Premio letterario 'Provincia cronica' prima edizione
Lorenzo Bianco - In un attimo
E mi sembra ancora il cortile vuoto, l’asfalto al sole … E’ una giornata troppo calda e ferma. Tutto sembra immobile. Mi asciugo la fronte e guardo il cielo, immutato pure lui. Penso a quelle nuvole lontane, soffiate da una brezza sconosciuta, penso che sono bianche e composte da minuscoli granelli di ghiaccio, ma il pensiero non riesce a rinfrescarmi.
Le scarpe di cuoio fregano rumorosamente sugli scalini. Sono arrivato. Poso la valigetta di pelle sul cemento fragoroso di silenzio e di sole.
Questo è il punto esatto dove è finita la mia infanzia.
A sinistra c’è ancora il balcone dove si affacciava la nonnina: minuta, appollaiata a un seggiolone, regalava caramelle e ghiaccioli alla rosa. Più in alto, gli altri balconi sono appesi e addormentati, ma vent’anni fa come ora ci sarebbe stato un ballo di vaporelle e l’aria sapeva d’amido. Le signore del palazzo si davano appuntamento per stirare, così i pettegolezzi rimbalzavano di ringhiera in ringhiera tra spruzzi di vapore. Mia madre aveva sempre la pila di biancheria più alta, Lucy la sua risata tonante. Al piano terra abitava Scotty, uno da cui si diceva dovevi stare lontano, uno che sarebbe diventato un delinquente, uno che alzava la mano. Noi ce ne fregavamo e ci giocavamo. Era poco più grande di noi e bello come in un telefilm americano.
E’ strano come si avverino le profezie di un paese. Eravamo entrambi ragazzi ma io ero quello bravo, che non può tradire. Lui figlio di un alcolizzato, destinato a fottere e rubare. Ora ho famiglia, due bambini, una moglie che giuro a me stesso di amare. Scotty è in galera per non sfuggire al destino. Se penso alla mia infanzia ho in mente solo lui, fino all’ultimo giorno quando nel mezzo del trasloco sono sceso ancora a salutare tutti. Ma non c’era più nessuno, né Michela, né Antonio, né Riccardo, né Andrea. Scotty era da un po’ che non si faceva vedere. E lì ho capito.
Sono rimasto fermo sotto il sole in questo stesso punto, al centro di tutto. Ho salutato le libellule imitando il loro planare, sono sceso col pensiero nelle cantine fino alla tana dell’orco e ho fatto un cenno a quell’occhio malefico, riverbero di luce tra le stanghe di un ombrello rotto. L’aveva scoperto Scotty. Abbiamo girato al buio il sotterraneo fino al ripostiglio in disuso del sottoscala. Ci volle entrare prima lui e ne uscì tremando. Credevo fosse uno dei suoi soliti scherzi. Così ci entrai anch’io e un occhio gigante, immobile mi asciugò in un brivido la voce. Anche i nostri genitori rimasero terrorizzati, prima di accorgersi dell’inganno. Scotty ha sempre adorato spaventarmi. Come quella volta che infilò la cassetta di Thriller nel mio stereo mentre dormivo: la porta scricchiolante e la voce di Vincent Price mi fecero urlare in piena notte, ma fu la prima volta che mi baciò. Così, di sfuggita, dicendo che era solo per farmi calmare.
Percorro col pensiero gli stessi spazi di quel saluto. Dietro i garage c’è ancora il muretto dove Scotty si arrampicava per le sue lezioni di sesso: slacciava i pantaloncini e tirava giù gli slip. “Questo è il cazzo” diceva. Poi con un gesto scopriva il glande “E questa è la cappella”. La didattica prevedeva ogni volta questo rituale perché ricordassimo bene i termini tecnici. Dopo ci raccontava dell’ultima scopata con qualche ragazza di città. Si soffermava sui preliminari e sui trucchi per portare una donna all’eccitazione. L’acrilico dei nostri shorts si gonfiava. Era un eroe. Il pioniere della nostra pubertà. Prima di arrivare al gran finale si accorgeva della mia mano infilata di nascosto a toccarmi. Allora ridendo diceva che ne avevamo a sufficienza e ci piantava lì con i nostri fusi eretti.
Dietro il cortile c’è un campetto da calcio con l’erba alta fino ai gomiti e un divano malandato sotto la quercia, dietro alla porta con la rete floscia. Lì talvolta al buio continuava in privato le sue lezioni. Diceva che dovevo imparare. Portava con sé il radiolone per fare atmosfera. Io mi ritraevo dicendo che avevo capito abbastanza. Ma avevo solo paura. Di innamorarmi troppo. Pensavo che per lui fosse un gioco. Io sentivo ardere le fiamme dell’inferno.
Una volta mise su Madonna, “Dear Jessie” e la musica tintinnava come le lucine del boombox. Tra elefanti rosa, caramelle e baci dolci sentivo che nessun discorso escatologico mi poteva afferrare. Lui continuava a parlare mentre pian piano mi abbracciava. Io guardavo le lucciole e le vedevo sciamare dai miei fianchi sulle mani. Quando mi baciò le posai sul collo e fra i capelli. Ci vedevo luccicare come santi nelle icone medievali. “Ce ne ho voglia” disse. E sembrava il mio “ti amo”. Non si ritrasse e disse che non mi avrebbe fatto male. Pensai che non poteva farmi male.
Eccoli i mie anni. E potrei pensarci per ore. E ancora. Forse ognuno, voltato l’angolo, trova lo specchio del suo passato. Esiste il momento esatto, il posto esatto, l’attimo per farlo affiorare. Il mio è su questo tombino di cemento in un cortile ingorgato di sole. Basta un po’ di immaginazione e rivedo le lucciole brillarmi attorno, un luccichio di ieri nel silenzio di oggi. Così, a ritmo, scintille e buio, io, come un albero di Natale fuori tempo.
Da bambino mia madre ci portava a vedere le lepri. Ci caricava sulla piccola Minitre Innocenti e sgommava verso la luna piena. Cantavamo “Quelle stradelle” o il “Tango delle capinere” mentre raggiungevamo il fiume. I leprotti sbucavano dai cespugli e si bloccavano di fronte ai fanali. Scotty diceva che eravamo una famiglia strana, ma non come la sua. L’amor non sa tacere, cantavamo. Mentre noi, zitti zitti, ci davamo la mano.
Se ora suonasse un clacson e mi voltassi, forse saresti tu in sella a una Ducati rossa. E mi diresti “ehi bancario! Vuoi liquefarti al sole?” e io non ti chiederei perché sei qui e come hai fatto, ma sorriderei e basta.
- Andiamo a vedere le lepri?
- Non credo … Non possiamo.
Ma perché non so, non lo ricordo.
- Ma io c’ho voglia!
- E’ presto. Non è ora.
Se ha voglia non resisterò.
- Ah già … a mezzanotte va …
- … la ronda del piacere …
Ridiamo entrambi.
- Su. Sali.
- Scotty, solo un attimo.
Mi volto verso il palazzo e mi chiedo cosa sparirà. Se Scotty alle mie spalle oppure affonderà il palazzo nel gorgo del tombino e farà buio tutto attorno. Mi fa male. Resto fermo. Mi lascio passare.
E mi sembra ancora il cortile vuoto, l’asfalto al sole. La prima volta che dentro fu “qualcosa muore”.
Semplicemente: bellissimo. Alcune immagini sanno di poesia. I "balconi appesi", il cemento "fragoroso di silenzio e di sole". Sono parole che penetrano, danno un imput all'immaginazione e la spingono dove l'autore desidera che vada, ma senza forzare la mano.
RispondiEliminaBravo!
G.