ore e ore di ascolto. "Sono cresciuto con gli U2, gli Smiths, i Clash. Le band che più ti segnano sono quelle che segui nell'adolescenza e nella prima gioventù. Forse per questo la scena di Seattle mi ha affascinato poco, perché quando è esplosa ero già grandicello e non mi sono fatto trascinare da nessuna di quelle band, ad eccezione dei Pearl Jam che stimo e che ascolto. Mi piace sentire in Eddie Vedder l'influenza dei Ramones, degli Who, è così chiara, autentica. Lui riesce a fare "sue" quelle canzoni, non fa il verso a nessuno."E con le cover si cimentano anche i Ratoblanco.

Li abbiamo sentiti a Gualdo Tadino (posto difficilissimo da raggiungere indipendentemente da quale sia il punto di partenza, ve lo assicuro) insieme ad altre band in una serata organizzata da Altrocioccolato, associazione impegnata nella promozione del commercio equo e solidale che senza polemiche propone una manifestazione alternativa negli stessi giorni della perugina Eurochocolate. Il gruppo di Colle Val d'Elsa è il secondo a esibirsi in un Palasport fumoso e pieno per tre quarti. La loro esibizione è a dir poco convincente, vengono proposti buona parte dei pezzi dell'ultimo disco e un pugno di brani del vecchio repertorio (su tutte Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) e un paio di omaggi agli ispiratori della band (una London Calling venuta benissimo, pulita e appassionata).Senza atteggiarsi a improbabili divi (viziuccio condiviso a mio parere da molte band locali), con la dovuta sicurezza e un invidiabile senso della misura, questi cinque ragazzi fanno musica (in studio ma soprattutto sul palcoscenico) prima di tutto per divertirsi e divertire, poi per far sentire quello che hanno da dire, in modo diretto, semplice ma non banale.Lunga vita ai "Rato".

Chiara Giani