Premio letterario 'Provincia cronica' prima edizione
Marco Amalfitano - Killing Joe
Dal finestrino non si vedevano che risaie. Non che la cosa mi disturbasse particolarmente, ma le tanto amate mura domestiche erano davvero un’altra cosa. Cosa diamine ci facevo su quel treno? Me ne stavo così bene tra chitarre incazzate e tastiere lisergiche… Per me la domenica pomeriggio ha semplicemente due significati: vecchio impianto hi-fi in grande spolvero e pagina 202 di televideo. Il primo rigorosamente monopolizzato da una interminabile successione dischi rock anni ’60-’70, il secondo a celebrare l’ennesima, immancabile giornata di campionato. Da almeno vent’anni questo rito mi tiene letteralmente in pugno, oltre a preservarmi dalle agghiaccianti “vasche” in centro, epicentro vitale delle domeniche di provincia che si rispettino. Ma Fausto, Joe per gli amici, non lo vedevo veramente da troppo tempo, perciò gli erano stati sufficienti tre minuti di telefonata per farmi venire i sensi di colpa. Sensi di colpa rapidamente svaniti non appena mi aveva annunciato di avere delle nuove idee dalle quali sarebbero potuti scaturire dei racconti da sottoporre alla mia attenzione.
Nonostante Joe sia un ingegnere al servizio delle multinazionali ha un unico vero sogno nel cassetto. Vuole diventare uno scrittore e partecipa a tutti i concorsi che misteriosamente gli capitino per le mani. Joe non è altro che l’amico storico per eccellenza, quello con cui il destino ha voluto che condividessi qualunque cosa dagli zero anni in poi, compreso il pied a terre milanese adibito a campus per gli studi universitari. Quello che hai avuto vicino sempre, anche quando forse ne avresti fatto volentieri a meno. Le nostre strade si separarono dopo la laurea. Preso l’agognato pezzo di carta da Milano ero letteralmente fuggito, mentre lui aveva trovato un lavoro con stipendio da nababbo rimanendo di conseguenza lì. Qualche mese fa il colpo di scena: la sua azienda lo aveva trasferito da Milano a Vercelli, cancellando così dal mio inventario di scuse quella che utilizzavo maggiormente per giustificare lo scarso numero di presenze presso la sua dimora. Ora non avrei più potuto liquidarlo con un banale “odio Milano”. E come se non bastasse Vercelli è dannatamente vicina a Novara, la mia città. Un misero quarto d’ora di treno tollerabile anche da una persona pigra come me.
Comunque sia, non sarei dovuto salire su quell’ammasso di ferraglia lanciato contro stormi di zanzare e con tutta probabilità diretto verso ore ed ore di logorrea. Il treno era partito da neanche cinque minuti e avevo già il voltastomaco. Mi alzai per setacciare i vagoni alla ricerca di qualche persona con cui condividere la mia sventura, ma ben presto dovetti arrendermi alla prospettiva di dover passare i successivi venti minuti da solo con me stesso: ero finito su un convoglio fantasma, non c’era traccia neppure del controllore. Dell’insormontabile ammasso di carne umana che è possibile osservare su quei vagoni tutte le mattine della settimana lavorativa non c’era neanche l’ombra lontana.
Joe aveva trovato un monolocale in affitto all’interno di una vecchia palazzina immersa nel bel mezzo delle risaie, appena fuori città. Distava più di mezzora a piedi dalla stazione: un motivo più che valido per continuare a lamentarmi. Mentre mi trascinavo in una marcia forzata verso quella meta desolata, nella mia testa non facevano che rincorrersi le solite ossessioni. Trent’anni che sembravano buttati nel cesso, una laurea in filosofia che non era buona nemmeno per pulire i pavimenti e tre lavori cambiati negli ultimi nove mesi. Magazziniere, telefonista di callcenter e addetto al volantinaggio per una banda di usurai camuffata da agenzia dei prestiti. Stesso risultato in tutti e tre i casi: dimissioni per incompatibilità caratteriali con il datore di lavoro.
Non appena arrivato a destinazione, notai che davanti al portone di Joe troneggiava una gigantesca cacca di cane. - Dio esiste - pensai. Il padrone di casa fece capolino da una finestra ancora prima che potessi suonare il campanello. - Alla buon’ora! - fece stizzito.
- Alla buon’ora un cazzo. Cara grazia che mi sono mosso dal letto. Questo menhir qua fuori è opera tua?
- Sospetto che sia un regalo del cane del mio vicino. E’ già la terza volta, inizio a pensare che lo faccia apposta.
- Gli hai letto uno dei tuoi racconti?
- …
- A giudicare dalle dimensioni devi avergli letto quantomeno un romanzo!
Entrai in casa alla ricerca disperata di una radio. Secondo miei calcoli mancavano circa cinque minuti alla fine delle partite.
- Che fine ha fatto la radio?
- Si è rotta
- E la tv?
- Ho nascosto il cavo dell’antenna – comunicò Joe con l’aria di chi la sapeva lunga – E’ l’unico modo per riuscire a comunicare con te di domenica pomeriggio.
Avrei voluto cavargli gli occhi, ma d’altra parte me l’aspettavo. - Hai almeno da fumare, odiosa testa di cazzo? – chiesi agitando un pacchetto di cartine.
- Chiedi allo zio Jim e ti sarà dato - disse indicandomi un barattolo raffigurante il volto di un sognante Jim Morrison. Lo aprii e non potei fare a meno di notare che al suo interno c’erano almeno dieci grammi di erba.
- Vedo che il vecchio Joe si è dato allo spaccio…
- Dalla mattina alla sera combatto con i peggiori stronzi del pianeta. Pensare che a casa troverò quel barattolo mi permette di restare sano di mente.
- Cambiare lavoro non è un’opzione ragionevole?
- Mi pagano troppo bene. Finchè non scrivo un best seller devo andare avanti.
- Allora tagliamo corto.
- Posso iniziare? – chiese Joe, brandendo trionfante una pila di fogli scritti a mano.
- Ho forse scelta?
- Non credo proprio.
- Ecco. Almeno sii sintetico, te lo chiedo per pietà.
- Dunque…La storia è ambientata all’interno di un enorme studio legale. A dirigere le danze c’è un adiposo avvocato, che nell’ambiente tutti chiamano Napoleone; è un uomo che nonostante i settant’anni compiuti non riesce ancora a porre freno all’avidità che assedia ogni secondo della sua vita. Ha vissuto un’esistenza traboccante di successi e ricchezze ma affronta ancora ogni giornata come se avesse tempo fino a mezzanotte per racimolare i soldi necessari a pagare il pizzo a qualche sanguinario cassiere della mala, pena l’amputazione degli alluci. Oltre al fruscìo delle banconote c’è qualcos’altro che lo ossessiona: sa perfettamente che neanche tutti i soldi del mondo potranno restituirgli la giovinezza. Il suo corpo si è ormai trasformato nella più atroce delle beffe ed ogni mattina al risveglio non fa che annunciargli nuovi acciacchi. Ma il destino gli ha riservato un asso nella manica: il clamoroso surplus di giovani neolaureati in giurisprudenza. Tutti alla disperata ricerca di un prestigioso studio legale all’interno del quale farsi le ossa. Con il passare degli anni è arrivato a collezionare la bellezza di trenta praticanti, guadagnandosi lo status di multinazionale del foro. Ogni apprendista ha una mansione. C’è chi si occupa dei ricorsi, chi delle querele; l’addetto ai processi penali, quello alle cause civili e così via, a seconda dei giudizi che il capo appioppa all’intelletto dei suoi sottoposti.
Scossi la testa sbuffando. - Una storia di avvocati…Spero che entrino in scena quanto prima almeno sei o sette dive del porno sennò me ne torno a casa – commentai rollando la prima sigaretta.
– Ma adesso viene il bello – rispose Joe con il solito sorrisetto ammiccante – Ora subentra il nostro protagonista…ovvero Tito! Si tratta di un giovane dottore in legge apatico e con il vizietto della marijuana. E’ consapevole di avere sbagliato completamente facoltà, ma ormai la laurea è lì e bisogna farne qualcosa. Così si presenta al colloquio col vecchio alle nove del mattino, per essere assunto come praticante, dopo una notte di bagordi indegni, facendo il suo ingresso nella sala reale con un pallore quantomeno interessante. Napoleone, restando seduto dietro la sua scrivania, lo battezza dopo neanche cinque secondi. “Non solo hai l’aria di uno che non sa un cazzo…hai anche l’aria di chi non vuole fare un cazzo”, gli comunica sprezzante senza alzare il doppio mento dal pc portatile. “Ma si dà il caso che oggi sia il tuo giorno fortunato. Non ho più l’addetto alle corrispondenze e purtroppo gli atti non vanno a depositarsi da soli in cancelleria. Sarà la contropartita per tutto ciò che avrai l’occasione di imparare nello studio più importante della città. I soldi veri li guadagnerai quando sarai un avvocato”. Il neo praticante-postino annuisce fissando sul tappeto quella che somiglia ad una grossa macchia circolare di ketchup.“Da domani ti voglio qui dalle otto di mattina alle otto di sera”, gli intima il vecchio. “In condizioni decorose mi auguro”.
Joe si interruppe e rimase a guardarmi con un’espressione che implorava approvazione.
– Sbaglio o è l’ennesimo racconto che come protagonista ha qualcosa che assomiglia ad un perdente? – chiesi con aria inquisitoria.
- Ormai dovresti sapere che i miei racconti pullulano di eroi negativi, inadeguati alla lotta per la vita. Non a caso, sin dal primo momento, Tito si sente un corpo estraneo all’interno dello studio legale e non riesce a socializzare con gli altri praticanti che sono completamente diversi da lui. Passa le sue giornate a scrutarli come un perfetto infiltrato, analizzando volti, movenze e posture. Non si sforza di conoscerli perché le facce e gli atteggiamenti nascondono già il futuro di ciascuno di loro. Dietro quel calderone di cravatte e completi gessati si cela l’umanità più varia. Ci sono quelli col mascellone squadrato e la schiena sempre dritta, i classici squali che seguiranno le orme del capo. Tutte quelle facce lucide di dopobarba e ballonzolanti come medaglie su divise di alti ufficiali avranno dei lauti conti in banca a certificare la loro esistenza. Ma c’è anche chi non andrà mai al di là dei mille euro al mese perché non riesce a convincere neanche sua madre di essere un avvocato, figuriamoci un giudice. C’è il neolaureato con gli occhialini, la testa sempre bassa e la faccia da scemo ancora martoriata dall’acne nonostante i ventitré anni suonati che non passerà mai l’esame di stato perché troppo emotivo. E naturalmente c’è anche chi, come il nostro protagonista, non finirà neanche il tirocinio. Mentre lui utilizza la pausa caffè per andare in stazione a cercare un pusher che gli venda dell’erba, gli altri sognano di fare carriera e di costruire un deposito pieno di dollari in cima ad una collina. I loro sordidi obiettivi rendono del tutto sopportabili le angherie di Napoleone, che nel lento dipanarsi di ogni giornata lavorativa non fa che ostentare un uso sproporzionato della forza. Ha un motto che ripete a ciascuno di loro dalla mattina alla sera: “Ai vostri occhi sembro un patetico vecchio. Ma ho potere e ricchezze. Voi invece non siete un cazzo”.
- Qui devo interromperla signor narratore – annunciai agitando l’ennesima sigaretta – Il suo romanzo si sta tuffando a piedi pari nella fantascienza. E’ impossibile che su trenta e passa anime costrette a lavorare senza stipendio non ci sia neanche un tizio che tenti il colpo di stato. O che molto più pragmaticamente ficchi un tagliacarte nella gola del vecchio.
- Saggia osservazione. Ma ormai dovresti aver familiarizzato col fatto che nelle mie storie mancano del tutto anche persone pronte di spirito. Comunque la storia sta per avere una svolta – ammiccò Joe nutrendo di dosi ulteriori il mio odio nei suoi confronti.
- Più che altro spero che stia per avere una fine. Cosa accadrà di così mirabolante? Il praticante annuncia le dimissioni e va a lavorare come portiere notturno in un ostello di Copenaghen?
- Innanzitutto ci mettiamo in mezzo una storia d’amore platonico, costellata di patetismi ed imbarazzi. Il protagonista si innamora di Livia, la tizia addetta ai pignoramenti, una donna dalla faccia slavata e gli occhi tristi, di un paio d’anni più grande di lui. Naturalmente non riesce neppure a chiederle di andare a bere un aperitivo a fine giornata, nonostante ogni mattina si presenti in ufficio con l’unico obiettivo di proporle l’invito, dopo ore di esercitazioni casalinghe davanti allo specchio.
- Ho capito perché non vinci i concorsi letterari, Joe. Finchè le tue storie saranno infarcite di persone costruite a tua immagine e somiglianza non potrò biasimare quel lettore incapace di superare la terza pagina.
- Non vinco i concorsi perché scrivo di merda. Ma questa storia diventerà un best seller.
- Va bene Joe. Precarietà, amore platonico e ridicoli completi gessati. Poi che diamine accade?
- Te la faccio breve. Con il passare dei giorni Tito si accorge che i suoi colleghi diventano sempre meno numerosi. All’inizio non ci fa caso. Ma gli uffici poco a poco si svuotano e nessuno riesce a spiegarsi il motivo di quelle assenze. Il vecchio invece diventa sempre più grasso e intrattabile. Tito comincia tra l’altro a pensare che il fumo stia iniziando a procurargli le allucinazioni, dato che ormai Napoleone nelle sue fugaci comparse assomiglia sempre meno a qualcosa di umano. Arriva al punto di convincersi di avere completamente perso il senno, oltre a credere di essere l’unico a vedere il suo capo sotto forma di un’ incredibile, inverosimile piramide di grasso. Per qualche settimana ipotizza che l’avido ammiraglio sia caduto in disgrazia perdendo prestigio e clienti e che sia quella la causa del fuggi fuggi generale. Il ragionamento in effetti fila: la cariatide del foro si sta sgretolando, i suoi uomini abbandonano la nave che affonda e lui per dimenticare dedica anima e corpo al cibo… Eppure gli pare che qualcosa continui a non quadrare… Il vecchio d’altronde non è il tipo da ridursi sul lastrico per riempire il suo stomaco di unte leccornie. Durante una delle sue notti insonni il praticante ha finalmente un lampo di genio inatteso, un’illuminazione che gli porge su un piatto d’argento la verità nuda e cruda, facendolo scattare dal letto come una molla impazzita: quella strana macchia di ketchup sul tappeto napoleonico nel giorno del colloquio...altro che ketchup…”Ho capito dove finiscono i praticanti”, sussurra al mozzicone dal sapore dolciastro che stringe fra le dita. “Domani col cazzo che vado a lavorare”.
Confesso che rimasi stupito anch’io, ma camuffai alla grande lo sbigottimento. - Un epilogo a dir poco splatter. – commentai con una smorfia - E la tizia addetta ai pignoramenti? Viene lasciata al suo culinario destino?
- Eh no…Dopo un paio di giorni di assenteismo, mosso da impeto eroico ed anche da qualche senso di colpa, Tito decide di tornare in ufficio solo per salvarla dalle fauci avvocatesche. Si precipita allo studio legale nel bel mezzo di un pomeriggio di grandine, sperando che gli ultimi banchetti abbiano risparmiato almeno la giovane donna. Appena si lascia la porta alle spalle, realizza di essere immerso in un contesto surreale. Non sembra esserci anima viva e regna un silenzio assordante, rotto solo saltuariamente dal ticchettio metallico di qualche chicco di grandine che spinto dalla foga del vento va a rimbalzare sulle ringhiere delle balconate. Ben presto le sue narici si impregnano di un odore caldo ed assuefacente, simile a quello di una marmellata lasciata a bollire sui fornelli. A quel punto si mette alla frenetica ricerca della donna, setacciando il labirinto di uffici deserti, illuminati dal solito insopportabile candore elettrico di neon a basso consumo. Per terra ci sono fogli e fascicoli di cause sparpagliati ovunque, mentre la moquette è letteralmente costellata di quelle famose macchie circolari di “ketchup” che nel frattempo si sono moltiplicate a dismisura ed hanno anche notevolmente allargato il loro diametro. Quando ormai sta pianificando una rapida uscita di scena, dall’ultimo ufficio, proprio quello adiacente alla stanza del capo, spunta la sagoma di Livia. E’ china sulla parte bassa della libreria a riordinare i fascicoli dei pignoramenti come se niente fosse. Lo sfattissimo praticante trova il coraggio per invitarla al bar a prendere un the caldo per portarla il più lontano possibile da lì e raccontarle solo in un secondo momento che il vecchio ha mangiato tutti e non vede l’ora di ingurgitare anche loro. Mentre stanno per abbandonare lo studio scoprono però che la porta principale è stata chiusa a chiave. E proprio in quel momento una voce tuonante rimbomba per tutto l’edificio rimbalzando nelle loro orecchie come un assordante anatema. “Le ultime giovani promesse del più importante studio legale cittadino sono convocate d’urgenza dal loro amorevole maestro. Abbandonino dunque qualunque patetica aspirazione di fuga e si rechino nella sala del trono senza tergiversare, altrimenti mi si scuotono i nervi. E se mi incazzo mi aumenta l’appetito”. Era la voce del vecchio che veniva dalle casse della filodiffusione poste sul soffitto. Suonava meccanica e gutturale, sinistra come una condanna.
- Non sono più tanto sicuro di voler sapere come va a finire il libro.
- Ma ti perdi il meglio!
- Conoscendoti posso immaginare.
- Immagini giusto. Finisce malissimo.
- Un'altra costante delle tue storie. Ci vai ancora dallo psicologo, Joe?
- Ma che psicologo, non serve a un cazzo – rispose Joe, appoggiando sul divano il prezioso manoscritto – Secondo me è questo posto che mi mette la tristezza addosso. Si vede che non sono tagliato per le risaie. Non mi sento più bene neanche quando fumo, ormai mi viene l’ansia due volte su tre. Forse dovrei solo andarmene da qui. Andarmene il più lontano possibile.
- Vuoi dirmi che quando eravamo di una decina di anni più giovani e vivevamo a Milano era diverso?
- Almeno non ero intrappolato in questa cavolo di provincia cronica, dove il massimo che possa succederti è che il cane del vicino ti caghi davanti alla porta di casa.
- Si certo. Ricordo quanto era diverso. Ricordo anche l’entusiasmo di quando finimmo il liceo e pensavamo a come sarebbe stata la vita da universitari. Se non sbaglio l’obiettivo era quello di conoscere un sacco di gente, cambiare una compagnia a sera ed avere le ragazze più belle della facoltà. Per farla breve c’era da spaccare il mondo. E invece com’è andata a finire?
- Non lo so. Credo di averlo rimosso.
- Tornei di calcio alla playstation e canne. Ecco com’è andata. Ogni maledetta sera a dirci c’è la svolta, si esce, si fa il giro dei locali... E poi? Per un motivo o per l’altro alle quattro del mattino si era ancora davanti alla tv con un joystick in mano, gli occhi sbarrati e l’espressione da ebeti.
- Dolci ricordi.
- Si dolcissimi…Sai qual è la verità? E’che siamo ridicoli. Ci saremmo rotti le palle anche a New York o a Parigi. Siamo fatti così. Neanche il sessantotto ci avrebbe dato stimoli. Saremmo riusciti a bruciarci il cervello con gli acidi ancora prima di gridare alla rivoluzione. Non è la provincia che è cronica. E’ cronica questa sorta di resa senza motivo. Ti sei mai fatto un esame di coscienza su quegli anni sprecati da perfetti idioti?
- Diciamo che su questo punto ho avuto modo di interrogare il mio super-io. Con il risultato che l’ho sbattuto in gattabuia dopo neanche cinque minuti. Però tu esageri come al solito…
- Ah già…Scusa…Due concerti all’anno andavamo a vederli. Possibilmente stando sul reggae così c’era modo di trovare il fumo anche per terra.
Joe rimase a fissarmi pensieroso per un attimo. - Però te li ricordi quei tornei alla “play”? Ci credevamo proprio… Si finiva sudati come se in campo ci fossimo stati noi! Poi il bello era che si sceglievano tassativamente solo squadre scarsissime del Sud America, sennò non si giocava.
- Cavolo se me lo ricordo… Tutte quelle finali perse contro la Germania. Con quel maledetto di Oliver Kahn che le parava tutte, potevi tirare in porta anche cento volte ma non c’era verso.
- Sai una cosa?
- Dimmi.
- Di là sotto il letto la play ce l’ho ancora…Ce la facciamo una partitina?
- Ma vai a cagare Joe. Domani mattina devo andare a cercarmi un lavoro. Non posso correre il rischio di essere ancora davanti a Oliver Kahn alle tre di notte.
- La prossima volta però un mondiale con il Perù ce lo possiamo fare!
- Ciao Joe, stammi bene – mi congedai precipitandomi verso la porta di casa - Cerca di uscire da queste quattro mura ogni tanto, non hai una gran cera.
Lasciarmi alle spalle la cupa atmosfera del monolocale di Joe fu a dir poco liberatorio. Da almeno tre anni, ogni volta che lo andavo a trovare, finivo col tornamene a casa con un groppo alla gola e dosi massicce di paranoia senza riuscire neanche a comprenderne il motivo. Ma proprio mentre mi lasciavo andare in un enorme sospiro di sollievo, scivolai su qualcosa di molle e, ancor prima di capire cosa stesse succedendo, mi ritrovai steso a terra pancia all’aria. Mi ero dimenticato di quella gigantesca cacca di cane e ora me la ritrovavo su tre quarti di scarpa e pure sulla caviglia dei jeans. Dopo essermi rimesso in piedi, accesi un’ultima sigaretta e rimasi immobile per qualche minuto a guardare la piatta campagna circostante. Quella luna velata di umidità, intenta a farsi un bagno di primavera nelle risaie, per un attimo mi catapultò indietro nel tempo alla mia prima vacanza al mare con gli amici, quando il mondo intero confinava con le pareti di un liceo e i trent’anni rappresentavano una meta così lontana da sembrare irraggiungibile. Mi allontanai con un sorriso stampato sulle labbra, masticando nebbia e imprecazioni.
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