3 gennaio 2005

Paola Tacconi - Peperoni, pazzi e puttane

Premio letterario 'Provincia cronica' prima edizione
Paola Tacconi - Peperoni, pazzi e puttane

A chi arriva glielo si dice subito: “Voghera è la città delle tre P”.
Di solito quello ti guarda con aria interrogativa e allora tu, da veterano, gli dici anche che
è una città dormitorio, così non si fa illusioni.
Chi arriva a Voghera, di solito, sospira rassegnato.

Chi arriva a Voghera, lo fa per prendere casa. Se ce la fa, la compra dalle parti della stazione che “…in un attimo sei a Milano e poi è comodo, c’è un treno ogni ora”.
Chi c’è arrivato per questo motivo, di solito si lamenta dello slalom che deve fare la mattina per schivare le bottiglie di birra lasciate dagli extracomunitari nel parco davanti ai treni, quelli che “…ce ne sono troppi! …e poi quando passi ti guardano stando seduti sulle panchine. Chissà cosa vorranno quelli?”.

Anche le casalinghe sono arrivate a Voghera e siccome non c’era nient’altro, han trovato il modo di diventare famose. Loro certo non si sono fatte intimidire dagli uomini neri delle panchine. Sono donne pratiche. Nulla hanno in comune con le signore che a Voghera ci sono arrivate con i mariti. Loro, vocate dalla natura, si muovono in sciami e custodiscono il buonsenso materno e protettivo della donna di sostanza. Poco importa se qualcuno, in passato, ha ironizzato sulla loro presunta attività extra per arrotondare lo stipendio del capo famiglia. Loro, imperterrite impazzano, e sembra di vederle ancora irrompere armate di quintali di presine tricot variopinte. Nemmeno il silicone le ha impressionate. Usano l’innovazione tecnologica e conservano la tradizione: la tentazione dell’estinzione per cause naturali non le tocca nemmeno!

Anche le puttane sono arrivate a Voghera, ma non si sono fermate, loro.
Appena scese dal treno fanno lo slalom tra le birre ancora attaccate agli extracomunitari che le bevono e rifanno lo stesso tragitto al ritorno, quando le bottiglie giacciono ormai abbandonate per terra.
Sono meno agili al mattino e un po’ più usate del giorno prima, le puttane, ma rifanno lo stesso tragitto al contrario e si ritirano come la marea.
Hanno cambiato fisionomia, le belle, si sono adattate per resistere alla tentazione dell’estinzione naturale. I loro occhi sono diventati scuri, la pelle di velluto nero brillante sotto i lampioni, alcune hanno optato per tratti asiatici dalla fisionomia sofisticata. Altre arrivano da un viaggio più lungo, iniziato ancora dentro l’utero materno e troppo presto abbandonato come un discorso lasciato a metà.
Lanciate in una vita nella quale il genere è una lotta continua.
Lasciate in una realtà che le vede in balia della grammatica senza fantasia di uomini bacchettoni e di un marketing che le incoraggia soprattutto in provincia.

I loro clienti, anche loro, sono arrivati a Voghera. Alcuni abitano nei pressi della stazione ferroviaria che collega così bene Milano alla provincia.
Molti di loro hanno comprato casa, scegliendola insieme alla famiglia.
Molti di loro, dopo aver smesso i panni penduli di pendolari indolenziti nella camicia inamidata, tirano fuori la macchina dal garage e fanno finta di esserci appena arrivati a Voghera, mentre vanno a cercarsi un’avventura da vivere, un’esistenza da bersi tutta d’un fiato. Le bottiglie che loro lasciano, alla fine, si ritirano solitarie come maree silenziose.

Chi arriva a Voghera spesso sogna di andarsene ma non lo fa perché c’è recessione.
Chi arriva a Voghera impara che qui c’è una consuetudine politica che nulla ha a che fare con la fede ma che non ama le tinte forti. E allora cerca di adeguarsi perché l’estinzione per cause naturali è dietro l’angolo.
“Non è sbagliato vivere in comunità organizzate nelle quali c’è chi ti amministra e pensa a cosa potresti desiderare”, pensa il Vogherese doc, l’importante è che, chi arriva, capisca che non bisogna rompere l’armonia e la tranquillità e che l’imposizione di tabù è fisiologica, normale, rassicurante. Chi a Voghera si trova a suo agio, pensa di solito che chi si oppone è anarchico e mina la sicurezza della società stessa.
Le signore che a Voghera ci sono arrivate con i mariti sono eleganti.
Comprano vestiti coordinati in colori tenui o basic perché “il rosso è da terrona”.
Comprano anche accessori firmati in abbinamento. Non disdegnano il tarocco ma lo comprano fuori porta e lo comprano solo se filologicamente corretto. Analizzano l’oggetto con minuziosa attenzione in cerca di qualche particolare che possa farle cogliere in fallo una volta tornate.
Accompagnano i figli a scuola cercando di parcheggiarci il più vicino possibile.
Quando non ci riescono sgambettano velocemente con le loro sneakers blasonate ammanettate al loro bambino.
Salutano la maestra con un sorrisone sbiancato dall’ultimo intervento del dentista.
Se cadesse loro il portafoglio, scroscerebbe sulla strada un fottio di tessere di plastica colorata che si affannerebbero a raccogliere ridacchiando nervosamente, illustrando alle mamme astanti e ammiccanti:
“ …accidenti ai portafogli! Oddio ecco la tessera della palestra LA CHIAPPA PERFETTA …ci ho messo mesi per poterla avere ci manca solo che la perda!!! E la tessera di ALFONSO il parrucchiere delle dive?.. sulla scheda magnetica ha salvato tutti i miei set up…non oso pensare a cosa direbbe se la perdessi… un delirio….!”
Ma il portafoglio non cade e la moglie risale sulla piccola utilitaria tinta avorio satinato, tanto chic, compratale dal marito e corre incontro ai mille impegni di una giovane donna non occupata in un
lavoro esterno alla casa coniugale (…definirsi casalinga a Voghera non è per tutte).

La signora arrivata a Voghera con il marito, il sabato sera va a mangiare la pizza con tutta la famiglia.
Prenota in anticipo, telefonando per tempo, non oltre mercoledì sera.
C’è una sola pizzeria che possa soddisfarla, non trovare posto pregiudicherebbe il buon esito di tutto il week end. Il marito ne ha già fatto le spese in passato.
Quando esce di casa fa guidare lui perché con i tacchi è scomoda e poi perché: “la macchina grossa è meglio che la guidi tu che lì è un casino parcheggiare.”
Si guarda intorno, passando, e si lamenta che “i negozi che vendono Kebab sono diventati veramente troppi”.
Il marito al volante annuisce e racconta: “…pensa che ormai gli extracomunitari sono talmente tanti che mi tocca fare lo slalom per schivare le bottiglie di birra quando vado in stazione al mattino!”
La moglie bofonchia e scrolla la testa in segno di disapprovazione. L’idillio è perfetto.

Nella sala della pizzeria una manciata di tavoli rotondi con doppia e tripla tovaglia sono disposti in modo ordinato come tanti dervisci rotanti. Colori coordinati e posate lucidissime.
La mamma solleva il colletto della polo del bambino di quattro o cinque anni e sorride aspettando il cameriere.
Intanto ai tavoli attorno sono già approdati gli shuttle che sorreggono succulente pizze a metro tra le più originali mai sentite. Gorgonzola e noci; culatello e asparagi e per i più esotici ananas e prosciutto.
La mamma scosta la mano al bambino, che, infastidito dal colletto dritto della sua polo, si stava grattando e gli sussurra, “Sta bene così lascia stare…” e il motivo scozzese sui toni del bianco nero e marrone ritorna ben in vista e verticale, mentre il bambino pensa già alla sua “patapizza”.

Quelli che a Voghera ci fanno crescere i figli sono previdenti.
Non hanno di norma più di due “gioielli” e la loro occupazione principale è assicurare loro l’accesso ad una scuola nella quale non ci sia più del dieci percento di stranieri.
Si affannano a spiegare alle maestre che: “…non si tratta di razzismo per carità! ...è solo che il ritmo di apprendimento rallenta e i bambini stranieri hanno più lacune e le mie figlie vogliono fare il classico dopo, quindi lei capisce…”. Ammiccano stringendosi nelle spalle con l’aria di chi è costretto a dire una scomoda verità ma lo fa per il bene di tutti, Rom compresi.

Quelli che a Voghera ci stanno anche nel week end, il sabato lavano la macchina per averla lucida la domenica.
Si dividono in base a un istinto naturale, tra le due messe comandate e il piazzale del Duomo si corazza di mille lamiere luccicanti e pulite ad arte.
Più vicine al selciato della chiesa trovano posto le auto scure di grossa cilindrata, dalle quali scendono sinuose gambe abbronzate e caviglie urlanti su tacchi colpevoli.
Via via, come il declinare di una morbida collina, si adagiano auto sempre meno fashion dalle quali escono gambe sempre meno affusolate e i tacchi diventano sempre più innocenti e grassocci, fino ad arrivare alle utilitarie ammaccate della vita di tutti i giorni, loro, dimesse, sembrano sbiadire nel colore pur di non farsi notare e le signore che ne scendono sfoggiano spesso zeppe coloratissime e ottimiste ma francamente senza speranza.

Il giovane che Voghera ce l’ha dentro fa la vasca in Via Emilia.
Il passo è stanco e molleggiato per i ragazzi, mentre le ragazze affrontano la passerella a gamba tesa, sculettando, chi con stile, chi no.
Sul “gray carpet” varia umanità adolescenziale.
Hello Kitty che si sprecano dondolano affannate, appese a liane di perle di plastica che si aggrappano senza riposo su seni appena accennati. Odore di lucidalabbra dolciastri e ballerine che sottolineano caviglie ossute.
Ragazzi scavallati in jeans mongolfiera a contenere bacini di solito magretti e lampadati, mutande a costine con elastico da boxeur e capelli raddrizzati con la forza e gelati nella loro migliore performance con l’aiuto della chimica.

Chi a Voghera vuole viverci, ha bisogno di fare shopping.
Chi a Voghera vuole sopravviverci ha bisogno, parimenti, di fare shopping.

Le persone sembrano capire da sole se sono abbastanza griffate.
In caso di insufficienza si aprono due vie: rimediare e fare più shopping oppure scegliere un dignitoso ritiro a vita privata e ascetica.
Due proiettili in canna e via con la roulette russa!
Se vuoi essere nella Voghera giusta ti devi identificare con loro.
Se vuoi essere nella “Voghera da bere” devi escludere chi ancora crede di poter avere una maglia senza il giocatore di polo o l’anatra che spicca in volo.
Guai a farsi beccare ancora con una margherita da qualche parte…archeologia del glamour!
Una cosa così ti sega le gambe ameno che tu non stia facendo giardinaggio davanti casa, allora è
IN.
Le persone che gli altri decidono che sono out, sono out anche per te, altrimenti sei out tu stesso.
Out in inglese vuol dire fuori.
Quelli come me, sono sempre e comunque OUT.
Non c’è coccodrillo, coroncina di alloro o altro distintivo che tenga.
Io e i peperoni, da Voghera siamo fuori.
Non si coltivano peperoni in centro.
Devi cercare i campi attorno alla città, e lì, ci puoi arrivare con la tangenziale.
Quelli che arrivano a Voghera, possono prendere la tangenziale, ma non è una strada normale.
Una tangenziale tange, non entra, conosce, non invade, schiva la realtà e se ne sta al limite estremo, evade la realtà, ci gira attorno. Puoi farlo per una vita intera.
Chi a Voghera ci vuole arrivare, prima o poi, la deve abbandonare, la tangenziale. Non ha altra scelta.
La gente che a Voghera ci vive, quando mi incontra, prende tangenziali verbali.
“Come stai Alfredo! Che bella maglietta! Hai visto la Juve? Che goal! Allora ciao eh… Stammi bene!...”.
Freccia, lampeggiante a destra, verso la prima uscita disponibile: la conversazione è finita e io continuo solo sulla mia strada extra urbana.
Io sono lì che guardo e loro sono già in lontananza.
L’unica cosa che mi ricordo è l’espressione del loro sguardo eloquente.
Desiderio di cambiare in fretta discussione e interlocutore.
Quelli come me sono in tangenziale anche quando fanno la vasca in Via Emilia, quando vanno al cinema Arlecchino o quando contano le macchine in Piazza Duomo la domenica mattina alle 11,00.
Quelli come me in tangenziale ci sono nati e c’erano anche quando vivevano all’ospedale psichiatrico in Viale Repubblica.
Quelli come me a Voghera li chiamano “pazzi”.
Quelli come me, che di Voghera fanno parte solo grazie alle tre P, in tangenziale ci rimangono volentieri per resistere alla tentazione dell’estinzione naturale. Per resistere alla golosa sensazione di abbandono, per non adattarsi più ai cambiamenti, per non esserne più vittime o per non dover spiegare agli altri che i cambiamenti ci lasciano sempre e comunque uguali a noi stessi e che
in fondo non andiamo da nessuna parte.
Non puoi dire a un matto che è matto. Me lo diceva sempre il mio papà. Non puoi dire alla gente che ha torto: a Voghera la maggioranza ha ragione per forza.
A volte ho la tentazione di esistere nel senso naturale del termine, per un po’, finché dura, finché non ci si scioglie nel sole e si evapora in tangenziale, sull’asfalto fumante del mese di agosto. Fino a diventare miraggi coscienti, diventando finalmente parte fondante del tutto.
Il mio ospedale l’hanno chiuso nel 1998 perché in sostanza hanno detto che i pazzi non è giusto chiamarli così.
Io sono diventato un po’ meno di Voghera e un po’ più sano in una botta sola.

11 commenti:

  1. Bel racconto, esemplare di come una provincia forgia le persone, complimenti Paola!
    lisa

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  2. Grazie Lisa, il pazzo che è in me si è divertito molto scrivendolo!
    Paola

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  3. Bello tutto. Lo stile, l'argomento, la conclusione...
    Scrivi ancora e subito, Paola!
    Valerio

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  4. Grazie Valerio, il tuo commento per me è una vittoria!
    Paola

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  5. Una volta ho dovuto cambiare treno a Voghera. Erano le 3 di mattina e mi sa che ho fatto bene a non perdere quella coincidenza...

    Scrivi davvero bene, Paola! Complimenti

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  6. Grazie mille Paul...detto da te vale doppio!!!

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  7. mamma mia che carrellata di luoghi comuni. Uno dei peggiori articoli mai letti. Dammi retta scrivere non fa per te. Stefano.

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    1. Grazie per la critica, il racconto parla proprio di Voghera come "luogo comune" anche fisico. Il concorso chiedeva di parlare della provincia cronica quindi se hai percepito quello che hai scritto sono molto soddisfatta di me.

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    2. Tra l'altro non è un articolo... Gabri

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  8. Da vogherese dico questo: è perfetta!!!
    Posso citarti nella lettera motivazionale per l'Erasmus??..voglio puntare tutto sulla pietà

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    1. ...grazie per il tuo commento! In bocca al lupo per l'Erasmus!

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