Premio lettarario 'Provincia cronica' prima edizione
Matteo Mantero - La notte che ci perdemmo nel bosco
Il buio si era fatto denso attorno a lui.
Per un certo tempo non fu sicuro di avere aperto gli occhi; per un certo tempo non fu sicuro di essere vivo o morto. Per un tempo successivo si rese conto di avere freddo.
Questo non bastava a fare di lui un uomo. Questo non distingueva ancora un sopra da un sotto. Questo non gli diceva in che direzione scorreva l’acqua.
Perché l’acqua scorreva e sulla cosa non vi erano dubbi.
Cercò di tirarsi a sedere, ma il mondo era un impasto uniforme di oscurità e da principio non gli riuscì di capire da che parte dovesse spingere. Come diavolo fosse girato.
Respirò e la cosa sembrò funzionare. Se non altro era un inizio.
Tentò di ricordare la definizione di essere vivente. Lo aveva studiato all’università, prima di decidere che l’università non faceva per lui. Era qualcosa riguardo al contrastare l’entropia e mangiare e riprodursi, così gli pareva. Comunque il respirare c’entrava in qualche modo. Il respirare faceva di lui un essere vivente.
Lo rendeva vivo. Almeno per quanto riguardava la definizione biologica della cosa.
Si concentrò su quello: era vivo, ancora una volta; e cercò di respirare regolarmente, riempiendo i polmoni sempre un po’ di più.
Pensò che avrebbe dovuto dargli giovamento, accelerare i processi del suo organismo; il sangue sarebbe scivolato nelle vene, rosso di emoglobina, avrebbe portato nuovi nutrimenti e pulito via le scorie. Precisamente quello che si dice andare contro il secondo principio della termodinamica. Il disordine dell’universo spontaneamente aumenta.
Respirare però risultò più difficoltoso del previsto. Sentiva un peso schiacciargli la gabbia toracica impedendone la piena escursione, polvere e terra gli finivano in bocca e nel naso ad ogni fiato.
Cercò di concentrarsi e dare un senso alle cose. Era avvolto in strati e strati di soffocante, oppressiva, immensa, piacevole ovatta.
Fu solo il dolore a dargli la risposta. Il dolore strappò l’ovatta portando con se la consapevolezza. Forse fu la consapevolezza a portare il dolore, quale fu la consequenzialità delle cose non è troppo importante. Si rese conto di avere una faccia e di averla ferita come da un mare di spilli. Sentì graffi e punture su tutto il collo e le spalle e capì di essere prono tra gli sterpi.
Cercò le braccia ed esse furono leste a rispondergli, come se fossero pronte da mille anni, un po’ intorpidite forse, ma consapevoli del loro compito prima di lui. Puntò le mani sul suolo e spinse quanto poteva.
In un attimo, senza poter dire di preciso quali muscoli avessero premuto, quali tirato, si ritrovò seduto sotto il grande pino.
Sbatté le palpebre, non era così buio come gli era parso da principio, si ripulì della polvere e degli aghi di pino che aveva conficcati un po’ dappertutto. Alcuni erano piantati così a fondo nella carne che tirandoli via sentì la pelle strapparsi e piccole gocce di sangue affacciarsi a chiudere le ferite. Lentamente i ricordi cominciarono a condensarsi nella sua testa, la realtà a farsi più distinta.
Era nel bosco, poco distante dal campo, sulla strada del fiume. Si alzò sulle gambe malfermo ed il grande pino gli dette una mano. Non aveva idea dell’ora né di come fosse finito lì. Gli pareva di ricordare che la sera prima aveva fumato oppio. La sera prima o un secolo non ne era certo, ma vedeva la pallina scura sciogliersi e sfrigolare sul pezzetto di stagnola fino ad emettere spirali ghiotte di vapore bianco.
Restò in piedi ed il pino, senza bisogno che lui lo chiedesse, impedì al mondo di ruotargli attorno. Il grande pino era un amico sincero.
Da lì, sul fianco della collina poteva vedere le luci di Savona fino al grande ovale dello stadio del calcio e dall’altro lato quelle di Vado e del suo porto che curvavano lente a descrivere la costa fino al promontorio di Bergeggi. Da lassù avrebbe potuto scorgere una nave scavalcare l’orizzonte. Le auto disegnavano l’autostrada in due corsie gialle e rosse pure in quel ora della notte, come se la vita non avesse mai riposo. Restò ad ammirare tutto quello sfavillare e correre, le navi in porto, la corona rossa delle ciminiere, il faro lampeggiante oltre la collina, mentre il tempo gli si dilatava attorno e la notte si faceva più tenue. Da quanto tempo non scendeva in città?
Spinse indietro la memoria come si fa con una porta dai cardini arrugginiti, la porta aprendosi gli mostrò il viso della nonna rigato di tristezza. Se ne stava sulla soglia della vecchia casa con la gonna lunga e la ramazza in mano a guardarlo andare via, ricco di pochi stracci e di una tenda rossa. La nonna aveva i capelli bianchi e le mani piegate dall’artrosi.
“Nel bosco?” Gli aveva chiesto. “A fare cosa?” A vivere, voleva rispondere, ma lei non avrebbe capito. Era una persona fuori dal tempo. Come tutti gli anziani si era ritrovata in un mondo che non riconosceva a chiedersi dove fosse finito tutto il resto. Non poteva comprendere il bisogno di immediatezza, la necessità di espansione, la frenesia. La costante corsa contro il tempo. Lei che impastava ancora il pane a mano, che aspettava il rintocco della piccola campana di ottone con la quale il nonno l’avvertiva che il forno era ben caldo e rosso, pronto per accogliere le su pagnotte. Lei che segnava con un pastello scuro il giorno di deposizione su ogni uovo di gallina; la vita di quei giorni non la poteva capire. E così non poteva capire il suo bisogno di andare via.
“È una vacanza nonna, una specie di vacanza senza spendere soldi.”
Lei aveva annuito secca, non era mica stupida la nonna, lo aveva capito dove andavano a parare, ma…
“Ma…gli esami, Giulio? Riesci a studiare uguale?”
Avrebbe voluto dirle di sì, che si portava i libri ed avrebbe trovato il tempo per studiare. Avrebbe dovuto dirle questo. Ma prima o poi si sarebbero scontarti, tanto valeva che fosse subito.
“No. Ho lasciato l’università, ho altri progetti…”
Gli era sembrato di percepire il dolore che le aveva causato, come uno spasmo sordo nella notte. Come un crampo durante il sonno. Era restata ferma appoggiata alla scopa di saggina, ma a lui parve di vederla barcollare.
Sapeva che aveva promesso alla mamma di farlo studiare, le aveva assicurato che si sarebbe presa cura di lui, e quella promessa era importante per lei più di ogni cosa. Ma la mamma era morta da tempo e questi erano i suoi giorni.
“Come…come mai? Sei così bravo.”
Giulio chinò la testa, sentì di averla gettata nella preoccupazione, di aver turbato irrimediabilmente i suoi ultimi anni. Così fece un sospiro, tornò indietro di due passi e stringendola a se le baciò la fronte. Erano anni che non le mostrava un affetto così fisico. Sorrise con tutta la sicurezza che riuscì ad esibire, conscio dei ruoli che si invertivano un secondo dopo l’altro.
“Non ti preoccupare nonna. Ho già trovato un lavoro per fine estate, ti racconterò tutto.” Le mentì.
La campana suonò poco distante e Giulio si voltò ad osservare il fumo grigio e bianco sparpagliarsi nel vento con una danza intricata.
“Vai nonna.” Fece lasciandola. “ Il forno è pronto, questa sera torno a prendere un po’ di pane.”
Così se ne era andato, un pomeriggio di aprile, mentre un caldo scirocco portava fin sulle colline l’odore del mare e delle terre straniere che ne disegnavano gli altri confini. Era dispiaciuto di averle mentito, ma era ora che la nonna smettesse di preoccuparsi per lui. Avevano la loro cascina, se ne erano occupati per più di mezzo secolo senza che nulla o quasi fosse cambiato. Ora c’era la tv ed un cellulare che non sapevano usare se non per chiamare lui, ma il resto era immutato. Certo la borgata si era svuotata. Molte delle case restavano chiuse se non per poche settimane all’anno. Molti dei vicini erano morti, i giovani erano fuggiti in città. Ma quelli che erano rimasti continuavano la loro vita come se nulla potesse turbarla, solo un poco più curvi ed un poco più stanchi. Quello era il loro mondo, pensava allontanandosi da casa, lui doveva trovare il suo.
Non riusciva a ricordare quanto tempo fosse trascorso da quel pomeriggio, senza l’assillo di orologi e calendari, i giorni avevano perso di significato, le settimane e i mesi si erano appiattiti. Faceva caldo, forse era luglio, forse già agosto.
Era capitato, al principio, che qualcuno dicesse “Oggi è sabato andiamo a ballare!” allora ritornavano a casa, a prendere una camicia pulita e qualcosa da mangiare, poi salivano in macchina, tutti e tre, ripuliti alla meglio e si dirigevano al Rench o allo Spider. A volte scendevano al mare fino ad Alassio, ma era durata poco. Un mese forse, poco più. All’inizio erano in tre nel bosco, con la sua tenda e un piccolo fornello a gas. Riccardo, Alfio e lui. Così capitava che avessero voglia di farsi un giro, di vedere altra gente, di incontrare ragazze.
Poi la voce della loro vita da bohème, senza orari e senza regole, si era diffusa; non si può dire che non ci avessero ricamato sopra, un po’ per fare colpo, un po’ per avere altro alcool da buttare giù, ma la cosa aveva preso piede ed altri amici si erano uniti a loro. Poi amici di amici, finché un giorno si erano ritrovati a divedere il fuoco con gente mai vista prima. Le ragazze non restavano mai più di una notte o due, salivano la sera, in qualche modo affascinate da questa loro ribellione silenziosa; portavano la birra, fumavano erba attorno al fuoco e si facevano scopare tra i cespugli.
Presto uscire dal bosco non era stato più necessario.
Una volta o due a settimana qualcuno scendeva a fare provviste, a cambiare i vestiti, ma lui cercava di evitarlo, lavava le sue cose al fiume con un pezzo di sapone e spesso se le faceva asciugare addosso. Viveva sospeso come in una specie di limbo, senza responsabilità né compiti, senza diritti né doveri.
Mancava da casa da una sacco di tempo e quando pensava alla nonna si sentiva in colpa. Più di una volta avrebbe voluto andarla a trovare, ma se lei lo avesse visto in quello stato, si diceva, sgualcito, con la barba lunga e gli occhi segnati si sarebbe preoccupata ancora di più. Così il tempo era trascorso, l’estate ormai inoltrata e l’egoismo di essere responsabile solo di se stesso aveva avuto la meglio sul tutto resto.
Cercò di riscuotersi, gli succedeva spesso che i pensieri se lo portassero via, lasciando un guscio vuoto alle prese con il mondo. Cercò di dare un senso alle cose. Era sulla strada per il torrente, tanto valeva andarci. Aveva la bocca secca ed impastata di un gusto amaro ed invadente. L’acqua fresca lo avrebbe dissetato e schiarito.
Incerto si staccò dal grande pino, il suo fratello dalle fronde ombrellate, e provò un paio di passi. La terra sembrò sussultare sotto i suoi piedi, come se fosse viva e si stesse contorcendo per un dolore. Forse soffre davvero, riuscì a pensare. Cercò di mantenere l’equilibrio, ma non appena voltò lo sguardo in cerca di un punto d’appoggio la realtà si mescolò in un turbine come i colori in un caleidoscopio. Si ritrovò carponi, lo stomaco che si contraeva in spasmi dolorosi, il sapore acido del vomito in bocca e nel naso. Credette di soffocare, invece l’aria ritornò a entrare ed uscire dai suoi polmoni tossita in sputi acidi e collosi. Giulio si accasciò a terra esausto, per un attimo ebbe paura. Paura di restare solo per sempre. Paura di non riuscire più a tirarsi in piedi. Paura di morire sopra ogni altra e c’erano tante cose ancora che doveva fare.
Sentiva il cuore martellare impazzito e tremava di freddo come vecchio rattrappito. Sarebbe morto di certo, con il cuore schiantato nel petto. Ci mise una mano sopra per tenerlo fermo, cercò di rendere il respiro regolare e calmo. Regolare e calmo.
L’aria gli feriva il naso irritato dai succhi acidi dello stomaco, ma lentamente tutto si fece più sereno.
In poco tempo si rese conto di essere uno sciocco, cercò di tirarsi su dalla melma in cui stava sprofondando, nessuno sarebbe morto quella notte nel bosco. Era stata la paura. La paura amplificata come da cento megafoni si era fatta enorme dentro di lui fino quasi ad ucciderlo davvero.
Aprì gli occhi. Tenersi calmo era la cosa migliore. Respirare e tenersi calmo. Svuotarsi lo stomaco lo aveva liberato di un numero di cose schifose.
Lentamente si sentì più saldo.
Lentamente strisciò in ginocchio.
Lentamente si aggrappò alle fronde scure di un cespuglio.
Con cautela fu in piedi. Il resto sembrò mantenersi fermo.
Cominciò a muovere passi incerti verso il fiume. Poi via via più sicuri. Anche se la testa aveva smesso di girare ed il cuore tormentargli il petto, la paura che aveva provato era rimasta come testimonianza di un fine possibile. Un pensiero gravava fisso la sua testa, con il costante spingere di un sapore cattivo, come la lama di un coltello. Se fosse stato male davvero? Se il suo cuore si fosse rotto sotto l’impulso di una dose sbagliata? Se fosse caduto in qualche fosso, in preda alle allucinazioni o al panico? Chi si sarebbe accorto di lui?
I corvi, solo i corvi per banchettare con i suoi resti. L’immagine dei pennuti neri, con il becco lordo di sangue affondato nelle sue carni indifese coprì ogni altra. Rabbrividì.
Ci volle tempo e fatica e strade sbagliate per arrivare al fiume, poi il fruscio dell’acqua sulle pietre gli fece da guida e presto poté affondare il capo nel liquido ghiacciata.
L’acqua lavò via un po’ tutto. Il sonno, la paura, la sete. Si sedette grondante sulla riva del piccolo torrente e lasciò che il tempo passasse.
Il corpo di nessun nemico spuntò gonfio d’acqua, ma la notte si fece più chiara come i suoi pensieri.
Chiuse gli occhi e appoggiò la testa su una pietra coperta di muschio asciutto. C’era un profumo umido nell’aria, di luoghi sconosciuti, di valli nascoste, riparate dal sole. Si perse nello sciacquio del torrente tra le pietre, nei fruscii del vento. Rumori che poco prima non aveva notato ora erano quasi assordanti. Si sentì sciogliere. I cespugli scricchiolavano dei passi di piccoli roditori. Gli uccelli tra gli alberi festeggiavano il primo sole che veniva a ridare colore alle cose. Pensare di rinunciare a tutto questo era un grave peso. Pensare alla gente svegliata ogni mattina dal cellulare sul comodino o dal camion dei rifiuti in strada, al tempo che non è mai abbastanza, ai soldi che decidono ogni passo, lo faceva stare male. Aveva provato quella vita e non ci poteva tornare. Eppure cominciava a sentirsi randagio. E solo.
Si tirò in piedi stringendosi nella camicia sporca, il freddo della notte gli era entrato nelle ossa e lo scirocco che arrivava in corte raffiche tese non portava ancora il calore del sole. I capelli bagnati presero a gocciolargli lungo la schiena e sul petto, cominciò a tremare.
Un passo dopo l’altro risalì il pendio, cercando di riempirsi gli occhi del colore dell’alba. Era come se tutto fosse bagnato d’oro, le foglie di un corbezzolo gli restituivano riflessi di fuoco. Sapeva a cos’era dovuto quel fenomeno, aveva studiato ottica a scuola, ma questo non riusciva a renderlo meno estatico. In breve fu sul pianoro, i cespugli e le giovani querce creavano un cerchio tutto attorno al grande pino, come se volessero tenersi a distanza in segno di rispetto. Giulio si diresse deciso verso il tronco piegato dal vento. Il sole gli fu subito addosso, battezzava la radura dardeggiando intricate ombre tra gli aghi del pino.
Si sedette, la schiena poggiata contro la corteccia screpolata, lasciò che i raggi gli battessero sul corpo, sulle braccia e sulle palpebre chiuse. In breve sentì il freddo fuggire via e la pelle farsi tesa e bruciante. Restò disteso, il sole disegnava immagini rosse sulle palpebre abbassate.
Per un certo tempo riuscì a non pensare a nulla. Rimase sospeso nella mattina nascente. Come una lucertola, si disse. È facile la vita delle lucertole, non devono neppure preoccuparsi di scaldare il proprio sangue, il sole ci pensa al posto loro; sanno arrampicarsi sui muri caldi delle case come se fossero il suolo e farsi ricrescere la coda se l’hanno perduta. Desiderò essere una lucertola con tutte le forze che riuscì a trovare, nessun altra scelta se non vivere o morire. Poi si arrese sapendo che il desiderio non si sarebbe realizzato e lentamente si rimise in piedi.
Si avviò verso il campo a passo sicuro. Si sentiva bene, i pensieri erano leggeri dentro la testa. Trovò le tende immerse nella penombra.
Il campo era silenzioso e multi colore. Contò dodici tende e tre mucchi di cenere grigia che erano stati altrettanti fuochi la sera precedente. Cauto si avvicinò alla tenda rossa mezzo afflosciata al centro dell’accampamento. Dovette schivare quelli che dormivano all’aperto avvolti in sacco a pelo di vario colore o in vecchie coperte da alpino. Una ragazza dai capelli ricciuti stava rannicchiata accanto al resto di un fuoco come un animale randagio, la pelle abbronzata delle gambe era accapponata e aveva le mani strette sulla ginocchia per farsi ancora più piccola, nessuno aveva pensato a coprirla.
La aggirò avvicinandosi alla tenda che era stata il suo tetto per diversi mesi, entrò mettendosi carponi.
Riccardo respirava a bocca spalancata girato su di un fianco. Il sonno teneva le sue membra.
Giulio recuperò velocemente il sacco a pelo ed alcuni indumenti, cercando di fare il minor rumore possibile. Orami aveva deciso. Senza un vero motivo. Voleva andare via e senza dare spiegazione; non ne aveva. Infilò le sue cose nello zaino, poi si ricordò del quaderno delle poesie, doveva essere da qualche parte, forse tra le stoviglie. Riuscì a trovarlo dopo pochi minuti, nero e piccolo, con i bordi della copertina consumati e ritorti e la corta matita rosicchiata infilata in mezzo alle pagine fitte di parole e disegni. Aveva tutto, ora poteva andare. Cominciò ad arretrare, ma proprio in quel momento Riccardo si voltò con un grugnito sbattendo gli occhi lacrimosi e rossi.
Luca sussultò come se lo avessero colto a rubare, fece un respiro e parlò deciso.
- Me ne vado.- Disse semplicemente.
- Ok.- Prese atto l’altro e tornò a voltarsi tirandosi la coperta sopra la testa.
Luca restò quasi deluso. Poi sorrise, forse più tardi Riccardo avrebbe assimilato la notizia. Forse no. Comunque lui era libero.
Uscì dal campo con passi leggeri, scivolò lungo il sentiero verso la strada. Il suo cervello turbinava. Ancora un volta era tempo di cambiamenti, ancora un volta non aveva le idee chiare. Ma di una cosa era certo, era ora di uscire dal bosco. Di affrontare le cose. Tornare in città non se ne palava, c’erano troppe regole a cui assoggettarsi, una per ogni passo compiuto. Come al solito non riusciva a vederlo il suo futuro. Tutto era avvolto in una coltre grigia, in un riflesso argenteo. Forse sarebbe stato poeta, forse contadino. Aveva tempo per trovare un destino da darsi. Qualcosa da fare lungo il cammino. Ora non ci voleva pensare..
Gli ci volle più di un ora per arrivare alla strada d’asfalto. Osservò il sole salire deciso, per mezzogiorno, si disse, sarebbe stato a casa. Strizzò gli occhi sulle colline cercando di distinguere la cascina dei nonni tra le altre. Cercando di scoprire il filo di fumo bianco che si levava dal forno.
Sperò che fosse domenica, il giorno in cui la nonna coceva il pane. Lo sperò così tanto che gli parve di sentirne il profumo nell’aria.
Respirò a fondo, non desiderava altro in quel momento che ascoltare il nonno raccontare le sue storie addentando un pezzo di pane appena sfornato.
Nessun commento:
Posta un commento