Davide Ettore Nosego - Three little shy samurai
Estate 1995, tre mesi passati trascinandosi a sgranare il tempo, distinguendo ancora le ore della giornata dove le 11 erano un arco temporale ben distinto dalle 12 e non come accade oggi dove tutto si riassume in lavoro e dopo lavoro. Il racconto parlerà di noi, versione sfigata del video “1979” degli Smashing Pumpkins, senza ragazze carine, senza auto e soprattutto senza feste di rednecks da rovinare con rotoli di carta igienica ma con una noia eccezionale e con una voglia di sfondare il vuoto spinto della nostra provincia cronica.
Dave, era già all’epoca un malinconico che a metà luglio si ritrovava a pensare di aver superato la metà delle vacanze e a soffrire per l’ineluttabile count-down verso la costrizione dell’educazione scolastica, Simù, di due anni più giovane, era il suo amico da sempre, da quando avevano memoria, avevano parlato di tutto, soldatini, fantasmi, vampiri, alieni, ragazze, di fughe, di fighe insomma di qualunque argomento fondamentale dai quattro ai sedici anni attuali. L’ultimo era il Gibo, conosciuto un po’ più tardi a seguito del suo trasferimento dalla città all’età di dieci anni e portatore di una realtà sconosciuta agli altri due. Stessa età di Simù, il Gibo aveva fretta di crescere come se qualcuno gli avesse promesso un premio all’arrivo, arrivo che però si erano dimenticati di dirgli quando sarebbe stato raggiunto. Tutti e tre vivevano in mezzo al niente, tanto che quando i compagni di scuola chiedevano alla fine delle lezioni come poterli raggiungere per una visita estiva, i tre rispondevano di arrivare alla fine del mondo e poi proseguire ancora per qualche chilometro. Una versione amara della seconda stella a destra di Peter Pan.
La provincia ha questo limite della distanza, dell’irraggiungibilità dei paesi vicini, tanto da costringere a disseminare le proprie mappe geografiche mentali con etichette
Ma l’oratorio non era cosa per noi, preferivamo essere fieri della nostra insicurezza di giocare senza conoscere il gioco, di ignorare chiunque piuttosto che vivere in un mondo costruito su misura dove il pericolo veniva segnalato con preavviso, dove esistevano regole che non ci si poteva permettere di rompere. Questo tende a isolare, costringe a cercare nuove vie.
Per noi la nuova via fu resa percorribile da un ritrovato della tecnologia, un motorino di cilindrata 50 cc di una marca sconosciuta con la scritta fiammante “Pettirosso” sul telaio. Non immaginate un cinquantino come il Fifty Malaguti o il Califfone, bensì un “bolide” con il serbatoio largo 50 cm, alto un metro con il fanale anteriore bruciato che tanto ci ricordava uno dei nostri film preferiti Dumb&Dumber (Scemo e più scemo). Era stato vinto dal padre di Simù ovviamente in una sagra del paese ed era rimasto inutilizzato per anni considerato che un vero paesano non ha bisogno di motori se non di quello del proprio trattore. Per noi però divenne fondamentale, era come una Harley Davidson per girare la California e Cumiana era la nostra San Francisco. Molto appariva risolto, il motore rombava come un calabrone intrappolato tra le tapparelle d’estate, aveva un’unica marcia a disposizione ma con un veloce movimento del polso destro, molto allenato a quell’età, era possibile dare più o meno carburante fingendo di cambiare marcia e noi ovviamente lo facevamo sempre.
Il nome stesso del mezzo farà capire al lettore che la struttura pativa già a trasportare una persona soltanto ma Pettirosso non osava opporci resistenza, sapeva di contare molto per noi, che eravamo in tre e troppo uniti e solidali per pensare di escludere qualcuno dall’avventura. Fu così che dovemmo passare alcuni pomeriggi sotto il sole ad allenarci per trovare una formazione aerodinamica adatta allo spostamento di un agglomerato di arti che tanto ci faceva sembrare una divinità indù protettrice di scellerati motociclisti. Dopo alcune rovinose cadute, sbucciature, slogature, risate e bestemmie arrivammo alla composizione definitiva: Simù era il prescelto per la gestione dell’accelerazione e decelerazione, Dave essendo il più alto faceva da struttura portante, depositando le sue gambe nel vano tra la sella e lo sterzo evitando in questo modo di frenare l’andatura appoggiando le pinne sull’asfalto, offrendo le ginocchia come sellino per il pilota ufficiale e le spalle come appoggio per il Gibo costretto a viaggiare in piedi sul braccio della ruota posteriore e impiegato, considerata la posizione, come piccola vedetta per segnalare l’arrivo in lontananza di auto.
La prima meta prescelta dal trio bulgaro fu una festa dell’Unità di un paese a cinque chilometri di distanza; il viaggio incominciava sempre con una lunga passeggiata di Dave e del Gibo per allontanarsi dallo sguardo di vicini e genitori che avrebbero così subito interrotto la nostra fuga da Alcatraz, seguiti a passo d’uomo dal motorizzato Simù. Appena possibile componevamo la struttura che si assemblava in movimento perché non era fisicamente possibile rimanere neppure un secondo in equilibrio senza che tutto il sistema fosse in moto. Così si partiva con Dave che spingeva con le pinne sull’asfalto, Simù eretto sul poggia piedi che accelerava dalla prima alla prima e il Gibo che con la sua corsa da orso zoppo attendeva un cenno per saltare sul telaio.
Non era poi così semplice.
Ci vollero svariati tentativi, tra lo stupore di chi assisteva, per iniziare a progredire a una velocità di poco superiore a quella del passo umano ma una volta partiti ci avvolse una gioia incontenibile, l’aria sulla faccia di tutti e tre, considerate le posizioni nessuno copriva l’altro, il procedere per le vie buie che si allontanavano dal paese ascoltando i rumori a noi familiari diventare via via più flebili, sforzandoci per sentirli fino all’ultimo per essere certi che davvero ci stessimo allontanando da quei luoghi. Niente non c’era più nulla, solo il fresco dell’aria sulla pelle, l’odore dell’erba tagliata nelle narici, la stessa auto celebrativa sensazione che prova un surfista a cavallo della sua onda tanto che ci aspettavamo che da un momento all’altro “Pettirosso” si staccasse da terra, d’altronde era evidente fosse nella sua natura. Non so se fosse la sensazione di essere autonomi o invece proprio di essere un gruppo, di essere parte di un’avventura come quelle dei Goonies o The Explorers che da bambini ci avevano catturato così tanto. Neppure gli insetti osavano ostacolare la nostra cavalcata, senza valchirie per carità, la velocità non permetteva tale solennità, scansandosi all’ultimo e spesso dando la sensazione di girarsi stupiti per verificare cosa fosse quella strano oggetto in movimento.
Questo racconto così breve è un’espressione del cuore in un momento particolare della vita, dove uno dei protagonisti è prossimo al matrimonio, passaggio così definitivo alla vita adulta da far riemergere i ricordi più dolci come un pallone di plastica immerso in profondità nell’acqua. Non starò a precisare chi dei tre ha fatto o sta per fare qualcosa, ma rifletterò su come quell’evento è tornato più volte nei nostri pensieri facendosi spazio nelle notti più difficili, per qualcuno guardando attraverso le sbarre di un carcere, per altri solo confrontandosi con responsabilità che in quelle sere d’estate non facevano parte della nostra natura. “Pettirosso” è certamente lì sommerso da scatoloni, utensili da lavoro e polvere che attende che qualcuno di noi lo vada a risvegliare per nuove incredibili avventure, ignaro di cosa siamo diventati.Il sottoscritto prosegue il suo personale viaggio, sentendo oramai soltanto brevi nostalgie e l’esigenza ogni trent’anni circa di scrivere poche righe su tre piccoli coraggiosissimi cavalieri intimoriti da qualunque aspetto della vita tranne che dallo scoprire le luci all’orizzonte e non riesce a smettere di sorridere pensando a ciò che eravamo, three little shy samurai.
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