Premio letterario 'Provincia cronica' prima edizione
Roberto Gennaro - Le fate tramandano
Venticinque anni, l’età giusta per staccarsi dall’unità familiare, dalle coccole di mamma, dai tempi di papà. Il lavoro andava piuttosto bene, le provvigioni sulla vendita e sulla locazione degli immobili in quei tempi di fervido mercato mi consentivano una solida tranquillità economica. In cinque anni di case ne avevo girate un sacco, e mentre le visitavo per il mandato o quando, successivamente, accompagnavo un potenziale acquirente, mi veniva naturale proiettare una mia ambientazione domestica in quei luoghi. Mi immedesimavo in un io a misura di quegli ambienti, come se fossero proprio quelli deputati ad accogliere il mio futuro nido. Il paragone con la vita vissuta con i genitori era altrettanto inevitabile, e fino al giorno galeotto in cui visitai la mansarda di vicolo Givello l’agio familiare l’ebbe vinta.
Accompagnavo una coppia di studenti della facoltà di Architettura, erano i primi di settembre e il loro vecchio padrone di casa li aveva cacciati per riaffittare l’appartamento ad un cugino della moglie. Pagavano la pigione in nero, senza un contratto da far valere le parole contavano ben poco. Avevano preferito non inveire contro di lui né piangersi addosso, risolvendosi a trovare al più presto, prima dell’inizio delle lezioni autunnali, un luogo in cui trasferirsi, magari comodo alla sede della facoltà. Avevo ricevuto il mandato per locare la mansarda del civico 5 di via Givello da una signora anziana che vi aveva abitato per cinquantasei anni. La salute e le gambe malferme non le consentivano di affrontare i lunghi e stretti rampanti delle scale più di una volta al giorno, e spesso era costretta a farsi portare la spesa a domicilio. Pressata dai figli, si era risolta a trasferirsi vicino alla dimora della più grande, un appartamento a piano terra in riviera, comodo a mezzi e servizi.
C’era stato un principio di battibecco tra noi: le avevo prospettato l’idea di vendere l’immobile per trarne benefici maggiori e più rapidi. Peraltro, ciò facendo, avrei ottenuto una provvigione più cospicua. Aveva replicato seccamente che la casa, eredità di sua nonna, non era vendibile finché lei fosse stata in vita. Successivamente i figli avrebbero disposto come più confaceva loro. Accettai il mandato per la locazione, fissai il mio compenso a trattative completate e le dissi che l’avrei chiamata quanto prima per portare potenziali affittuari a vedere la casa.
Pochi giorni dopo mi trovai con i due universitari davanti al vecchio portone dell’edificio, verniciato con uno smalto verde brillante che palesava l’insufficiente carteggiatura del sottostante antico rivestimento. Suonai alla signora, avvertita in precedenza, e salimmo quegli interminabili gradini in ardesia. Erano talmente consumati dall’usura da essere arrotondati sulla testa della pedata. In discesa si sarebbe dovuto prestare molta attenzione a non scivolare e mentre mi arrampicavo mi figuravo la proprietaria che affrontava quel cimento da così tanti anni, ogni santo giorno.
La mansarda era costituita da un soggiorno con cucina, una camera matrimoniale, una cameretta più piccola ed un minuscolo bagno. L’ambiente era ordinato e profumato, quell’odore di candeggina e sapone di Marsiglia di cui sono intrisi i pavimenti in mattonelle di cemento dei palazzi più vecchi del centro storico.
Notai che il soggiorno era illuminato da una porta finestra, chiesi il permesso alla signora e l’aprii, scoprendo un abbaino versante su un’ampia terrazza. La vista sul mare dominò i miei sensi, rapiti e catturati dalla luce del sole che era quasi al suo apice, erano le 11.30. La terrazza era contenuta dalle mura degli edifici adiacenti. Sui due lati contrapposti, più alti del suo livello di un piano, si scorgevano le ardesie di copertura degli altri tetti.
Un osservatorio tra un nido di tegole, quasi fosse l’obiettivo di un regista alla ricerca dell’inquadratura perfetta sul fronte del porto e più in là, verso l’orizzonte. Sconcertato per quello scorcio visivo, la percezione successiva fu il rapido cambiamento olfattivo, un nuovo profumo che si sostituì a quello delle cose pulite. Intenso, ma delicato. Sfiorava i sensi, avvicinandosi lento e poi scuotendoli violentemente. Attirava l’attenzione, distratta dalla vista sul mare. Direzionai il mio naso verso la fonte di quel profumo. Nell’angolo sinistro della ringhiera della terrazza vidi una pertica ed un tralcio sul quale era abbracciata una pianta che pareva rampicante, dai fiori violacei, un poco avvizziti. S’inerpicava affondando le radici in una grossa conca zincata riempita di terriccio, per metà incastrata nel solaio della terrazza.
Cercai nei gangli della memoria un nome per quella pianta, alle elementari avevamo organizzato un erbario e…sì! “Glicine!!” esclamai convinto, voltandomi verso la signora ed i ragazzi. Lei scoppiò in una risata ragazzina, e fece “Oh mondo, oh mondo!!” rovesciando il suo sorriso nella mia vergogna. Avevo toppato alla grande, lo riconobbi a me stesso e risi a mia volta, per contagio. “Giovane ragazzo di città!” interruppe la signora, “Quello non è glicine, anche se fa parte di quella famiglia di piante” continuò. “Probabilmente sei stato tratto in inganno dalla pertica”, cercò di giustificarmi, e mi spiegò che a differenza del glicine quella non era una pianta rampicante, era stata legata al tralcio da sua nonna che l’aveva trapiantata in quel luogo e di cui si era presa cura ogni giorno, per tutta la vita. Lei stessa l’aveva ereditata e se ne era presa regolarmente cura per tutti quegli anni. La potava periodicamente perché non si espandesse lateralmente offuscando la vista sul mare e non superasse il livello del tetto adiacente. La ringraziai per la spiegazione e a quel punto tanto valeva chiederle quale fosse il nome di quella pianta dal profumo di miele. “È Lillà, giovanotto. Syringa Vulgaris, o più semplicemente Lillà”. Compiaciuto dall’identificazione, il pensiero ritornò sulle sensazioni provate su quella terrazza. I clienti mi fecero cenno di scendere, salutammo la signora e rientrammo in agenzia. Mi dissero che l’appartamento era vecchio e scomodo. Non vollero sapere nemmeno la richiesta di pigione, li portai a vedere un altro appartamento del mio portafoglio trattative e concludemmo su quest’ultimo.
La sera, rientrando dai miei, mi figurai il tramonto visto da quella terrazza. Cambiai la mia vita nello spazio di pochi minuti, presi la decisione che tanto avevo rimandato e pochi giorni dopo affrontai il trasloco nella nuova mansarda. Trasportai solo le necessità personali, i mobili sarebbero rimasti in luogo, la proprietaria non aveva intenzione di tenerseli. Forse, nella sua concezione, essi erano casa quanto i muri dell’abitazione. Concludemmo il contratto, triennale. Dopo aver firmato la signora cavò dalla borsa due mazzi di chiavi, me le porse e sorrise. Non una risata come quella di simil derisione dovuta al misunderstanding sul nome della pianta, che ancora ricordavo. Questo era un sorriso compiacente, come quelli che le persone fanno quando sanno di aver agito seguendo il karma, sulla rotta del sentiero tracciato da un dito del destino nelle vicende umane. “Abbia cura del lillà” si premurò di dirmi, “è un esemplare molto antico e dà profumo e gioia nella misura in cui riceve”.
Faticai non poco ad abituarmi alla vita da single. Dopo un periodo di rodaggio raggiunsi ritmi di vita accettabili e mi organizzai in modo da non dover praticare le scale troppe volte in un giorno solo. Imparai a scenderle al volo, la paura di scivolare passò una volta constatata la misura delle alzate ed adeguato il ritmo di discesa. Comprai un divano da esterni, lo incastrai nel lato sinistro della terrazza, contro la pianta di Lillà, i cui petali sfiorivano lentamente decorando l’ecru del rivestimento in tessuto. La sera, fino a quando le temperature l’avevano concesso, ero solito sedermi sul divano a leggere uno dei libri della mia riserva. Ad ovest, destra della terrazza, il sole calava, ogni giorno sempre più vicino.
L’autunno era ormai inoltrato, il Lillà completamente sfiorito.
Passò l’inverno, più caldo di quelli passati, non nevicò neppure una volta. Gli affari stagnavano, la solita pausa dei mesi freddi. Il mercato si sarebbe ripreso al ritorno delle belle giornate più miti.
Una volta alla settimana andavo a cena dai miei, ma la loro non era più casa mia. Non sentivo più mie quelle stanze, quei profumi. Vedere i miei genitori era piacevole, ma tiravo un sospiro lungo dopo aver corso le scale ed aperto la porta della mia mansarda.
Verso la fine di febbraio, la mattina, facendo colazione, presi l’abitudine di monitorare la pianta di Lillà. Avevo cercato di curarmene sistematicamente, annaffiandola con regolarità e potando le appendici più lunghe nei tempi di luna calante, come mi aveva suggerito la padrona di casa. Volevo scorgere fin dal primo giorno il progredire della prossima fioritura.
Vidi le prime gemme diventare grappoli, poi la pianta si inebriò e fu il pieno sbocciar di colori e profumi. All’inizio della primavera la terrazza divenne un tripudio sensoriale, mi dava un equilibrio interiore ed una centratura rispetto all’universo mai provati prima di allora.
Il ventiquattro di marzo compii venticinque anni, festeggiai con una pizzata tra amici, poi ci trasferimmo in un locale a Levante. Passai il resto della serata a colloquiare con una ragazza di bell’aspetto, conosciuta su presentazione di uno dei miei amici. Discorsi saltellanti, briosi, ci scoprimmo nello spazio di poche ore, ed entrambi percepimmo quell’alchimia che albeggia solo quando due anime sole riflettono la stessa luce.
Mi offrii di accompagnarla a casa, abitava nell’entroterra. All’imbocco dell’autostrada cambiò idea: “Portami da te”.
Facemmo l’amore a lungo, traendo un piacere estatico e calmo, come il caos delle passioni fugaci e leggere, ma intrise dalla complicità di chi si conosce da molto ed usato tempo. Non riuscii ad addormentarmi. Poco prima dell’alba mi alzai dal letto ed andai alla finestra del soggiorno, l’aprii e uscii sulla terrazza.
Dopo tanti tramonti era giusto concedersi un’alba e il mattino successivo all’amore pareva dipinto a misura e compimento del piacere.
Un bacio sfiorato sulla spalla, si era alzata anche lei. Mi abbracciò da dietro intrecciando le dita sul mio petto e si appoggiò con la guancia contro la mia, ancora ispida di barba.
Sorse il sole, come un pulcino dal guscio uscì dal mare fradicio, poi si asciugò nel sereno, all’inizio dell’arco di quel giorno.
Fu ancora amore, sul divano esterno, sotto al Lillà.
Mi resi conto che in tutta la serata e la notte precedente avevo conosciuto tutta la sua pelle e soppesato compiacente le sue emozioni, fuse con le mie nell’istmo di sogno della perfetta identità, eppure non mi sovveniva il suo nome.
Lo percepivo fuggevole, un’eco lontana venuta dal mare, lo sentivo come conosciuto da lungo tempo, sicuro per i miei sensi come fosse un profumo già amico, di casa.
Glielo chiesi,con il timore di chi si appresta ad un ricordo.Mi rispose, con un bacio sussurrato a fior delle mie labbra: “Serenella"
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