7 gennaio 2005

Matteo Poropat - La fine dell'estate

Premio letterario 'Provincia cronica' prima edizione
Matteo Poropat - La fine dell'estate

Fabrizio pesta sui pedali, anche se la strada è in discesa. Le ruote fischiano sopra le rotaie arrugginite, ultime vestigia di trasporti cittadini in disuso da decenni. Percorre le strade della zona industriale senza nemmeno più vederla, immerso nei suoi pensieri e cullato dai suoni ricorrenti della gita in bici. C’è il ticchettio del sensore di velocità, montato tempo addietro sulla forcella. Non è mai riuscito a sistemarlo correttamente, ma quello che era un suono fastidioso è diventato l’ipnotico avviso che il suo tempo sta entrando nella dimensione del viaggio.
Il cavalcavia affonda le zampe di cemento nell’asfalto della strada. Le crepe tolgono credito alla sua stabilità, i graffiti sulle pareti sono facce conosciute, mostri colorati che lo salutano ogni sabato mattina.
Un camion lo sorpassa accelerando; lascia come ricordo una nuvola di gas di scarico maleodorante e grigiastra, che costringe Fabrizio ad accelerare per passare oltre, mentre dietro di lui il grosso automezzo sterza e imbocca una strada laterale.
Fabrizio ferma le gambe e lascia che l’inerzia trascini con sé lui e la bici, almeno per un po’. Scivola rapido sull’asfalto, passa accanto a un vecchio benzinaio in disuso. Pochi camion questa mattina, pensa, corrugando la fronte, ci devono essere lavori in corso o un incidente sulla strada principale. Comunque sia, tanto di guadagnato. La strada è sgombra; un miracoloso sabato mattina per ogni ciclista.

Ci vogliono almeno venti minuti per arrivare all’incrocio con la strada principale, ma decide di deviare per un giro verso il canale navigabile. Il percorso sfuma e si sfilaccia, mentre accelera ancora, salendo con i rapporti, pedalando in piedi, con la bici che oscilla controllata da un lato all’altro. Arrivato alla fine della strada gira a destra, accolto dal famigliare odore di pesce.
Il molo è deserto, nessuno che pesca, nemmeno i gabbiani che stridono per la fame, impettiti sulle bitte colorate dalla ruggine. Di solito qui ci sono due o tre nonni, avvolti in vecchi giacconi scoloriti, con le canne da pesca tese davanti come salici piegati sull’acqua. Ognuno chiuso nel proprio spazio e nel proprio silenzio, a volte Fabrizio li ha visti rivolgersi un cenno, forse due parole, per poi tornare a immergersi in quella occupazione solitaria, con i lineamenti incisi dall’età, tra rughe, barbe ispide e occhi liquidi come il braccio di mare che usano per passare il tempo.
Fabrizio si ferma, lascia che la velocità lo spinga avanti, e scivola lungo il sellino mentre la bici si blocca. Si ritrova con i piedi a terra, la pancia premuta contro il manubrio; toglie gli occhiali da sole e riprova a guardarsi attorno con attenzione. Non c’è niente, non c’è nessuno.
Incuriosito, ma anche sottilmente preoccupato da questo stato di cose, risale sulla mountain bike, facendo dietro-front e pedalando di nuovo in direzione dei boschi. Ora però c’è qualcosa di diverso. Il suono della pedalata e il ticchettio della ruota anteriore sembrano rumori alieni a quel luogo: disturbano il denso silenzio che si è impadronito del mondo.

Fabrizio attraversa un incrocio che di solito definirebbe una trappola mortale. Troppe direzioni, un unico punto di intreccio; qua è facile non accorgersi di chi arriva, e molto spesso accade, di certo non oggi. Oggi potrebbe attraversarlo a piedi intento a risolvere i rebus illustrati sull’ultimo numero della Settimana Enigmistica. E nulla lo distrarrebbe.
Arrivato dall’altra parte accelera, ripensando all’ipotesi dell’incidente. Allontana l’inquietudine concentrandosi sul movimento ripetitivo del pedalare. Piede dopo piede. Respiro dopo respiro. Un rapporto più duro, uno sforzo maggiore. Il pensiero scivola via come il sudore sui muscoli tesi, la concentrazione è dedicata solo alla strada.
In quello stato di tensione si accorge che un mezzo sta venendo nella direzione opposta. Aguzza la vista. È una famigliare blu, che rimbalza sulle buche dell’asfalto rovinato dal passaggio dei camion, con le gomme che fischiano mentre sterza per restare in carreggiata. Sfreccia nella corsia opposta e suona una volta il clacson.
Fabrizio rallenta e si gira, cercando di vedere il conducente, ma ne ricava un’immagine vaga: un uomo giovane, i capelli scarmigliati, piegato sul volante come fosse sul punto di addormentarsi. Parla. Piange forse. Sul sedile posteriore c’è qualcun altro: due occhi enormi, circondati dal pallido viso di un bambino con i capelli scuri tagliati corti. Ha le mani sporche e la fronte appoggiate al finestrino. Non sorride.
Un brivido inaspettato risveglia Fabrizio dal torpore di quella visione, mentre ritorna a concentrarsi sulla strada davanti a lui. Non ha percorso molti chilometri e sa che se torna indietro poi se ne pentirebbe, dandosi dello scansafatiche. Vuole arrivare al bosco, al prato; sente il bisogno di respirare l’aria calda di quel primo giorno di vera estate, lontano da ogni altra cosa. Pedala ancora Fabrizio, cercando di seminare i dubbi e le paure, pedala più veloce di prima.

Le curve che anticipano l’ultimo tratto di strada sono morbide e piacevoli da percorrere. La bici le segue come se le ricordasse dalle volte precedenti. Nonostante la fatica inizi a farsi sentire, raggiungere quel punto gli dona nuove forze; dista poco dal suo obiettivo e la certezza dissipa ogni altra preoccupazione.
Dagli alberi sui lati, che costeggiano un rigagnolo destinato ad attraversare tutta la regione, giunge il profumo dell’erba umida. È un odore freddo, avvolgente, che fa rabbrividire e inebria. È il profumo della terra gravida, delle pietre lisce e scivolose. Fabrizio lo respira, lo gusta, rallenta un po’, lasciando che il corpo goda di quella zona d’ombra.

Alla fine di quella strada prende subito a destra, e inizia a scalare i rapporti, dal più duro verso il più leggero, ora che il sentiero si arrampica tra le colline sopra la città. Attorno vede i primi prati, nella zona ad accesso vietato, nei terreni costellati dai giganteschi depositi del gas. Enormi cilindri di metallo, alti decine di metri, sono deposti come enormi biscotti puzzolenti a poca distanza gli uni dagli altri. Sono percorsi da vene colorate, grosse braccia di acciaio imbullonato, rosse e gialle, che salgono e si abbassano, avvolgendo i cilindri, trasportando il gas verso le centraline di smistamento.
Questa è una zona da percorrere velocemente, complice l’intenso ronzio che proviene dai prati, prodotto dai sistemi di controllo elettromeccanici dei serbatoi, e soprattutto a causa dell’onnipresente puzza di gas. È come stare in una stanza che non si satura mai, ma che potrebbe sempre esplodere, portando con sé tutto ciò che la circonda.
Oltre i depositi, finalmente, ha inizio la strada sterrata che porta ai prati. Fabrizio si ferma vicino al primo gruppo di alberi, scende dalla bici e la spinge per una decina di metri tra le pietre appuntite che spuntano dal sentiero, quindi lega lì il suo mezzo, usando la catena che tiene avvolta attorno al mozzo superiore.
Il sentiero pietroso pende da un lato della collina, affiancato da gruppi di ginepri dai tronchi sbiancati e contorti, gli aghi bluastri, che nascondono le bacche con le quali si ottiene un’ottima grappa. Fabrizio pensa alla serata che la attende, in una delle osmize dei dintorni, nella quale proprio la grappa potrebbe avere un bel ruolo da protagonista.
Percorrendo quel sentiero avverte il fiato caldo del vento, che preme con deboli raffiche sugli arbusti, e il frinire intermittente dei grilli. In un angolo della mente ha relegato i pensieri di prima: il silenzio, la solitudine delle strade. Il viso del bambino. L’ennesimo incidente sulla statale che avrà causato qualche morto e il blocco del traffico.

Ci vuole una buona mezz’ora per arrivare al prato. Lo ricordava più vicino, ma è dall’autunno precedente che non ci passa, e il tempo si diverte a dilatare o contrarre se stesso, nei ricordi. Il muretto di pietre però è sempre identico, come se né le piogge, né la bora riuscissero ad avere la meglio su sassi accatastati da un decennio.
La recinzione s’interrompe dove un lungo tronco fa da unico accesso al terreno, com’è consuetudine in tutta la zona di campi sopra la città. Oltre quella soglia si apre il prato, punteggiato di pietre sporche di terra rossiccia, l’erba già ingiallita dalla calura delle giornate precedenti. Fabrizio socchiude gli occhi e respira piano. Come il pane appena tostato, così l’odore dell’erba scaldata dal sole è più di un semplice profumo: è un avvolgente insieme di nozioni sensoriali, come respirare l’essenza stessa dell’estate.
Perso in queste sensazioni si distende e chiude gli occhi. Il vento che prima respirava a difficoltà, tra le case della zona industriale e tra i viadotti della periferia, lì è libero di esprimersi, giocando tra gli arbusti, piegando gli alti steli ingialliti. Fabrizio sente la pelle rispondere con piacere a quel tocco. Si toglie gli occhiali da sole, poggiandoli poco più in là, e controlla l’orologio: ha una buona mezz’ora di tempo prima di doversi rimettere in marcia verso casa. Potrebbe chiamarla e avvisare che farà tardi. Non ne sarebbe felice, pensa, ma riposare nel prato un po’ di più, in quel bel giorno d’estate, vale certamente un piccolo litigio. Toglie il cellulare dalla tasca del marsupio e compone il numero, poi rimane in attesa. Il telefono, dall’altra parte, è acceso e squilla. Finché l’operatore non lo avverte che non c’è stata alcuna risposta.
Fabrizio torna a distendersi, infastidito. Si chiede a cosa serve avere un cellulare se quando chiama lei è sempre da un’altra parte e non lo sente. Pazienza, pensa, mezz’ora di tranquillità e poi si riprende la strada di casa. Lascia che i pensieri vaghino liberi, come le poche nuvole biancastre che si sfaldano verso l’orizzonte; tra queste ne veleggiano alcune più scure, di un grigio scuro e lucido, probabilmente foriere di un temporale estivo.
Passati alcuni minuti sente le palpebre abbassarsi; la mente, cullata dal ronzio degli insetti, non riesce a opporre resistenza. Ci devono essere così tanti grilli, pensa scivolando nel sonno, e ci sono così tanti suoni, nell’erba.

Al risveglio, aprendo gli occhi, l’unico rumore è ancora quello dei grilli. Attorno a se vede solo gli alti steli d’erba, che nascondono gli insetti alla vista. Li immagina acquattati, agganciati alle foglie con le zampe uncinate, mentre gli arti frontali, liberi, vengono strusciati tra loro per produrre quella vibrazione.
Fabrizio si stiracchia, assaporando l’incombente momento del ritorno. Vorrebbe riposare, lasciarsi cullare ancora dal calore della terra assetata, ma nel sonno ha perso la maggior parte del tempo a disposizione. Si alza, mettendosi seduto, e si pulisce una mano con l’altra, dall’erba e dalla terra. Il verso dei grilli si è fatto più intenso, trasportato probabilmente dal vento, è divenuto un suono denso, continuo e fastidioso.
Il primo tremito del terreno lo fa sobbalzare. Si trova inginocchiato, di nuovo con le mani a terra, mentre si accorge che tutto, attorno a lui, tace. Si alza in piedi e si gira. E a una decina di metri, immobile nel campo, lo vede.
Ha le dimensioni di un cavallo, nero e lucido, lo stallone infernale del cavaliere nero delle leggende. Le ali membranose sono ricurve, percorse da striature giallastre che si diramano verso l’esterno da una venatura centrale. Il ventre è rossiccio, diviso in segmenti orizzontali larghi come un braccio. Ai lati due arti poderosi sostengono quel corpo pulsante, divaricati e aperti, ricoperti da decine di brevi rostri di cartilagine. Il corpo è distante molti metri, ma è anticipato da un lungo paio di antenne nere e filamentose, che oscillano, mosse dal vento, e arrivano quasi a sfiorare la testa di Fabrizio. La bocca del grillo è formata da una serie di lunghe mandibole, costantemente in movimento. La cavità separa i globi oculari, spezzettati in migliaia di frammenti di specchio nero, ognuno dei quali sembra riflettere il volto terrorizzato del ragazzo.
Fabrizio è bloccato in piedi davanti a quell’apparizione, avvolto nel vento caldo del mezzodì, quando il grillo si limita a muovere gli arti frontali. Fabrizio arretra di un passo, tendendo la mano dietro di sé, per paura di sbattere contro qualcosa. Non riesce a staccare gli occhi dall’essere che lo fronteggia indifferente.
Il grillo strofina le zampe, due lunghe lame coriacee, e ricomincia a produrre il suo verso vibrante. Il suono cresce rapidamente d’intensità, Fabrizio lo sente nella testa, lo avverte nello stomaco. Il mondo attorno a lui inizia a svanire, cade sulle ginocchia, portandosi le mani alle orecchie e strizzando gli occhi per il dolore.
Alle spalle del grillo, che sfrega le zampe senza sosta, in una parodia di muta soddisfazione, il cielo è chiazzato da enormi nubi scure, che si contraggono e si espandono, come un organo vivo e pulsante.
Fabrizio stringe gli occhi, affonda le dita ai lati del viso, sporco dal sangue che gli cola dalle orecchie. Poi apre la bocca e urla; un suono acuto che si perde nella cacofonia ronzante che lo circonda.

Quando il corpo ha smesso di contorcersi, attorno a ciò che resta di Fabrizio non c’è più niente. Il campo è completamente silenzioso, a parte il sussurro del vento che muove le poche foglie rimaste sui rami bassi degli alberi.
Il tempo sulle colline è ancora sereno, le poche nuvole si sono diradate, trasformandosi in pennellate di grigio sul cielo d’estate.
Solo verso la città, banchi di nuvole sfilacciate, vaste e nere, stanno calando; gravide e pulsanti si muovono comunque rapide e silenziose. Come i suoni nell’erba.

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